martedì 26 febbraio 2013

Anna Karenina

Joe Wright

Anna Karenina” non solo inizia con l'adulterio di Oblonskij (fratello di Anna e cognato di Aleksej Karenin) messo in scena in forma di rappresentazione teatrale: tutto il film si mette in scena come teatro. La linea di lampade che segna il limite del palcoscenico compare spesso a ricordarcelo. Il teatrino per bambini... s'intende i bambini ricchi dell'aristocrazia russa dell'Ottocento... che vi compare è come una simbolica mise en abyme del film stesso (e infatti lo chiude con un'inquadratura finale che intende enunciare il senso teorico dell'intera operazione).
Gli sfondi cittadini - dalle finestre e non solo - sono fondali dipinti. Talvolta le comparse si immobilizzano in posizioni “congelate” che sono puro teatro (come nel primo ballo fra Anna e Vronskij), e sempre del teatro molti passaggi posseggono la continuità spaziale/temporale. Fra i due poli dell'astrazione teatrale e dell'(illusorio) realismo cinematografico, il film di Joe Wright alterna non senza intelligenza la sua narrazione, entrando e uscendo dall'astrazione scenica. Proprio come il treno - che in “Anna Karenina” gioca un ruolo basilare - a volte è un modellino, a volte è una locomotiva vera in un ambiente fittizio, a volte è una pura costrizione astratta, approfittando del fatto che il gelo russo lo trasforma in un blocco oblungo di neve ghiacciata.
Alcune soluzioni sono follemente audaci (penso alla corsa dei cavalli). Alcune sono molto intelligenti. Per esempio, a un certo punto Kostantin Levin dopo la sua scena sale per una ripida scaletta e si aggira nel ballatoio del teatro; in teoria ciò dovrebbe restituirlo alla sua qualità di attore ma non è così: come sempre nel film resta personaggio, è Kostantin che va a trovare suo fratello in una misera soffitta; e questa trasformazione del luogo da ballatoio a soffitta è bella invero.
Lo sceneggiatore è Tom Stoppard, che ha sempre amato costruire macchine metanarrative. Il suo piacevole film “Rosencranz e Guildenstern sono morti” - che ha diretto portando sullo schermo la propria pièce - è una sorta di retelling dell'“Amleto” attraverso gli occhi di due personaggi minori, nonché vittime designate, della tragedia: che attraversano la storia senza capirne niente, muovendosi come una coppia di clown beckettiani. Così anche nel presente film Stoppard sostituisce una complessa impalcatura intellettuale
all'immediatezza cinematografica e melodrammatica.
Da questo punto di vista, l'ennesimo “Anna Karenina” della storia del cinema è indubbiamente interessante. Resta assai opinabile se sia un'operazione riuscita.
Le obiezioni a questa audace costruzione del film sono fondamentalmente due. La prima è che tutto ciò, nonostante l'impeccabile realizzazione, finisce per apparire sgradevolmente programmatico. Tanto più che Wright e Stoppard hanno avuto un'idea davvero orribile: quegli spazi aperti che definiremo “autentici” sono quasi sempre collegati al personaggio di Konstantin, non quando è in città ma quando è chez soi in campagna (che per Tolstoj è il luogo della verità esistenziale). Come dire che si vuol legare al personaggio una concezione di autenticità attraverso questo trucchetto – il che è veramente kitsch. Significa far passare la concezione tolstoiana non per via narrativa ma attraverso un mezzuccio di complemento.
La seconda obiezione va più in profondità; e per quanto riguarda il giudizio estetico sul film (che è una trascrizione da Tolstoj e come tale deve pagare lo scotto dell'altezza del suo proposito) risulta distruttiva.
Infatti, nel momento stesso che ci si rende conto della natura dell'operazione, inevitabile sorge in testa il dubbio: non sarà un modo di regolare l'intensità della passione, di raffreddare il mélo? Risposta esatta, purtroppo!
Così nella grande storia di Anna, Karenin e Vronskij si perde la loro realtà profonda. Non assistiamo al gioco drammatico dei sentimenti ma a una messa in scena dello stesso, ove l'astrazione funziona come un filtro. Il film di Wright non arriva mai al sublime delle passioni, al calore ribollente del mélo, alla realtà fiammeggiante e terribile dell'amour fou. Diciamolo francamente: l'unico modo di fare “Anna Karenina” è quello totale e disperato di Greta Garbo.
L'“Anna Karenina” di Joe Wright mostra perfettamente il limite del cinema occidentale (o d'una parte assai maggioritaria di esso) rispetto a quello orientale. Ed è la paura di mostrare l'estremismo del sentimento. Laddove nel cinema cinese, coreano, giapponese e via dicendo, questa immediatezza dei sentimenti sullo schermo, senza vergogna di esibirli, è ancora viva. Ne è simbolo quella classica lacrima solitaria che scende sulla guancia, un topos visivo di tutto il cinema orientale (sì, la vediamo anche sulla guancia di Anna nel finale, quand'è sottoposta all'ostracismo della società. Ma arriva troppo tardi e in una condizione narrativa che la impoverisce anziché esaltarla). 
Keira Knightley è una buona Anna Karenina - ma è capitata nel film sbagliato. Perché ha quel tipo di recitazione realistica, prima trattenuta e poi capace di esplodere in melodramma irrefrenabile, che sarebbe stato adatto in una versione “tradizionale”. Ottimo Jude Law nel ruolo di Karenin: nel suo viso irrigidito si palesa il dramma di un uomo onesto (sarebbe sbagliato dipingerlo come un filisteo) che vede i propri limiti messi alla prova da una tempesta di passione che non comprende. Molto buoni gli interpreti in generale, dalla Kitty di Alicia Vikander alla principessa Betsy di Ruth Wilson; ma vorrei segnalare in particolare Matthew Macfadyen (già un eccellente Lord Darcy in “Orgoglio e pregiudizio” dello stesso Wright), il quale incarna Oblonskij in un'interpretazione venata di un controllato humour mimico che fa pensare a Kevin Kline.
Invece alquanto debole è Aaron Taylor-Johnson, un conte Vronskij svirilizzato, un ricciolone biondo con baffetti stentati che sembra più che altro un adolescente iperemotivo (oserò dire tipo “Twilight”?). Lasciateci dire che qualsiasi eroina della grande letteratura russa se lo sarebbe mangiato a colazione uno così.

