Pupi Avati
“Il papà di Giovanna” è un film ammirevole per molti motivi, ma vorrei menzionarne uno in particolare: il suo uso della Storia. Perché è così facile al cinema sfruttarla come uno sfondo colorato sul quale si svolge la vicenda “privata” dei personaggi, o al contrario trasformare quest’ultima in simbolo dell’epoca (così caricandola di toni allegorici che rischiano di privarla di densità). Nel commovente film di Pupi Avati la vicenda di Giovanna (Alba Rohrwacher) e dei suoi, il padre Michele (Silvio Orlando), la madre Delia (Francesca Neri), l’amico poliziotto Sergio (Ezio Greggio) che è l’amante di Delia, non è determinata dalla dittatura fascista: Giovanna è pazza, uccide per gelosia una compagna di scuola e viene rinchiusa in manicomio criminale. Tuttavia - come chi guardasse attraverso una massa d’acqua chiara e vedesse il fondo - attraverso la vicenda si disegna un panorama pregnante e autentico della vita italiana dal 1938 al 1946: “Il papà di Giovanna” è il miglior film sull'epoca fascista realizzato dal cinema italiano recente (e richiama alla memoria Luigi Zampa, in particolare penso ad “Anni difficili”, per la capacità di integrare l’emozione intima in uno sguardo storico “radiografico”).
Per parafrasare un vecchio detto, la gente può non si occuparsi della Storia ma la Storia si occupa della gente. Ecco la guerra, i bombardamenti, gli sfollamenti; ed ecco la potente digressione della fucilazione di Greggio da parte dei partigiani. Qui il breve accenno di carrellata sui corpi dei fucilati legati alle sedie, incontro di oggettività cronachistica e asciutta pietà, è una delle cose più belle che Avati ci abbia mai mostrato; lo stesso si può dire della sequenza della fuga di Greggio ferito (non è solo la strada di case diroccate a permetterci di definirla polanskiana) e della sua morte sull’autobus, col folgorante cambio d’inquadratura sul viso parzialmente coperto da un giornale, da dentro il veicolo all’esterno del finestrino.
In un film tutto fatto di buone interpretazioni, a partire naturalmente da Alba Rohrwacher, si resta rapiti da Silvio Orlando ed Ezio Greggio, coppia di attori meravigliosi. Superbo il loro gioco di sguardi, la drammaticità delle espressioni, i minimi gesti. Se per Orlando già si sapeva, Greggio è stata una sorpresa per molti -che erano caduti nella solita trappola del sottovalutare gli attori di commedia. Perché Greggio (come il suo partner Gianfranco D’Angelo, ma in misura anche maggiore) era ottimo attore comico già ai tempi di “Drive In” in tv.
“Il papà di Giovanna” è un film-romanzo. Perché tutto il cinema di Avati, che sul piano narrativo è (legittimamente) molto tradizionale, si riporta idealmente al romanzo classico, con quanto esso comporta in termini di ambiguità dei personaggi. In opposizione alla tradizione di sceneggiatura americana, dove le psicologie devono essere chiare e univoche perché i personaggi incarnano ruoli funzionali, qui i comportamenti mantengono un quid di ambiguità che il regista offre irrisolto alla soggettività conoscitiva dello spettatore. Per tutto il film vediamo gli sguardi segreti che si scambiano Ezio Greggio e Francesca Neri, ma resta a noi di fare delle ipotesi sulla natura più specifica della loro relazione. Vediamo all'inizio il patto implicito tra il professore e il ragazzotto, ma qual è di preciso? Avati non lo definisce, né probabilmente è chiaro per i personaggi stessi.
Il regista emiliano è un maestro della messa in scena, forse il maggiore che possediamo. Utilizza tutto il repertorio antiquario di oggetti, di musiche, di espressioni tipiche, non semplicemente per illustrare bensì per “ricreare”; ha una capacità quasi stregonesca, quasi come il pittore Pickman di Lovecraft, di evocare atmosfere, di trasmettere in modo palpabile l’immediatezza di esperienze e sensazioni. I suoni del manicomio di notte, ascoltati da Orlando dopo averci accompagnato la figlia; il terrore dei bombardamenti, in scene brevissime di nettezza fulminante. Questa sua capacità di una messa in scena “parlante” - di cui fa parte la verità dei volti - è il trait d’union che collega le varie incarnazioni del cinema di Avati, dal drammatico al sentimentale-minimalista all’horror, fino al film d’ambientazione medievale.
Tutta la sua opera ruota su personaggi persi in un progetto più o meno delirante, in un sogno. Silvio Orlando è un Don Chisciotte dell’amore per la figlia (al punto di essere, secondo la moglie, responsabile della sua follia); il suo viso è invecchiato e teso, gli occhi sono febbrili. Figura monomaniaca, si brucia in questo amore folle, che poi però è strumento della risalita dopo che lei è uscita dal manicomio: veridicità umana dell’idea che il padre faccia propria la coprolalia della ragazza per seguirla sul suo terreno e comunicare, sì che costituiscono nei loro dialoghi una coppia tragicamente buffa di semipazzi! Il film comincia con la voce narrante della ragazza, di cui poi ci dimentichiamo: perché inizia un viaggio nel dolore e nella follia tale che questa voce narrante, con quanto implica di coscienza, memoria, ragione, sembri perduta. Ma nella grande conclusione che è puro mélo il riapparire “carsico” della voce narrante chiude un cerchio, ipotizza una rinascita.
mercoledì 24 settembre 2008
lunedì 22 settembre 2008
Hancock
Peter Berg
Scrivendo una recensione, uno dovrebbe cercare di evitare gli spoiler: ma non sempre è possibile; figurarsi se un film consta di tre sceneggiature avvitate una sull’altra, come “Hancock” – per cui la recensione diventa uno spoiler triplo.
L’idea di partenza è interessante. Provate a immaginare se Superman, invece di essere Clark Kent, avesse scelto di essere John Belushi. Hancock (Will Smith) è un supereroe sporco, ubriaco, puzzolente di whisky, che dorme sulle panchine come un barbone, che quando vola fa disastri: non solo si scontra coi piccioni (questo a Superman non capita mai) ma per catturare tre delinquenti in auto produce milioni di dollari di danni. Morale, a Los Angeles nessuno lo sopporta più.
“Hancock” pone in chiave di comedy lo stesso tema de “Il cavaliere oscuro” di Christopher Nolan: il rifiuto popolare del supereroe nel periodo storico (di decadenza morale) che stiamo vivendo. Lo pone in modo meno pomposo e retorico del film di Nolan, in modo umoristicamente deformato, ma lo pone, inserendosi in una ricca tradizione recente che comprende ad esempio la trilogia degli X-Men, il geniale cartoon “Gli Incredibili”, il secondo “Hellboy” di Guillermo Del Toro. Una tradizione, del resto, che è l’ultima propaggine della grande riflessione del cinema americano contemporaneo sull'essenza stessa del supereroe, al cui vertice si situano tre capolavori (i due “Batman” di Burton e il contorto e affascinante “Unbreakable” di Shyamalan) e un semplice, fulminante frammento (il discorso del personaggio eponimo su Superman in “Kill Bill” di Tarantino).
Ecco allora che si pone per Hancock - pronubo il giovane PR idealista Ray (Jason Bateman) - il problema di riabilitarsi agli occhi dei cittadini. Anche se, quando Ray dice “Ti insegnerò a interfacciarti col pubblico”, potete immaginare l'occhiata di Will Smith. Il prezzo sarà di accettare di andare in prigione; intanto la moglie perfettina di Ray (Charlize Theron) non nasconde il suo disdegno. Non stupisce il riferimento obliquo a “Frankenstein” (Hancock, che ha perso la memoria 80 fa, aveva in tasca il biglietto di questo film): creatura rousseauiana in Mary Shelley, che si tinge di toni mélo nei film Universal, Frankenstein è il simbolo stesso del “mostro” respinto in quanto diverso. A questo punto uno pensa di essersi sintonizzato con la linea di sviluppo del film: una storia di riabilitazione sociale, magari destinata a sfociare in toni lacrimosi, sulla linea Danny Kaye/Jerry Lewis.
