“Anna
Karenina” non solo inizia con l'adulterio di Oblonskij (fratello
di Anna e cognato di Aleksej Karenin) messo in scena in forma di
rappresentazione teatrale: tutto il film si mette in scena come
teatro. La linea di lampade che segna il limite del palcoscenico
compare spesso a ricordarcelo. Il teatrino per bambini... s'intende i
bambini ricchi dell'aristocrazia russa dell'Ottocento... che vi
compare è come una simbolica mise en abyme
del film stesso (e infatti lo chiude con un'inquadratura finale che
intende enunciare il senso teorico dell'intera operazione).
Gli
sfondi cittadini - dalle finestre e non solo - sono fondali dipinti.
Talvolta le comparse si immobilizzano in posizioni “congelate”
che sono puro teatro (come nel primo ballo fra Anna e Vronskij), e
sempre del teatro molti passaggi posseggono la continuità
spaziale/temporale. Fra i due poli dell'astrazione teatrale e
dell'(illusorio) realismo cinematografico, il film di Joe Wright
alterna non senza intelligenza la sua narrazione, entrando e uscendo
dall'astrazione scenica. Proprio come il treno - che in “Anna
Karenina” gioca un ruolo basilare - a volte è un modellino, a
volte è una locomotiva vera in un ambiente fittizio, a volte è una
pura costrizione astratta, approfittando del fatto che il gelo russo lo
trasforma in un blocco oblungo di neve ghiacciata.
Alcune
soluzioni sono follemente audaci (penso alla corsa dei cavalli).
Alcune sono molto intelligenti. Per esempio, a un certo punto
Kostantin Levin dopo la sua scena sale per una ripida scaletta e si
aggira nel ballatoio del teatro; in teoria ciò dovrebbe restituirlo
alla sua qualità di attore ma non è così: come sempre nel film
resta personaggio, è Kostantin che va a trovare suo fratello in una
misera soffitta; e questa trasformazione del luogo da ballatoio a soffitta
è bella invero.
Lo
sceneggiatore è Tom Stoppard, che ha sempre amato costruire macchine
metanarrative. Il suo piacevole film “Rosencranz e Guildenstern
sono morti” - che ha diretto portando sullo schermo la propria
pièce - è una sorta
di retelling
dell'“Amleto” attraverso gli occhi di due personaggi minori,
nonché vittime designate, della tragedia: che attraversano la storia
senza capirne niente, muovendosi come una coppia di clown
beckettiani. Così anche nel presente film Stoppard sostituisce una
complessa impalcatura intellettuale
all'immediatezza cinematografica e
melodrammatica.
Da questo punto di
vista, l'ennesimo “Anna Karenina” della storia del cinema è
indubbiamente interessante. Resta assai opinabile se sia un'operazione
riuscita.
Le
obiezioni a questa audace costruzione del film sono fondamentalmente
due. La prima è che tutto ciò, nonostante l'impeccabile
realizzazione, finisce per apparire sgradevolmente programmatico. Tanto
più che Wright e Stoppard hanno avuto un'idea davvero orribile:
quegli spazi aperti che definiremo “autentici” sono quasi sempre
collegati al personaggio di Konstantin, non quando è in città ma
quando è chez soi in
campagna (che per
Tolstoj è il luogo della verità esistenziale). Come dire che si
vuol legare al personaggio una concezione di autenticità attraverso
questo trucchetto – il che è veramente kitsch. Significa far
passare la concezione tolstoiana non per via narrativa ma attraverso
un mezzuccio di complemento.
La seconda obiezione va
più in profondità; e per quanto riguarda il giudizio estetico sul
film (che è una trascrizione da Tolstoj e come tale deve pagare lo
scotto dell'altezza del suo proposito) risulta distruttiva.
Infatti, nel momento
stesso che ci si rende conto della natura dell'operazione,
inevitabile sorge in testa il dubbio: non sarà un modo di regolare
l'intensità della passione, di raffreddare il mélo? Risposta
esatta, purtroppo!
Così
nella grande storia di Anna, Karenin e Vronskij si perde la loro
realtà profonda. Non assistiamo al gioco drammatico dei sentimenti
ma a una messa in scena dello stesso, ove l'astrazione funziona come
un filtro. Il film di Wright non arriva mai al sublime delle
passioni, al calore ribollente del mélo, alla realtà fiammeggiante e
terribile dell'amour fou.
Diciamolo francamente: l'unico modo di fare “Anna Karenina” è
quello totale e disperato di Greta Garbo.
L'“Anna
Karenina” di Joe Wright mostra perfettamente il limite del cinema
occidentale (o d'una parte assai maggioritaria di esso) rispetto a
quello orientale. Ed è la paura di mostrare l'estremismo del
sentimento. Laddove nel cinema cinese, coreano, giapponese e via
dicendo, questa immediatezza dei sentimenti sullo schermo, senza
vergogna di esibirli, è ancora viva. Ne è simbolo quella classica
lacrima solitaria che scende sulla guancia, un topos
visivo di tutto il cinema orientale (sì, la vediamo anche sulla
guancia di Anna nel finale, quand'è sottoposta all'ostracismo della
società. Ma arriva troppo tardi e in una condizione narrativa che la impoverisce anziché esaltarla).
Keira
Knightley è una buona Anna Karenina - ma è capitata nel film
sbagliato. Perché ha quel tipo di recitazione realistica, prima
trattenuta e poi capace di esplodere in melodramma irrefrenabile, che
sarebbe stato adatto in una versione “tradizionale”. Ottimo
Jude Law nel ruolo di Karenin: nel suo viso irrigidito si palesa il
dramma di un uomo onesto (sarebbe sbagliato dipingerlo come un
filisteo) che vede i propri limiti messi alla prova da una tempesta
di passione che non comprende. Molto buoni gli interpreti in
generale, dalla Kitty di Alicia Vikander alla principessa Betsy di
Ruth Wilson; ma vorrei segnalare in particolare Matthew
Macfadyen (già un eccellente Lord
Darcy in “Orgoglio e pregiudizio” dello stesso Wright), il quale
incarna Oblonskij in un'interpretazione venata di un controllato humour
mimico che fa pensare a Kevin Kline.
Invece alquanto debole
è Aaron Taylor-Johnson, un conte Vronskij svirilizzato, un
ricciolone biondo con baffetti stentati che sembra più che altro un
adolescente iperemotivo (oserò dire tipo “Twilight”?).
Lasciateci dire che qualsiasi eroina della grande letteratura russa
se lo sarebbe mangiato a colazione uno così.