domenica 17 febbraio 2013

Zero Dark Thirty

Kathryn Bigelow

Se non sconvolgente come lo splendido e doloroso “The Hurt Locker”, “Zero Dark Thirty” di Kathryn Bigelow è comunque un grande film – anche senza tener conto della soddisfazione individuale che procura quando tre pallottole dei Navy Seals si piantano nella putrida testa di terrorista assassino di Osama Bin Laden alla fine di una caccia decennale.
L'apertura ci fa ascoltare, sullo schermo nero, la registrazione autentica della telefonata sconvolta di una delle vittime, passeggero su uno dei due aerei quando sta per schiantarsi sulle Twin Towers l'11 settembre 2001. Questo serve a porre il ground morale del racconto della caccia della CIA a Bin Laden – tanto che fa tornare alla mente una citazione del “Macbeth”: “La loro giusta causa inciterebbe a spargimento di sangue e grida di guerra persino l'eremita votato alle mortificazioni”. Ma la presa di posizione è morale, non narrativa: il racconto è rigorosamente matter of fact. Kathryn Bigelow e lo sceneggiatore Mark Boal concentrano questa lunga caccia nella figura femminile di Maya (Jessica Chastain) che ha l'intuizione di scovare Bin Laden seguendo la traccia del suo messaggero più importante, e prosegue la sua ricerca attraverso successi ed errori, intuizioni e passi falsi, attraverso le sfide all'incredulità altrui e la frustrazione di chi sa di aver centrato un bersaglio che altri non vedono. Il film utilizza la sua sensibilità femminile non in termini di contraltare emozionale o intuitivo al decisionismo razionalizzante maschile ma, all'opposto, come capacità di fissare il punto centrale e tener duro su di esso senza lasciarsi deviare dalle incertezze e dalla volubilità dei colleghi, che badano solo al risultato immediato (è quasi una pagina satirica quella della riunione col direttore della CIA in cui tutti i maschi cercano di darsi un'aria analitica e oggettiva sparando percentuali di probabilità).
A Washington dicono che è una killer”, sentiamo riferire di Maya poco dopo la sua apparizione nel film. Quella della protagonista per scoprire il covo di Bin Laden è un'ossessione – analoga all'ossessione del sergente di “The Hurt Locker”. Vero che quella proveniva dalla guerra come droga (citazione in esergo al film) mentre nel caso di Maya l'ossessione ha una più precisa base morale: “Voglio prendere i responsabili di questa barbarie - e voglio uccidere Bin Laden”, grida dopo l'attentato in cui è morta anche la sua amica (è bene avvertire che il testo originale è più sobrio del doppiaggio italiano: non dice il retorico “questa barbarie”, dice “questa operazione”, this op). Nondimeno è evidente un carattere ossessivo comune – e di qui il cupo senso di vuotezza del “dopo”, di cui si fa portatore il lungo drammatico PPP che chiude “Zero Dark Thirty”. E' quasi inutile ricordare come questa del forzarsi al proprio estremo (“avventurarci nel tratto buio in fondo alla strada”: “Strange Days”) sia l'essenza del cinema di Kathryn Bigelow (la citazione è di Aldo Viganò).