Invece, virata a 90 gradi, con la scoperta che anche la moglie di Ray possiede in segreto i superpoteri. Da notare qui il cambiamento di espressione di Charlize Theron, che prima era la più orrida e odiosa fra le creature femminili che si aggirano nel cinema americano, la bellezza malmostosa pacifista politically correct, e ora ha un’altra faccia e perfino un’aria più sexy. Dando la riabilitazione di Hancock come avvenuta, il film ora sembra destinato a svilupparsi come commedia fantastica del genere “dio contro dea” (lei: “Ho sopportato le tue stronzate per gli ultimi 3000 anni!”). Questa seconda parte è migliore: la scena dei due in cucina è più divertente di tutto il resto, e la tempesta che si forma alle spalle di lei quando s'incazza porta un accenno di grandezza nel film.
Ma appena accennato questo sviluppo, il film ha una nuova svolta, che dico una svolta, una derapata stridente alla “Fast and Furious”, e sposta l’avventura sul melodramma, con lui che perde i superpoteri quando le sta vicino. Il che non si connette molto bene alle premesse - ma quanto a buchi logici e incongruenze di sceneggiatura “Hancock” non scherza di certo.
Non per trasformare le cose piccole in grandi, o un filmetto modesto come “Hancock” in araldo di un mutamento culturale, ma si potrebbe riflettere su come il concetto di unità, che era sempre stato un requisito base perché fosse apprezzata un’opera, oggi sembra svalutato nella percezione del pubblico. Tanto che un racconto slegato e piuttosto sbilenco come questo ha grande successo, presumibilmente non nonostante ma anzi in ragione di tale contraddittorietà.
Scrivendo una recensione, uno dovrebbe cercare di evitare gli spoiler: ma non sempre è possibile; figurarsi se un film consta di tre sceneggiature avvitate una sull’altra, come “Hancock” – per cui la recensione diventa uno spoiler triplo.
L’idea di partenza è interessante. Provate a immaginare se Superman, invece di essere Clark Kent, avesse scelto di essere John Belushi. Hancock (Will Smith) è un supereroe sporco, ubriaco, puzzolente di whisky, che dorme sulle panchine come un barbone, che quando vola fa disastri: non solo si scontra coi piccioni (questo a Superman non capita mai) ma per catturare tre delinquenti in auto produce milioni di dollari di danni. Morale, a Los Angeles nessuno lo sopporta più.
“Hancock” pone in chiave di comedy lo stesso tema de “Il cavaliere oscuro” di Christopher Nolan: il rifiuto popolare del supereroe nel periodo storico (di decadenza morale) che stiamo vivendo. Lo pone in modo meno pomposo e retorico del film di Nolan, in modo umoristicamente deformato, ma lo pone, inserendosi in una ricca tradizione recente che comprende ad esempio la trilogia degli X-Men, il geniale cartoon “Gli Incredibili”, il secondo “Hellboy” di Guillermo Del Toro. Una tradizione, del resto, che è l’ultima propaggine della grande riflessione del cinema americano contemporaneo sull'essenza stessa del supereroe, al cui vertice si situano tre capolavori (i due “Batman” di Burton e il contorto e affascinante “Unbreakable” di Shyamalan) e un semplice, fulminante frammento (il discorso del personaggio eponimo su Superman in “Kill Bill” di Tarantino).
Ecco allora che si pone per Hancock - pronubo il giovane PR idealista Ray (Jason Bateman) - il problema di riabilitarsi agli occhi dei cittadini. Anche se, quando Ray dice “Ti insegnerò a interfacciarti col pubblico”, potete immaginare l'occhiata di Will Smith. Il prezzo sarà di accettare di andare in prigione; intanto la moglie perfettina di Ray (Charlize Theron) non nasconde il suo disdegno. Non stupisce il riferimento obliquo a “Frankenstein” (Hancock, che ha perso la memoria 80 fa, aveva in tasca il biglietto di questo film): creatura rousseauiana in Mary Shelley, che si tinge di toni mélo nei film Universal, Frankenstein è il simbolo stesso del “mostro” respinto in quanto diverso. A questo punto uno pensa di essersi sintonizzato con la linea di sviluppo del film: una storia di riabilitazione sociale, magari destinata a sfociare in toni lacrimosi, sulla linea Danny Kaye/Jerry Lewis.
Invece, virata a 90 gradi, con la scoperta che anche la moglie di Ray possiede in segreto i superpoteri. Da notare qui il cambiamento di espressione di Charlize Theron, che prima era la più orrida e odiosa fra le creature femminili che si aggirano nel cinema americano, la bellezza malmostosa pacifista politically correct, e ora ha un’altra faccia e perfino un’aria più sexy. Dando la riabilitazione di Hancock come avvenuta, il film ora sembra destinato a svilupparsi come commedia fantastica del genere “dio contro dea” (lei: “Ho sopportato le tue stronzate per gli ultimi 3000 anni!”). Questa seconda parte è migliore: la scena dei due in cucina è più divertente di tutto il resto, e la tempesta che si forma alle spalle di lei quando s'incazza porta un accenno di grandezza nel film.
Ma appena accennato questo sviluppo, il film ha una nuova svolta, che dico una svolta, una derapata stridente alla “Fast and Furious”, e sposta l’avventura sul melodramma, con lui che perde i superpoteri quando le sta vicino. Il che non si connette molto bene alle premesse - ma quanto a buchi logici e incongruenze di sceneggiatura “Hancock” non scherza di certo.
Non per trasformare le cose piccole in grandi, o un filmetto modesto come “Hancock” in araldo di un mutamento culturale, ma si potrebbe riflettere su come il concetto di unità, che era sempre stato un requisito base perché fosse apprezzata un’opera, oggi sembra svalutato nella percezione del pubblico. Tanto che un racconto slegato e piuttosto sbilenco come questo ha grande successo, presumibilmente non nonostante ma anzi in ragione di tale contraddittorietà.
martedì 16 settembre 2008
Il seme della discordia
Pappi Corsicato
Quelli che apprezzano un film solo ed esclusivamente per il côté visuale saranno (i soli?) soddisfatti da “Il seme della discordia” di Pappi Corsicato. L’idea base del film richiama la kleistiana Marchesa von O. Veronica (Caterina Murino) si ritrova incinta senza sapere come, visto non ha tradito il marito (Alessandro Gassman) e questi è sterile. Offeso nell’onore, il marito - il quale peraltro la cornificava abbondantemente - l’abbandona. In realtà lei è stata posseduta mentre era svenuta dopo una rapina (a differenza della Marchesa originale, qui è del tutto incredibile che non lo capisca subito).
Lo spunto è interessante (lo diceva anche von Kleist), ma la realizzazione è deludente: una simil-commedia diseguale, dal ritmo incerto e dal dialogo faticoso. In ultima analisi, non più che una brutta copia di Almodovar. Per fortuna può contare su una serie di buoni attori - non dico tutti (Sergio Leone diceva del giovane Clint Eastwood: possiede due espressioni, col cappello e senza. Alessandro Gassman possiede esattamente la metà delle espressioni di Clint Eastwood).
Pappi Corsicato è uno dei nostri registi più notevoli, e ricordo in particolare il bellissimo “I buchi neri”; ma il suo stile fatto di bizzarria inventiva, spudoratezza popolare-barocca e raffinatezza visuale si ritrova ne “Il seme della discordia” solo come residuo. Vorrei menzionare a questo proposito una soluzione visiva affascinante: il dialogo di Caterina Murino e Michele Venitucci nel parco, inquadrati in campo lungo mentre contemporaneamente le loro figure sono incorniciate ai due bordi dell’inquadratura dai loro volti di profilo in primissimo piano. Altre scene non sono egualmente felici. Quella sull’orgasmo con Alessandro Gassman e Iaia Forte è una barzellettina: più che Pappi Corsicato è Neri Parenti; mentre la scena, divertente, del litigio con la (finta) suora viene rovinata da un montaggio frettoloso.
