Michel Hazanavicius
Il cinema nell'era del sonoro si è dilettato raramente di ripescare la forma del muto. Potremmo citare “Silent Movie” (“L'ultima follia”) di Mel Brooks e “Juha” di Aki Kaurismäki. Ora il bellissimo “The Artist”, scritto e diretto da Michel Hazanavicius, ha avuto un buon successo, al quale evidentemente non è estranea la curiosità (potesse innestare un revival del muto! Ma questa è utopia).
L'argomento, ovviamente, è d'epoca. Negli anni '20 George Valentin (Jean Dujardin) è una grande star, con una vita di successo e un matrimonio in crisi. Viene fotografato casualmente con una bella ragazza aspirante attrice, Peppy Miller (Bérénice Bejo), e ciò lancia la ragazza nel mondo del cinema. Il guaio è che di lì a poco il cinema inizia a parlare (to talk). Mentre Peppy - che è segretamente innamorata di lui - diventa in breve una diva, George vede la sua carriera rovinata (come nella realtà successe a John Gilbert e molti altri); ma l'orgoglio gli impedisce di fare i conti con la vita. Di qui una storia di caduta e redenzione, misto di deliziosa commedia e autentico dramma; avvalendosi di splendide interpretazioni, Hazanavicius la racconta in bianco e nero, con un formato che ricorda le vecchie pellicole mute (ma non è lo stesso come qualcuno ha scritto) e naturalmente muto. L'unico momento in cui sentiamo i rumori, a parte il finale, è nell'interessante sequenza dell'incubo di Valentin. Detto fra parentesi, si crea un piccolo problema espressivo perché vediamo muti anche i frammenti dei film parlati di Peppy, ma non si poteva fare altrimenti.
Michel Hazanavicius comprende perfettamente il concetto del muto. Il cinema muto non era il cinema sonoro senza il suono. L'impossibilità di dialogo continuato o di voce narrante comportava un modo particolare di caricare di significato le immagini: il cinema muto si basava su un'idea totalmente visiva (e infatti quando venne inventato il sonoro diversi teorici del cinema si preoccuparono, non a torto, che andasse persa questa concezione visuale e il cinema si trovasse risospinto verso il teatro). In “The Artist” è un eccellente esempio di questa concentrazione di significato nel visivo l'immagine della locandina del film fallito di George caduta a terra sotto la pioggia e calpestata dai passanti. Oppure il frac di Valentin nella vetrina del monte dei pegni, sopra il colletto del quale vediamo, riflessa nella vetrina, la testa del suo ex proprietario che lo guarda tristemente. O anche lo stupendo gioco “chapliniano” di Peppy col frac di George, nel camerino di quest'ultimo.
Lo stesso vale per il rapporto della didascalia con l'immagine. Il suono di un colpo di pistola e quello di un'auto che va a finire contro un albero sono diversi, ma ambedue si esprimono graficamente con un “Bang!” - solo il cinema muto poteva permettersi di giocare su di questo mediante una didascalia ambigua (ci aspettiamo il primo significato e vediamo il secondo): in modo da produrre la sorpresa, e il sollievo, che proviamo in una scena cruciale di “The Artist”.
Tutto il film ha un valore storico/filologico nella messa in scena. I vari film-nel-film sono in pieno stile dell'epoca: lo mostrano non tanto le ombre e le inquadrature sghembe della scena di tortura nel primo (perché questo è ovvio) ma piuttosto il modo in cui nel secondo, mentre George e Peppy danzano, l'inquadratura esalta il profilo dell'attore. Oppure si guardi come in entrambi i film di cappa e spada interpretati da George Jean Dujardin fa il verso a Douglas Fairbanks. E nel finale la scenografia ricorda perfettamente i numeri di Fred Astaire.
In “The Artist” ritorna nelle scene più drammatiche un'enfasi linguistica (le inquadrature angolate) che ricorda il cinema americano “classico” fine anni '20/anni '40, con l'ottima score di Ludovic Bource “in stile”. Il riferimento è già dichiarato nei bei titoli di testa. Si può notare anche l'uso - però troppo limitato per essere davvero rilevante - di segni d'interpunzione d'epoca come iridi e tendine.
Questa è un'indubbia dimostrazione di capacità, ma Hazanavicius non si limita a comporre semplicemente un abile pastiche: mette in opera un autentico talento. “The Artist” ne dà numerose prove. Per fare qualche esempio: la bella scena del balletto fra George e la sconosciuta di cui si vedono solo le gambe, di qua e di là di un fondale; l'apparizione a George ubriaco dei personaggi del suo ultimo film, lillipuziani, sul bancone del bar; il dialogo di George con la sua ombra (che se ne via via sprezzante!) nel quadro di luce vuoto del proiettore. Da notare l'uso dei poster di film - naturalmente d'invenzione - che compaiono nella narrazione in funzione di commento interno alla vicenda stessa, come un accenno di mise en abyme: “The Thief of Her Heart” quando Peppy parla con George in camerino e lui le aggiunge a matita sul labbro quel neo che farà la sua fortuna; “Lonely Star” quando George si allontana tristemente dopo aver messo all'asta i suoi bene; in modo più vago, “Guardian Angel” è il titolo del film di Peppy che George ormai rovinato va a vedere. Solo che George è troppo orgoglioso per accettare un angelo custode.
Il film ruota intorno alla parola talk. C'è un doppio senso simbolico fra il cinema parlato (talking) e il to talk della moglie, che sta per lasciarlo, nelle battute “Dobbiamo parlare, George” e “Perché ti rifiuti di parlare?” (più tardi, anche Peppy in una triste visita: “Volevo parlare con te”). Perché il problema di George Valentin è che non riesce a parlare con gli altri. Il suo rifiuto di comunicare con chi lo ama e il suo rifiuto del cinema sonoro si unificano nel doppio uso di talk - pertanto la storia del passaggio dal muto al sonoro si riflette nella sua vicenda personale non solo a livello diegetico ma attraverso un'intelligente invenzione linguistica. Così, di un happy ending che non occorre rivelare si può dire questo: non solo il cinema ma anche George Valentin ha imparato a parlare.
sabato 31 dicembre 2011
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