In completa opposizione alle regole hollywoodiane, il film non si costruisce come un ordinato processo drammaturgico di avvicinamento al climax - la magnifica pagina della spedizione dei Navy Seals - ma scorre verso di esso come un fiume dalle ampie anse lente. Così il fatto che lo spettatore già conosca la conclusione positiva non gli impedisce di sentire acutamente la frustrazione scoraggiante di una lenta ricerca che sembra un girare in tondo senza sbocchi. Anche in ragione di questa identificazione empatica il film si focalizza totalmente su “noi” in contrapposizione a “loro”: sui cacciatori americani, al massimo sulle vittime degli attentati come quelli di Londra, mentre i terroristi islamici appaiono solo in relazione ai “nostri”, mai come controcampo narrativo; non hanno sequenze autonome proprie (fa eccezione una riunione di terroristi nelle “zone tribali”, ma è brevissima, visualizza informazioni ricevute, e sembra quasi un film rubato).
Zero Dark Thirty”, dicevamo, sposta tutto il racconto sul piano del puro fatto. E' una rarità assoluta se non un unicum nel campo del cinema americano un film che asciuga così totalmente, e vorrei dire spietatamente, il plot eliminando il gioco sentimentale. E' un grande film senza romanticismo. Non che Kathryn Bigelow non lo possegga nelle sue corde (basta pensare agli amori immortali sotto le stelle de “Il buio si avvicina”); ma qui, ancor più che in “The Hurt Locker”, se ne astrae, portando agli estremi limiti la lezione di Howard Hawks: un cinema di persone che sanno fare il loro mestiere. Dunque la regista rinuncia a quello che è sempre stato un portato irrinunciabile del film di guerra: il côté dei sentimenti (magari solo alluso come un “di là” rispetto alla narrazione). Non sappiamo niente di Maya. Ha avuto degli amori? ha figli? le piace la pittura? le piaceva la scuola da bambina? ha un gatto? (persino la ferrea Ripley di “Alien” aveva un gatto). Ma questo non è perché “Zero Dark Thirty” la mostri emotivamente fredda... c'è anche, all'inizio, una bellissima pagina di recitazione di fronte alla tortura dei terroristi prigionieri... ma perché tutto il film si concentra interiormente sulla sua incrollabile determinazione ed esteriormente sul qui ed ora della narrazione.
Infine tutto sfocia nella splendida sequenza della missione dei Navy Seals, che partono con elicotteri invisibili nella notte per andare a “terminare Osama nel suo nascondiglio ad Abbottabad (il film non grida ai quattro venti ma diplomaticamente lascia intendere la complicità del Pakistan con il terrorismo islamico). Nessuno aveva reso tanto memorabile un volo di elicotteri da guerra fin dai tempi di Coppola in “Apocalypse Now” - ma rovesciandolo: quello era luce, fragore, potenza, Wagner; questo è buio, silenzio, pericolo, sorvolare furtivi un paesaggio che la notte rende incantato.
E poi l'attacco alla casa, con l'alternanza delle soggettive verdi dei visori e delle oggettive buie, il tutto scandito dall'abbaiare dei cani, mentre le prime figure di gente allarmata sui tetti delle case vicine, le prime finestre che vi si illuminano, creano una suspense che nessuna scena di combattimento potrebbe eguagliare. Non v'è ombra di abbellimento, di “riordino” drammatico o estetico nella scena dell'irruzione. E' isterico affrettarsi, dolore e spavento, incertezza ed esaltazione, e infine la liberazione esausta della vittoria e del ritorno. Se il cinema ama esibire il corpo del nemico ucciso, qui dopo che il capo di Al Quaeda ha incontrato il suo destino non ne vediamo niente se non una barba grigia e un naso insanguinato nell'apertura del body bag.