Nel suo aspetto migliore, “Il seme sulla discordia” è trionfale fisicità. Un grande merito del cinema di Corsicato è sempre stato il suo sguardo carnalmente rapito sul corpo femminile; lo ritroviamo anche qui, su Caterina Murino come su tutte le altre belle, fin dall’inizio, quando vediamo i titoli di testa dispiegarsi (e chi mai li leggerà?) su una sfilata di splendide gambe, seni e sederi, come in un Truffaut impazzito.
Ma è parimenti assai bello lo sguardo gettato, grazie alla fotografia di Ennio Guarnieri, sull’architettura, che crea una città sognante e chimerica. In questo film la mdp è sempre ben piazzata, la composizione è sempre ricercata, la fotografia è elegante, felice di produrre immagini classicamente “corsicatiane” come quella del sogno di Veronica (quella riprodotta sul poster del film) che fonde in un’estasi panica il corpo, il pube, il fiore. Tuttavia “il seme della discordia” soffre della contraddizione fra la sua raffinatezza visiva e una certa faciloneria della sceneggiatura (di Corsicato e Massimo Gaudioso): l’inefficacia della sceneggiatura e l’inconsistenza del dialogo hanno un effetto esiziale, perché deprivano il film di senso.
Anche la commedia più fiabesca ha bisogno di una credibilità di linguaggio e di una logica di comportamento dei personaggi. Invece “Il seme della discordia” inanella una serie di sconcertanti forzature. Esempio: Veronica ha morso uno degli assalitori; giorni dopo, vedendo che il figlio dell’amica Monica ha un cerotto sulla mano, “ipso facto” lo accusa; Monica (Isabella Ferrari) stupita dice: si è fatto male cadendo dalla moto. Qui una persona normale risponderebbe o “Ah, beh” o “Ti ha raccontato una balla”. Lei invece ringhia: “Ecco, difendilo!” - poca sorpresa che si incrini un’amicizia; si incrina anche la credibilità dell’opera. Questa psicologia “televisiva” (nel senso che gli sceneggiati tv ne sono un campionario) ricorre di frequente nel film. Sicché tutto il ricco aspetto visuale resta come isolato, e finisce per essere soverchiato da un senso montante di molesta contraddittorietà.
(Il Nuovo FVG)
Quelli che apprezzano un film solo ed esclusivamente per il côté visuale saranno (i soli?) soddisfatti da “Il seme della discordia” di Pappi Corsicato. L’idea base del film richiama la kleistiana Marchesa von O. Veronica (Caterina Murino) si ritrova incinta senza sapere come, visto non ha tradito il marito (Alessandro Gassman) e questi è sterile. Offeso nell’onore, il marito - il quale peraltro la cornificava abbondantemente - l’abbandona. In realtà lei è stata posseduta mentre era svenuta dopo una rapina (a differenza della Marchesa originale, qui è del tutto incredibile che non lo capisca subito).
Lo spunto è interessante (lo diceva anche von Kleist), ma la realizzazione è deludente: una simil-commedia diseguale, dal ritmo incerto e dal dialogo faticoso. In ultima analisi, non più che una brutta copia di Almodovar. Per fortuna può contare su una serie di buoni attori - non dico tutti (Sergio Leone diceva del giovane Clint Eastwood: possiede due espressioni, col cappello e senza. Alessandro Gassman possiede esattamente la metà delle espressioni di Clint Eastwood).
Pappi Corsicato è uno dei nostri registi più notevoli, e ricordo in particolare il bellissimo “I buchi neri”; ma il suo stile fatto di bizzarria inventiva, spudoratezza popolare-barocca e raffinatezza visuale si ritrova ne “Il seme della discordia” solo come residuo. Vorrei menzionare a questo proposito una soluzione visiva affascinante: il dialogo di Caterina Murino e Michele Venitucci nel parco, inquadrati in campo lungo mentre contemporaneamente le loro figure sono incorniciate ai due bordi dell’inquadratura dai loro volti di profilo in primissimo piano. Altre scene non sono egualmente felici. Quella sull’orgasmo con Alessandro Gassman e Iaia Forte è una barzellettina: più che Pappi Corsicato è Neri Parenti; mentre la scena, divertente, del litigio con la (finta) suora viene rovinata da un montaggio frettoloso.
Nel suo aspetto migliore, “Il seme sulla discordia” è trionfale fisicità. Un grande merito del cinema di Corsicato è sempre stato il suo sguardo carnalmente rapito sul corpo femminile; lo ritroviamo anche qui, su Caterina Murino come su tutte le altre belle, fin dall’inizio, quando vediamo i titoli di testa dispiegarsi (e chi mai li leggerà?) su una sfilata di splendide gambe, seni e sederi, come in un Truffaut impazzito.
Ma è parimenti assai bello lo sguardo gettato, grazie alla fotografia di Ennio Guarnieri, sull’architettura, che crea una città sognante e chimerica. In questo film la mdp è sempre ben piazzata, la composizione è sempre ricercata, la fotografia è elegante, felice di produrre immagini classicamente “corsicatiane” come quella del sogno di Veronica (quella riprodotta sul poster del film) che fonde in un’estasi panica il corpo, il pube, il fiore. Tuttavia “il seme della discordia” soffre della contraddizione fra la sua raffinatezza visiva e una certa faciloneria della sceneggiatura (di Corsicato e Massimo Gaudioso): l’inefficacia della sceneggiatura e l’inconsistenza del dialogo hanno un effetto esiziale, perché deprivano il film di senso.
Anche la commedia più fiabesca ha bisogno di una credibilità di linguaggio e di una logica di comportamento dei personaggi. Invece “Il seme della discordia” inanella una serie di sconcertanti forzature. Esempio: Veronica ha morso uno degli assalitori; giorni dopo, vedendo che il figlio dell’amica Monica ha un cerotto sulla mano, “ipso facto” lo accusa; Monica (Isabella Ferrari) stupita dice: si è fatto male cadendo dalla moto. Qui una persona normale risponderebbe o “Ah, beh” o “Ti ha raccontato una balla”. Lei invece ringhia: “Ecco, difendilo!” - poca sorpresa che si incrini un’amicizia; si incrina anche la credibilità dell’opera. Questa psicologia “televisiva” (nel senso che gli sceneggiati tv ne sono un campionario) ricorre di frequente nel film. Sicché tutto il ricco aspetto visuale resta come isolato, e finisce per essere soverchiato da un senso montante di molesta contraddittorietà.
(Il Nuovo FVG)
giovedì 11 settembre 2008
Slipstream
Anthony Hopkins
Avete presente un nastro di Möbius? E’ una “superficie non orientabile” - un anello di nastro in cui attraverso una torsione la superficie A si trasforma nella superficie B, per cui percorrendolo ci troveremmo, senza oltrepassare il bordo, prima nella parte sopra poi nella parte sotto. Ecco “Slipstream” (uscito in Italia col sottotitolo idiota “Nella mente oscura di H.”), prodotto, diretto, scritto e musicato oltre che interpretato da Anthony Hopkins. Uno sceneggiatore cinematografico, trovandosi nell’imminenza della morte (simboleggiata nel film da un giovane vestito di nero), confonde la realtà con il film che sta scrivendo - nonché coi ricordi personali e collettivi (Hitler, Stalin) e con la mitologia vivente del nostro tempo che è il cinema. Personaggi che secondo la continuità narrativa dovrebbero appartenere al “racconto primo”, cioè alla realtà dello sceneggiatore Felix Bonhoeffer (Hopkins), slittano sul piano del racconto secondo, del film-nel-film, e continuano a oscillare fra i diversi livelli di realtà. Un nastro di Möbius appunto.
Per esempio vediamo un gangster ultraviolento (Christian Slater) che dovrebbe appartenere alla “storia reale” – però risulta da cinema fin dall’abbigliamento; certo, potrebbe semplicemente avere visto troppe volte “Bonnie and Clyde”; però una (quanto mai inconsueta) chiusura in iride già ci insospettisce rispetto allo statuto di realtà, e infatti ecco che i livelli del racconto scivolano uno nell’altro. E quasi per un fenomeno di rifrazione, proprio come in presenza della morte Felix annega nella confusione fra realtà e invenzione, lo stesso accade a Christian Slater - e l’isterismo del film-nel-film si ripropone sul set di scalcinati cinematografari che lo stanno girando.
Senza sorpresa, “Slipstream” è anche l’occasione di Hopkins per parodiare la poco amata Hollywood. John Turturro, il grezzo produttore Harvey (“Nessuno può morire durante la lavorazione di un mio film finché non glielo dico io!”), allude a Harvey Weinstein, ma al di là di questo è il quintessenziale produttore hollywoodiano di tanto cinema e letteratura (e Turturro se la gode un mondo nella parte).
E’ chiaro che Hopkins ha visto con interesse i film di David Lynch. Lo mostrano sia l’impianto generale sia le atmosfere, come nella disturbante sequenza della tavola calda. In particolare, poi, c’è una scena molto divertente in cui tre personaggi si trovano all’interno del computer di Felix (“come dei virus”, dicono) e dal monitor lo guardano dormire e fanno commenti acidi su di lui - scena che molto ricorda Lynch con i suoi universi multidimensionali.
Ne risulta una realtà mutevole e sfuggente, dove le determinazioni temporali, i livelli di esistenza, le identità medesime beffano la competenza dello spettatore (e del protagonista). Fra i fili che intessono questo racconto-non-racconto sono centrali quelli, connessi, della violenza americana e della perdita di un ordine del mondo. Questo è il concetto base, urlato dal pazzo sull’autostrada: “Abbiamo perso la trama!”. In effetti uno sceneggiatore ha il (comodo) ruolo di Dio: è creatore e ordinatore di un mondo: ma il ruolo diventa meno comodo quando i piani di realtà si confondono, e i personaggi si presentano a te protestando per la loro morte (tanto più quando essa aumenta il caos: “Adesso è tutto incoerente”).
E’ un’operazione intellettualistica, senza dubbio, e sarebbe arduo dire pienamente riuscita. E’ un film troppo carico, segnato da una sorta di “horror vacui” artistico/filosofico. Tuttavia - purché lo spettatore non si incaponisca a volerlo seguire come racconto realistico, nel qual caso ha sbagliato sala - è un film piacevole (né scorre in modo lento e compiaciuto come uno potrebbe temere dalla premessa), con numerosi tratti interessanti e brillanti. Delizioso, ad esempio, quando l’evocazione del capolavoro di Don Siegel “L’invasione degli ultracorpi” guida all’apparizione “as himself” del vecchio protagonista Kevin McCarthy (che qui non si ricorda di averlo interpretato!). Un dettaglio meno brillante? Il protagonista Felix Bonhoeffer porta lo stesso cognome del teologo luterano tedesco vittima del nazismo. Affinché questo riferimento non ci sfugga, Hopkins inquadra due volte un volume di scritti di Dietrich Bonhoeffer – ed è quel modo di citare attraverso l’ostensione di un libro che era un vezzo del cinema italiano all’epoca di Antonioni (per Godard il discorso è un po’ diverso), e ancor più di allora trasmette una sensazione di “telegrafato”.
Ovviamente un film del genere, in cui la giustapposizione di frammenti di esistenza crea un continuum di svolgimento e di dialogo, è una sfida sul piano del montaggio, e qui il montatore ha fatto un grande lavoro: si tratta di Michael R. Miller, un maestro del “fast cutting” - ricordiamo che uno dei suoi primi film fu il rivoluzionario “Arizona Junior” dei fratelli Coen.
La fotografia di Dante Spinotti in “Slipstream” non solo mantiene la nettezza elegante e rigorosa che gli conosciamo ma risponde anche al problema di adeguarsi alla moltiplicazione di frammenti di realtà che costituisce il film: ciò che significa la necessità di non avvolgere tutto in uno stile unificante, dal quale questo frazionamento verrebbe messo in crisi. Allora, vedi come un realismo fotografico “sporco” da neo-noir metropolitano si incrina nel rosso fiammeggiante da vecchio Technicolor di uno sfondo, nella sequenza all’uscita dal bar – o in generale come le entrate “tambureggianti” del b/n (a un certo punto compare anche il negativo) spezzano, pervertono e avvelenano la continuità dell’immagine.
Avete presente un nastro di Möbius? E’ una “superficie non orientabile” - un anello di nastro in cui attraverso una torsione la superficie A si trasforma nella superficie B, per cui percorrendolo ci troveremmo, senza oltrepassare il bordo, prima nella parte sopra poi nella parte sotto. Ecco “Slipstream” (uscito in Italia col sottotitolo idiota “Nella mente oscura di H.”), prodotto, diretto, scritto e musicato oltre che interpretato da Anthony Hopkins. Uno sceneggiatore cinematografico, trovandosi nell’imminenza della morte (simboleggiata nel film da un giovane vestito di nero), confonde la realtà con il film che sta scrivendo - nonché coi ricordi personali e collettivi (Hitler, Stalin) e con la mitologia vivente del nostro tempo che è il cinema. Personaggi che secondo la continuità narrativa dovrebbero appartenere al “racconto primo”, cioè alla realtà dello sceneggiatore Felix Bonhoeffer (Hopkins), slittano sul piano del racconto secondo, del film-nel-film, e continuano a oscillare fra i diversi livelli di realtà. Un nastro di Möbius appunto.
Per esempio vediamo un gangster ultraviolento (Christian Slater) che dovrebbe appartenere alla “storia reale” – però risulta da cinema fin dall’abbigliamento; certo, potrebbe semplicemente avere visto troppe volte “Bonnie and Clyde”; però una (quanto mai inconsueta) chiusura in iride già ci insospettisce rispetto allo statuto di realtà, e infatti ecco che i livelli del racconto scivolano uno nell’altro. E quasi per un fenomeno di rifrazione, proprio come in presenza della morte Felix annega nella confusione fra realtà e invenzione, lo stesso accade a Christian Slater - e l’isterismo del film-nel-film si ripropone sul set di scalcinati cinematografari che lo stanno girando.
Senza sorpresa, “Slipstream” è anche l’occasione di Hopkins per parodiare la poco amata Hollywood. John Turturro, il grezzo produttore Harvey (“Nessuno può morire durante la lavorazione di un mio film finché non glielo dico io!”), allude a Harvey Weinstein, ma al di là di questo è il quintessenziale produttore hollywoodiano di tanto cinema e letteratura (e Turturro se la gode un mondo nella parte).
E’ chiaro che Hopkins ha visto con interesse i film di David Lynch. Lo mostrano sia l’impianto generale sia le atmosfere, come nella disturbante sequenza della tavola calda. In particolare, poi, c’è una scena molto divertente in cui tre personaggi si trovano all’interno del computer di Felix (“come dei virus”, dicono) e dal monitor lo guardano dormire e fanno commenti acidi su di lui - scena che molto ricorda Lynch con i suoi universi multidimensionali.
Ne risulta una realtà mutevole e sfuggente, dove le determinazioni temporali, i livelli di esistenza, le identità medesime beffano la competenza dello spettatore (e del protagonista). Fra i fili che intessono questo racconto-non-racconto sono centrali quelli, connessi, della violenza americana e della perdita di un ordine del mondo. Questo è il concetto base, urlato dal pazzo sull’autostrada: “Abbiamo perso la trama!”. In effetti uno sceneggiatore ha il (comodo) ruolo di Dio: è creatore e ordinatore di un mondo: ma il ruolo diventa meno comodo quando i piani di realtà si confondono, e i personaggi si presentano a te protestando per la loro morte (tanto più quando essa aumenta il caos: “Adesso è tutto incoerente”).