domenica 10 febbraio 2013

Quartet

Dustin Hoffmann

Proprio come “La migliore offerta” di Tornatore, ambientato nel mondo dell'antiquariato, ha il valore aggiuntivo di essere un film pieno di bellissimi oggetti, “Quartet” (delicato esordio alla regia di Dustin Hoffmann) ha quello di essere pieno di bellissima musica. Tuttavia l'argomento del film non è la musica – sebbene se ne produca e se ne ascolti molta, e molto se ne parli: la lezione sull'opera lirica che Tom Courtenay tiene a un gruppo di giovani è una pagina da antologia. “Quartet”, che si svolge in una casa di riposo per vecchi musicisti, è un film sulla vecchiaia e sui sentimenti.
Strano che questi due termini suonino quasi in contrapposizione! Nella debolezza fisica della vecchiaia, i sentimenti non sono affatto offuscati; anzi, lampeggiano con maggior forza – sia perché è venuta meno la faciloneria della gioventù, che spesso scambia per sentimenti gli umori, sia perché quella stessa debolezza del corpo fa brillare più vividi i sentimenti per contrasto.
Amore, rancore, amarezza e ostinazione sono quelli che muovono Maggie Smith e Tom Courtenay, un soprano e un tenore famosi, che si sono lasciati tempestosamente molti anni prima. Ora, dopo una carriera stellare, si ritrovano alla Beecham House for Retired Musicians. Lei vorrebbe mettere una pietra sul passato, lui fa lo sdegnoso; ancora innamorati, si guardano bene dall'ammetterlo.
Ecco però che la musica rientra in gioco in un senso diverso dal semplice argomento narrativo. Un quartetto è una composizione vocale/strumentale per quatto esecutori, e ciò si attaglia perfettamente a “Quartet”. Il gioco recitativo di interventi, richiami, passaggi, rimandi fra Maggie Smith, Tom Courtenay, Billy Connolly e Pauline Collins (gli altri due componenti del quartetto, che dovrebbe cantare un loro vecchio cavallo di battaglia al galà benefico dell'istituto) è talmente felice da creare un effetto non soltanto da grande sophisticated comedy, ma prettamente musicale. Queste quattro “voci” si contrastano e si fondono in pura armonia.
La sceneggiatura, tratta da una sua pièce teatrale, è di Ronald Harwood, ed è una delle più brillanti che abbia scritto. Immaginate un “Il servo di scena” (il suo capolavoro) in cui il gioco a due si divide in quattro e oltre a ciò si riverbera su tutto un vasto impianto corale – affidato a ottimi attori di contorno, fra cui vorrei citare almeno Michael Gambon, il dispotico organizzatore della serata (il cui eccentrico abbigliamento strizza volutamente l'occhio al suo personaggio cinematografico più famoso, il Silente di “Harry Potter”). Da notare che la maggior parte degli interpreti secondari sono anziani musicisti autentici, e infatti i titoli di coda li presentano accanto a una foto della loro giovinezza musicale.
Il film mentre sviluppa il suo tema principale lancia uno sguardo realistico eppure ottimistico sulla condizione senile – i tradimenti del corpo e della memoria, la tristezza dei bilanci, ma anche l'attaccamento alla vita – che qui si esprime nella musica. E' un film di dialogo e di ritratti psicologici credibili e articolati, dolce senza essere mieloso e spiritoso senza essere farsesco. L'unico modo per portare sullo schermo una sceneggiatura di questo genere era una regia piuttosto classica – e in quanto tale non invasiva, che non stringa i tempi e che lasci tutto lo spazio necessario al parlato. A questo Dustin Hoffman provvede con abilità. Nella sua regia l'eleganza (cito per esempio un aggraziato movimento in dolly durante la passeggiata dei due protagonisti nel parco, oppure la bella entrata dell'arpa extradiegetica che si aggiunge alla melodia diegetica della viola in un'altra scena) è sommessa, al servizio del testo e dei mostri sacri che lo interpretano.