E’ un’operazione intellettualistica, senza dubbio, e sarebbe arduo dire pienamente riuscita. E’ un film troppo carico, segnato da una sorta di “horror vacui” artistico/filosofico. Tuttavia - purché lo spettatore non si incaponisca a volerlo seguire come racconto realistico, nel qual caso ha sbagliato sala - è un film piacevole (né scorre in modo lento e compiaciuto come uno potrebbe temere dalla premessa), con numerosi tratti interessanti e brillanti. Delizioso, ad esempio, quando l’evocazione del capolavoro di Don Siegel “L’invasione degli ultracorpi” guida all’apparizione “as himself” del vecchio protagonista Kevin McCarthy (che qui non si ricorda di averlo interpretato!). Un dettaglio meno brillante? Il protagonista Felix Bonhoeffer porta lo stesso cognome del teologo luterano tedesco vittima del nazismo. Affinché questo riferimento non ci sfugga, Hopkins inquadra due volte un volume di scritti di Dietrich Bonhoeffer – ed è quel modo di citare attraverso l’ostensione di un libro che era un vezzo del cinema italiano all’epoca di Antonioni (per Godard il discorso è un po’ diverso), e ancor più di allora trasmette una sensazione di “telegrafato”.
Ovviamente un film del genere, in cui la giustapposizione di frammenti di esistenza crea un continuum di svolgimento e di dialogo, è una sfida sul piano del montaggio, e qui il montatore ha fatto un grande lavoro: si tratta di Michael R. Miller, un maestro del “fast cutting” - ricordiamo che uno dei suoi primi film fu il rivoluzionario “Arizona Junior” dei fratelli Coen.
La fotografia di Dante Spinotti in “Slipstream” non solo mantiene la nettezza elegante e rigorosa che gli conosciamo ma risponde anche al problema di adeguarsi alla moltiplicazione di frammenti di realtà che costituisce il film: ciò che significa la necessità di non avvolgere tutto in uno stile unificante, dal quale questo frazionamento verrebbe messo in crisi. Allora, vedi come un realismo fotografico “sporco” da neo-noir metropolitano si incrina nel rosso fiammeggiante da vecchio Technicolor di uno sfondo, nella sequenza all’uscita dal bar – o in generale come le entrate “tambureggianti” del b/n (a un certo punto compare anche il negativo) spezzano, pervertono e avvelenano la continuità dell’immagine.
As You Like It (Come vi piace)
Kenneth Branagh
Se si parla di “padri nobili”, Kenneth Branagh viene spesso accostato a Laurence Olivier, per la “specializzazione” cinematografica shakespeariana (e la coincidenza del debutto coll’“Enrico V”). Sotto un singolo aspetto però Branagh si avvicina, più che a Olivier, a un altro grande regista shakespeariano, Orson Welles: benché in modo molto più popolare, a volte perfino leccato, Branagh è come Welles un “conceptual director”. Nella messa in scena del testo elegge un concetto, un’idea base, attorno al quale organizzare, in modo autoritario, tutta la lettura. L’azione originaria del cinema di Branagh è di creare questo “ubi consistam” - come l’intelligente operazione di trasferimento all’Ottocento del suo “Amleto”.
Su quale concetto ruota “As You Like It”? Su due. Il primo, la centralità dell’ambientazione boschiva, lo trova già in Shakespeare, correttamente evidenziando la battuta “Dicono che si trovi già nella foresta di Arden!” Ma Branagh vi sovrappone un secondo concetto: ambienta (in modo astratto e sognante) il film tra gli inglesi presenti in Giappone nell’epoca Meiji. Conviene ricordare che già la commedia di Shakespeare si basa su una dislocazione: si ambienta in Francia ma per la maggior parte si svolge nella foresta di Arden - che è in Inghilterra, vicino a Stratford-on-Avon: un ritorno di Shakespeare alla sua terra.
Nel film però rimane un problema. Se consideriamo che la maggior parte della commedia si svolge nella foresta, tra gli inglesi, e che dopo il primo atto l’elemento giapponese è raro, pressoché formale, lo spettatore tende ad avvertire quest’impostazione “giapponese” come pene d’amor perdute, se non addirittura come molto rumore per nulla. Ovvero, dopo un inizio convincente nel primo atto, essa diventa estrinseca e, in ultima analisi, più che per suggerire una chiave di lettura esiste per far felici lo scenografo e la costumista.
In ogni modo, la messa in scena di Branagh è piacevole, e sorretta da ottimi attori. Eccellente Bryce Dallas Howard nel ruolo di Rosalinda; Romola Garai la accompagna bene nella parte di Celia, apportandovi alcuni gustosi tocchi di buffoneria. Si guarda con interesse Alfred Molina nei panni di Paragone (Touchstone), ma chi ruba la scena è certamente Kevin Kline nel ruolo del melanconico Jaques.
E’ una scelta, lecita, ma ha un costo, il modo in cui viene qui resa la figura di Rosalinda. Come ne “La dodicesima notte”, Shakespeare gioca mirabilmente sull’ambiguità sessuale: Rosalinda si traveste da maschio ma in veste di maschio si fa corteggiare come se fosse Rosalinda dall’amato Orlando, fingendo di insegnargli a non amare le donne. Nota che al tempo di Shakespeare le donne sul palcoscenico erano interpretate da ragazzi, per cui l’ambiguità intrinseca del testo si nutriva di un gioco scenico prestabilito. In Branagh, Rosalinda in travestimento maschile è visibilmente donna com’era prima; tale scelta, favorita dal carattere androgino degli abiti moderni, rende l’aspetto maschile di Rosalinda altrettanto convenzionale nella figura quanto lo è già nel discorso. Così depotenzia interamente l’ambiguità shakespeariana, rinunciando al gioco sulle identità sessuali.
Commedia aerea e irreale, contenente alcune delle più belle pagine di consapevolezza metateatrale di tutta l’opera di Shakespeare, “Come vi piace” dipinge un mondo che la mutevolezza delle sorti, delle fortune, degli umori rende inconsistente. Un mondo di illusione agrodolce: così questa corte di esiliati in una foresta senza cupezza (piuttosto un amabile bosco) gioca a evocare i pastori e Robin Hood, ma alla fine gioisce per essere stata restituita all’antica dignità, però è subito pronta a dire “Dimentichiamolo per un momento” e tuffarsi nella danza campestre... La vita e l’amore sono realtà umbratili - ma le rincorriamo: con la mente crediamo al distacco dalle cose, col cuore no. Così, il mondo, la fortuna, l’amore, sono da prendere (da com/prendere) come vi piace: as you like it.
(Il Nuovo FVG)
Se si parla di “padri nobili”, Kenneth Branagh viene spesso accostato a Laurence Olivier, per la “specializzazione” cinematografica shakespeariana (e la coincidenza del debutto coll’“Enrico V”). Sotto un singolo aspetto però Branagh si avvicina, più che a Olivier, a un altro grande regista shakespeariano, Orson Welles: benché in modo molto più popolare, a volte perfino leccato, Branagh è come Welles un “conceptual director”. Nella messa in scena del testo elegge un concetto, un’idea base, attorno al quale organizzare, in modo autoritario, tutta la lettura. L’azione originaria del cinema di Branagh è di creare questo “ubi consistam” - come l’intelligente operazione di trasferimento all’Ottocento del suo “Amleto”.
Su quale concetto ruota “As You Like It”? Su due. Il primo, la centralità dell’ambientazione boschiva, lo trova già in Shakespeare, correttamente evidenziando la battuta “Dicono che si trovi già nella foresta di Arden!” Ma Branagh vi sovrappone un secondo concetto: ambienta (in modo astratto e sognante) il film tra gli inglesi presenti in Giappone nell’epoca Meiji. Conviene ricordare che già la commedia di Shakespeare si basa su una dislocazione: si ambienta in Francia ma per la maggior parte si svolge nella foresta di Arden - che è in Inghilterra, vicino a Stratford-on-Avon: un ritorno di Shakespeare alla sua terra.
Nel film però rimane un problema. Se consideriamo che la maggior parte della commedia si svolge nella foresta, tra gli inglesi, e che dopo il primo atto l’elemento giapponese è raro, pressoché formale, lo spettatore tende ad avvertire quest’impostazione “giapponese” come pene d’amor perdute, se non addirittura come molto rumore per nulla. Ovvero, dopo un inizio convincente nel primo atto, essa diventa estrinseca e, in ultima analisi, più che per suggerire una chiave di lettura esiste per far felici lo scenografo e la costumista.
In ogni modo, la messa in scena di Branagh è piacevole, e sorretta da ottimi attori. Eccellente Bryce Dallas Howard nel ruolo di Rosalinda; Romola Garai la accompagna bene nella parte di Celia, apportandovi alcuni gustosi tocchi di buffoneria. Si guarda con interesse Alfred Molina nei panni di Paragone (Touchstone), ma chi ruba la scena è certamente Kevin Kline nel ruolo del melanconico Jaques.
E’ una scelta, lecita, ma ha un costo, il modo in cui viene qui resa la figura di Rosalinda. Come ne “La dodicesima notte”, Shakespeare gioca mirabilmente sull’ambiguità sessuale: Rosalinda si traveste da maschio ma in veste di maschio si fa corteggiare come se fosse Rosalinda dall’amato Orlando, fingendo di insegnargli a non amare le donne. Nota che al tempo di Shakespeare le donne sul palcoscenico erano interpretate da ragazzi, per cui l’ambiguità intrinseca del testo si nutriva di un gioco scenico prestabilito. In Branagh, Rosalinda in travestimento maschile è visibilmente donna com’era prima; tale scelta, favorita dal carattere androgino degli abiti moderni, rende l’aspetto maschile di Rosalinda altrettanto convenzionale nella figura quanto lo è già nel discorso. Così depotenzia interamente l’ambiguità shakespeariana, rinunciando al gioco sulle identità sessuali.
Commedia aerea e irreale, contenente alcune delle più belle pagine di consapevolezza metateatrale di tutta l’opera di Shakespeare, “Come vi piace” dipinge un mondo che la mutevolezza delle sorti, delle fortune, degli umori rende inconsistente. Un mondo di illusione agrodolce: così questa corte di esiliati in una foresta senza cupezza (piuttosto un amabile bosco) gioca a evocare i pastori e Robin Hood, ma alla fine gioisce per essere stata restituita all’antica dignità, però è subito pronta a dire “Dimentichiamolo per un momento” e tuffarsi nella danza campestre... La vita e l’amore sono realtà umbratili - ma le rincorriamo: con la mente crediamo al distacco dalle cose, col cuore no. Così, il mondo, la fortuna, l’amore, sono da prendere (da com/prendere) come vi piace: as you like it.
(Il Nuovo FVG)
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Apocalypto
Mel Gibson
La foresta vergine si stende in una pace ingannevole come un umido scenario verde da inizio del mondo. Ma prima che questa quiete venga infranta, c’è un dettaglio premonitore. Svolazza una farfalla: sentiamo il battito delle sue ali, innaturalmente amplificato. Questa enfasi sensoriale ci annuncia che in “Apocalypto” saremo sottoposti a una esasperazione dell’esperienza - che del resto estremizza quella che sta alla base del cinema contemporaneo: dove bisogna tutto vedere, tutto udire.
Poi il sipario della foresta viene squarciato dalla frenesia del tapiro in fuga inseguito dai cacciatori: questo film si apre e si chiude con due cacce (la seconda follemente dilatata) forsennate e feroci. La miglior dote di Mel Gibson come regista è proprio il suo estremismo. La sua concezione è darwiniana: lotta per la vita e adattamento all’ambiente: inseguito dai guerrieri Maya, il protagonista Zampa di Giaguaro diventa da preda cacciatore quando ritorna nella foresta, e rivolge contro i suoi nemici le armi del suo ambiente (la stessa trappola che ha ucciso il tapiro); anzi, la foresta sembra cooperare con lui (l’episodio del giaguaro, esemplare proprio per il suo carattere di casualità).
"La Dea del Patibolo non ha pietà per i deboli”: non lo dicono i guerrieri che hanno distrutto il villaggio di Zampa di Giaguaro, lo dicono i prigionieri come amara constatazione. Su tutto il film si stende l’ombra della fine, che verrà da un’invasione - quella europea - destinata a rivelarsi non meno distruttiva che le spedizioni dell’impero Maya. Lo preconizza in un passaggio efficace la bambina demoniaca (che può ben ricordare il Satana femminile de “La Passione di Cristo”). Mel Gibson - che indubbiamente ha sempre sentito una fascinazione per la violenza - deriva dal suo pessimismo una sorta di paura della civiltà come fonte di nuove sopraffazioni. Di qui la spinta alla fuga in una “dimensione originaria”, che sia extrastorica (il villaggio nella foresta di “Apocalypto”) o ai margini della storia (il populismo contadino di “Braveheart”) o post-storica, cioè postatomica: è interessante come i guerrieri Maya, saccheggiatori e schiavisti, ricordino anche fisicamente i punk stupratori e assassini di “Mad Max” (a tal punto quella trilogia si adatta al pensiero di Gibson da autorizzare solo due ipotesi: che vi fosse stata già allora un’influenza dell’interprete Gibson sul regista George Miller o al contrario che quei film abbiano esercitato un influsso permanente sull’attore). Non per nulla le parole che concludono il film sono: “Dovremmo andare nella foresta a cercare un nuovo inizio”.
Questa del nuovo inizio è la tensione fondatrice di Gibson. E ciò è americanissimo: al fondo dell’animo americano giacciono, in contraddittoria coesistenza, il sogno di un nuovo patto sociale (e religioso, un “covenant”) nel territorio vergine e la consapevolezza dolorosa del male che si annida nel cuore selvaggio della foresta. E’ americano anche il darwinismo morale di Gibson, la sua enfasi sulla lotta per la vita: la sua concezione deriva più da Jack London che da Nietzsche.
Il bel film di Mel Gibson non è privo di difetti. Lo sviluppo realizza una drammatizzazione un po’ effettistica, vale a dire, di genere; si vede specialmente nell’inseguimento del protagonista, già ferito in partenza eppure invincibile (peraltro è una pagina di cinema terribilmente emozionante), e ancor più nelle disgrazie di sua moglie, costretta a partorire sott’acqua tenendosi in equilibrio su un sasso nella fossa allagata. Ma tutto ciò appare secondario nel quadro complessivo. Gibson possiede una capacità visionaria forse elementare ma autentica: che qui si esprime al suo meglio nella splendida e farneticante sequenza della metropoli Maya (esplorata dallo sguardo di scoperta dei prigionieri) con la sua popolazione decadente e impazzita, e dei sacrifici umani sulla cima del “teocalli”. Una pagina prodigiosa di delirio e violenza che Gibson consegna a un’antologia ideale del cinema estremo.
(Il Nuovo FVG)
La foresta vergine si stende in una pace ingannevole come un umido scenario verde da inizio del mondo. Ma prima che questa quiete venga infranta, c’è un dettaglio premonitore. Svolazza una farfalla: sentiamo il battito delle sue ali, innaturalmente amplificato. Questa enfasi sensoriale ci annuncia che in “Apocalypto” saremo sottoposti a una esasperazione dell’esperienza - che del resto estremizza quella che sta alla base del cinema contemporaneo: dove bisogna tutto vedere, tutto udire.
Poi il sipario della foresta viene squarciato dalla frenesia del tapiro in fuga inseguito dai cacciatori: questo film si apre e si chiude con due cacce (la seconda follemente dilatata) forsennate e feroci. La miglior dote di Mel Gibson come regista è proprio il suo estremismo. La sua concezione è darwiniana: lotta per la vita e adattamento all’ambiente: inseguito dai guerrieri Maya, il protagonista Zampa di Giaguaro diventa da preda cacciatore quando ritorna nella foresta, e rivolge contro i suoi nemici le armi del suo ambiente (la stessa trappola che ha ucciso il tapiro); anzi, la foresta sembra cooperare con lui (l’episodio del giaguaro, esemplare proprio per il suo carattere di casualità).