domenica 3 febbraio 2013

Frankenweenie

Tim Burton

Piccoli Dottor Frankenstein crescono: “Frankenweenie” di Tim Burton è il carnival dei mostri.
Il film è il rifacimento, come lungometraggio di pupazzi in stop-motion, del suo splendido cortometraggio live action del 1982, che rendeva omaggio ai primi due “Frankenstein” della serie Universal degli anni '30. Infatti si chiama Victor Frankenstein il ragazzino geniale che non si rassegna alla morte dell'adorato cane Sparky e lo risuscita costruendo una versione casalinga del folle apparato elettrico (spark: scintilla) dei film frankensteiniani. Sia il corto sia il lungometraggio, ça va sans dire, sono in b/n.
Il presente film implica una visione marcatamente diversa per chi conosce il cortometraggio e chi no. Mentre il secondo gruppo non avrà problemi a godere la storia come un tutto, il primo dovrà passare un momento di perplessità iniziale, per un ottimo motivo: la genialità del cortometraggio era di essere girato dal vero, con la voluta naïveté dei trucchi a dargli una particolarissima risonanza. Passare da questo all'animazione sembra buttar via la parte migliore dell'esperimento. Controprova: entrambi i “Frankenweenie” sono aperti da un brevissimo film-nel-film, un film di mostri stile anni '50 girato da Victor - che qui è chiaramente un alter ego del giovanissimo Burton - e “interpretato” da Sparky truccato da dinosauro; un film amatoriale con i trucchi più casalinghi possibili (un paio di guanti da cucina diventano due teste di dinosauri che si battono in primo piano). Questo è esilarante nel cortometraggio, giacché realizza una naïveté di secondo grado rispetto a quella iniziale, che contemporaneamente annuncia e per così dire celebra. Invece nel lungometraggio l'ingenuità del trucco va perduta nel contesto della perdita del realismo fotografico.
Ma tutto ciò Burton lo sapeva assai bene: non poteva realizzare il remake semplicemente ampliando e “colorando” la storia del 1982 (lo fa solo in un punto, la partita di baseball, e infatti è inutile). Ecco allora il colpo di genio: laddove il cortometraggio si concentrava totalmente sulla coppia Victor-Sparky (gli altri personaggi sono sfondo, nonostante un nome come Shelley Duvall), il lungometraggio dilata la visuale “pantografando” la frankensteiniana passione elettrica di Victor per contagiarne tutti i ragazzi della scuola, che diventano dei piccoli Dottor Pretorius (“Stanotte... noi riporteremo in vita i morti!”). La “mostruosità gentile” di Victor si allarga, non più tanto gentile, all'intera città. Presentati gloriosamente con la scena della lezione di scienze a scuola (aperta dallo stesso movimento di macchina, partendo dallo scheletro verso sinistra, che si vedeva nel cortometraggio), i compagni di scuola di Victor sono tipici piccoli mostri burtoniani. Come Edgar, un figuro che sembra uscito dai disegni di Chas Addams, o (l'invenzione più bella di tutte) la pallida bionda languorosa che tiene in braccio un gatto inquietante - il Signor Baffino - e conserva in un kleenex i suoi escrementi, che hanno un valore profetico: una figuretta che appartiene di diritto al mondo di Jack Skeleton.
Complice involontario, un professore di scienze che è la copia esatta di Vincent Price, parla con accento straniero, dice che dalle sue parti sono tutti scienziati (la Transilvania!). E che viene licenziato da una riunione di genitori: ecco la solita antipatia di Tim Burton per la massa stupida e conformista, sempre pronta a trasformarsi in una mob di linciatori. Per Burton gli scienziati pazzi sono sempre un passo più in là della mediocrità generale.
Così in una notte di tregenda tutti gli allievi della scuola diventano creatori di mostri - in primis il cupo studente americano-giapponese Toshiaki, il cui doppiaggio rende magnificamente l'inflessione nipponica nell'intonazione delle frasi (Tim Burton ha sempre fortuna col doppiaggio italiano dei suoi film). Si alzano in volo i lugubri aquiloni cacciatori di fulmini di “Wife of Frankenstein”, e per loro tramite la scintilla elettrica di una vita insana si trasmette ai cadaveri di animaletti defunti. I morti risorgono, nuove specie mostruose vengono create.
Naturale che ciò offra a Burton l'occasione per indulgere ancora una volta all'evocazione del proprio immaginario infantile. Se l'esperimento di Toshiaki fornisce logicamente l'occasione di un omaggio ai kaju eiga giapponesi, vorrei aggiungere che la trasformazione dei Sea Monkeys in mostriciattoli operata da un altro ragazzo non è solo un evidente omaggio a Gremlins. Più che una citazione è una madeleine: le bustine di Sea Monkeys (esattamente come riprodotte nel film, col disegno di una famiglia acquatica sorridente) erano una presenza fissa nelle pagine di annunci di folli gadget in vendita su riviste come “Famous Monsters of Filmland” di Forry Ackerman - la Bibbia della prima giovinezza di Burton, e di tanti di noi.
In questa esplosione frankensteiniana che distrugge la noiosa festa della città si consuma quello che resta il grande tema burtoniano: la rivolta del bambino (magari interiore) contro l'autorità degli adulti. Non per nulla compare una ragazzina malinconica che da grande sarà come la dark di “Beetlejuice” - e guarda caso le dà la voce nell'originale l'interprete di quel personaggio, Winona Ryder. Alla fine del film il padre di Victor, che lo aveva criticato, gli dice in tono di scusa: “Qualche volta gli adulti non sanno di che cosa parlano”. E' il succo della filosofia morale di Tim Burton.