"La Dea del Patibolo non ha pietà per i deboli”: non lo dicono i guerrieri che hanno distrutto il villaggio di Zampa di Giaguaro, lo dicono i prigionieri come amara constatazione. Su tutto il film si stende l’ombra della fine, che verrà da un’invasione - quella europea - destinata a rivelarsi non meno distruttiva che le spedizioni dell’impero Maya. Lo preconizza in un passaggio efficace la bambina demoniaca (che può ben ricordare il Satana femminile de “La Passione di Cristo”). Mel Gibson - che indubbiamente ha sempre sentito una fascinazione per la violenza - deriva dal suo pessimismo una sorta di paura della civiltà come fonte di nuove sopraffazioni. Di qui la spinta alla fuga in una “dimensione originaria”, che sia extrastorica (il villaggio nella foresta di “Apocalypto”) o ai margini della storia (il populismo contadino di “Braveheart”) o post-storica, cioè postatomica: è interessante come i guerrieri Maya, saccheggiatori e schiavisti, ricordino anche fisicamente i punk stupratori e assassini di “Mad Max” (a tal punto quella trilogia si adatta al pensiero di Gibson da autorizzare solo due ipotesi: che vi fosse stata già allora un’influenza dell’interprete Gibson sul regista George Miller o al contrario che quei film abbiano esercitato un influsso permanente sull’attore). Non per nulla le parole che concludono il film sono: “Dovremmo andare nella foresta a cercare un nuovo inizio”.
Questa del nuovo inizio è la tensione fondatrice di Gibson. E ciò è americanissimo: al fondo dell’animo americano giacciono, in contraddittoria coesistenza, il sogno di un nuovo patto sociale (e religioso, un “covenant”) nel territorio vergine e la consapevolezza dolorosa del male che si annida nel cuore selvaggio della foresta. E’ americano anche il darwinismo morale di Gibson, la sua enfasi sulla lotta per la vita: la sua concezione deriva più da Jack London che da Nietzsche.
Il bel film di Mel Gibson non è privo di difetti. Lo sviluppo realizza una drammatizzazione un po’ effettistica, vale a dire, di genere; si vede specialmente nell’inseguimento del protagonista, già ferito in partenza eppure invincibile (peraltro è una pagina di cinema terribilmente emozionante), e ancor più nelle disgrazie di sua moglie, costretta a partorire sott’acqua tenendosi in equilibrio su un sasso nella fossa allagata. Ma tutto ciò appare secondario nel quadro complessivo. Gibson possiede una capacità visionaria forse elementare ma autentica: che qui si esprime al suo meglio nella splendida e farneticante sequenza della metropoli Maya (esplorata dallo sguardo di scoperta dei prigionieri) con la sua popolazione decadente e impazzita, e dei sacrifici umani sulla cima del “teocalli”. Una pagina prodigiosa di delirio e violenza che Gibson consegna a un’antologia ideale del cinema estremo.
(Il Nuovo FVG)
Terra di confine
Kevin Costner
Ci riporta all’epoca - come si dice - quando gli uomini erano uomini e le vacche erano vacche, il bellissimo western di Kevin Costner “Terra di confine” (“Open Range”). Però in verità le vacche non godono di una speciale attenzione nel film; mentre i cavalli beneficiano di due o tre inquadrature stupende, ma non sono particolarmente rilevanti. L’animale più significativo del film è un cane, e questo ci dice qualcosa. Nel sistema simbolico del cinema western il cane rappresenta il focolare, la famiglia, la tranquillità della vita quotidiana. Infatti “Open Range” è uno di quei western che mettono in primo piano il quotidiano, il paesaggio, il lavoro, prima che i protagonisti siano tirati per i capelli nello scontro: un western bucolico. Lo dice la prima parte, con quel suo soffermarsi sui cavalli che bevono l’acqua del fiume, sul cagnetto che scodinzola al ritorno dei padroni; lo grida forte la magnifica scelta - nella scena della sepoltura, dopo che i malvagi hanno ucciso un cowboy e il cane - di inquadrare i musi dei cavalli durante la preghiera per “due anime gentili”. Attenzione, bucolico non significa lezioso e piagnucolone. Questo è un western serio e duro: si picchia forte, si spara per uccidere, e si mettono in corpo al nemico tre colpi per assicurarsi di averlo fatto bene. Così fanno i due protagonisti, un indimenticabile Robert Duvall (doppiato splendidamente da Omero Antonutti) e un ottimo Kevin Costner asciutto, sobrio, che non nasconde i capelli che si diradano, e ha perso quel tocco di pomposità alla Robert Redford, un po’ irritante, d’una volta.
Questo film di e con Kevin Costner è una storia di allevatori nomadi contro rancheros; e si capisce che, anche al di là della specifica avventura, il cuore di Costner è tutto per i primi. Tutto il non detto, tutto l’implicato di “Open Range” ci parla di lunghi viaggi sull’erba, vita nella natura fra vento e pioggia, bivacchi nel freddo della notte, scherzi ingenui presso il fuoco, giochi da bambini, litigi, apprendimenti. Il romanticismo quasi russoiano di Costner, che già era l’anima di “Balla coi lupi”.
Western bucolico, russoiano: sono aggettivi che naturalmente ci riconducono dritti a chi incarna la terza delle grandi strade del western classico, accanto a Ford e Hawks: il grande Allan Dwan. “Open Range” è in tutto e per tutto un western alla Dwan. I suoi concetti base sono gli stessi del maestro: rispetto e fiducia, dignità, correttezza, pudore. Robert Duvall e Kevin Costner prima di aprire la caccia ai nemici sotto la tempesta si prendono la briga di salvare un cagnolino (ancora un cane!) che stava annegando nella strada inondata. Annette Bening confessa a Kevin Costner di sognare “un uomo gentile e premuroso”; e le scene del loro timido corteggiamento sono di bellezza assoluta.
Detto in una parola, “Open Range” è un film onesto - la caratteristica dei veri western. I buoni cittadini dapprima hanno paura dei prepotenti, scappano, si rifugiano nella chiesa, poi si ribellano e si mettono anch’essi a sparare, ma poi ci prendono gusto e inseguono il bandito sopravvissuto ammazzandolo in venti contro uno. Kevin Costner (sia come regista sia come personaggio) li guarda con uno sguardo po’ triste, di chi sa che questa è la vita. Nota che anche questa diffidenza nei confronti della folla è un tratto tipico di Allan Dwan (cfr. “La campana ha suonato”). Sempre agganciato al realismo, “Open Range” mantiene una quieta semplicità di racconto (tanto che la scena dell’incubo di Kevin Costner, pur ben realizzata, risulta un po’ artificiosa perché si allontana dalla narrazione “matter of fact” del film). Del pari, i suoi eroi hanno una calma confidenza e accettazione. “Beh, se devo morire voglio prima levarmi la voglia di dolce”, dice Robert Duvall; e la scena in cui prima di affrontare uno scontro impari i due si comprano sigari Avana e cioccolato svizzero è destinata a restare - per la giustezza psicologica, la dignità e la grandezza - nell’antologia ideale del western in assoluto.
(Il Nuovo FVG)
Ci riporta all’epoca - come si dice - quando gli uomini erano uomini e le vacche erano vacche, il bellissimo western di Kevin Costner “Terra di confine” (“Open Range”). Però in verità le vacche non godono di una speciale attenzione nel film; mentre i cavalli beneficiano di due o tre inquadrature stupende, ma non sono particolarmente rilevanti. L’animale più significativo del film è un cane, e questo ci dice qualcosa. Nel sistema simbolico del cinema western il cane rappresenta il focolare, la famiglia, la tranquillità della vita quotidiana. Infatti “Open Range” è uno di quei western che mettono in primo piano il quotidiano, il paesaggio, il lavoro, prima che i protagonisti siano tirati per i capelli nello scontro: un western bucolico. Lo dice la prima parte, con quel suo soffermarsi sui cavalli che bevono l’acqua del fiume, sul cagnetto che scodinzola al ritorno dei padroni; lo grida forte la magnifica scelta - nella scena della sepoltura, dopo che i malvagi hanno ucciso un cowboy e il cane - di inquadrare i musi dei cavalli durante la preghiera per “due anime gentili”. Attenzione, bucolico non significa lezioso e piagnucolone. Questo è un western serio e duro: si picchia forte, si spara per uccidere, e si mettono in corpo al nemico tre colpi per assicurarsi di averlo fatto bene. Così fanno i due protagonisti, un indimenticabile Robert Duvall (doppiato splendidamente da Omero Antonutti) e un ottimo Kevin Costner asciutto, sobrio, che non nasconde i capelli che si diradano, e ha perso quel tocco di pomposità alla Robert Redford, un po’ irritante, d’una volta.
Questo film di e con Kevin Costner è una storia di allevatori nomadi contro rancheros; e si capisce che, anche al di là della specifica avventura, il cuore di Costner è tutto per i primi. Tutto il non detto, tutto l’implicato di “Open Range” ci parla di lunghi viaggi sull’erba, vita nella natura fra vento e pioggia, bivacchi nel freddo della notte, scherzi ingenui presso il fuoco, giochi da bambini, litigi, apprendimenti. Il romanticismo quasi russoiano di Costner, che già era l’anima di “Balla coi lupi”.
Western bucolico, russoiano: sono aggettivi che naturalmente ci riconducono dritti a chi incarna la terza delle grandi strade del western classico, accanto a Ford e Hawks: il grande Allan Dwan. “Open Range” è in tutto e per tutto un western alla Dwan. I suoi concetti base sono gli stessi del maestro: rispetto e fiducia, dignità, correttezza, pudore. Robert Duvall e Kevin Costner prima di aprire la caccia ai nemici sotto la tempesta si prendono la briga di salvare un cagnolino (ancora un cane!) che stava annegando nella strada inondata. Annette Bening confessa a Kevin Costner di sognare “un uomo gentile e premuroso”; e le scene del loro timido corteggiamento sono di bellezza assoluta.
Detto in una parola, “Open Range” è un film onesto - la caratteristica dei veri western. I buoni cittadini dapprima hanno paura dei prepotenti, scappano, si rifugiano nella chiesa, poi si ribellano e si mettono anch’essi a sparare, ma poi ci prendono gusto e inseguono il bandito sopravvissuto ammazzandolo in venti contro uno. Kevin Costner (sia come regista sia come personaggio) li guarda con uno sguardo po’ triste, di chi sa che questa è la vita. Nota che anche questa diffidenza nei confronti della folla è un tratto tipico di Allan Dwan (cfr. “La campana ha suonato”). Sempre agganciato al realismo, “Open Range” mantiene una quieta semplicità di racconto (tanto che la scena dell’incubo di Kevin Costner, pur ben realizzata, risulta un po’ artificiosa perché si allontana dalla narrazione “matter of fact” del film). Del pari, i suoi eroi hanno una calma confidenza e accettazione. “Beh, se devo morire voglio prima levarmi la voglia di dolce”, dice Robert Duvall; e la scena in cui prima di affrontare uno scontro impari i due si comprano sigari Avana e cioccolato svizzero è destinata a restare - per la giustezza psicologica, la dignità e la grandezza - nell’antologia ideale del western in assoluto.
(Il Nuovo FVG)
La vita è un miracolo
Emir Kusturica
Un film come “La vita è un miracolo” di Emir Kusturica sembra fatto apposta per dimostrare l’antico principio che il tutto è più della somma delle parti. Esempio di ordine culinario più che estetico: i krapfen sono molto buoni, però se uno ne mangia trentacinque di seguito è possibile che gli vengano a nausea. Allo stesso modo, quest’affastellamento di scenette anche gradevoli, ma così programmaticamente “à la Kusturica”, non dà vita a un film; produce piuttosto un effetto di infastidita sazietà.
L’essenza del cinema ipertrofico di Emir Kusturica è un’eccitazione, un gasamento, una frenesia, che appartiene allo stesso modo all’autore (dalla vis narrativa e dalla golosità visuale strabordanti, pantagrueliche, smoderate) e al mondo che egli dipinge: un affollarsi strabocchevole di figurette semi-grottesche, frenetiche, rumorose, ubriache di grappa, con quei “visi all’ennesima potenza”, quegli animali onnipresenti, quel bric-à-brac oggettistico tipo madeleine proustiana in salsa jugo, quell’atmosfera balcanica fra sogno e realtà.
Anche ne “La vita è un miracolo” diverse scene, prendendole isolatamente, sono felici (a volte, le più “laterali”, meno necessarie dal punto di vista della costruzione narrativa). Vedi per esempio la delirante descrizione della festa dell’inaugurazione, satira memorabile dei riti nazional-popolari dell’era comunista. Oppure la folle sequenza della caccia all’orso con musica e canti - come molto cinema di Kusturica, specie nella sua prima parte “La vita è un miracolo” è quasi un musical balcanico, con la sua gustosa musica di sapore gitano (però talvolta il mediocre montaggio lo rovina negando a quelli che potremmo chiamare i “numeri” un vero climax). L’interpretazione del protagonista Slavko Stimac è piuttosto modesta, ma ottima è Vesna Trivalic nella parte della moglie pazza.
L’aspetto più rilevante del film è il modo invero abile in cui inserisce nell’allegro caos pacifico della prima parte accenni simbolici cupamente premonitori della guerra futura. Vedi l’invasione degli orsi, che raggiunge, anche grazie a un bel passaggio di dialogo, una pregnanza metaforica autentica e drammatica. O la notevole sequenza della partita di calcio che diventa comica rissa. O la festa di partenza del giovane di leva, dove i gioiosi spari in aria diventano un’anticipazione di ben altri spari.
Un problema de “La vita è un miracolo” è che in realtà si tratta due film in uno: poiché, quando si passa dalla pace alla guerra, quel suo allegro grottesco dispiegato si restringe; forse era inevitabile, ma certo si crea una discrasia di tono ch’è fra i difetti maggiori del film. Ma c’è un problema ben maggiore: anche le scene più felici si perdono in una costruzione gonfia e pesante. In questo film, le caratteristiche di tutto il cinema di Kusturica nel bene e nel male (una vitalistica ipertrofia descrittivo/visuale, intrisa di irrealismo poetico, che si allarga a spese della struttura narrativa) sono ormai diventate manierismo. E’ un rifare se stesso: proprio come Fellini (cineasta vicino per molti tratti al nostro) nella parte declinante della sua carriera fellinava, così Kusturica kusturizza. Così, a un certo punto è tristemente inevitabile che il letto con sopra i due amanti si metta a volare: non è più una soluzione poetica, è un marchio di fabbrica.
Certamente Emir Kusturica ha talento - ma un talento incapace di autodisciplina. Non per nulla i suoi film migliori sono i primi (gli splendidi “Ti ricordi di Dolly Bell?” e “Papà è in viaggio d’affari”), dove condizioni storiche e biografiche lo costringevano a moderarsi; vi aggiungerei “Gatto nero gatto bianco”, dove l’argomento più ristretto e limitato in qualche maniera sortisce l’effetto di circoscrivere la sua enfasi visionaria prima che diventi magniloquenza. Mentre “La vita è un miracolo” con tutto il suo impegno para-poetico ha qualcosa di ampolloso e indisponente, perché si sente sotto un manierismo autocompiaciuto.
(Il Nuovo FVG)
Un film come “La vita è un miracolo” di Emir Kusturica sembra fatto apposta per dimostrare l’antico principio che il tutto è più della somma delle parti. Esempio di ordine culinario più che estetico: i krapfen sono molto buoni, però se uno ne mangia trentacinque di seguito è possibile che gli vengano a nausea. Allo stesso modo, quest’affastellamento di scenette anche gradevoli, ma così programmaticamente “à la Kusturica”, non dà vita a un film; produce piuttosto un effetto di infastidita sazietà.
L’essenza del cinema ipertrofico di Emir Kusturica è un’eccitazione, un gasamento, una frenesia, che appartiene allo stesso modo all’autore (dalla vis narrativa e dalla golosità visuale strabordanti, pantagrueliche, smoderate) e al mondo che egli dipinge: un affollarsi strabocchevole di figurette semi-grottesche, frenetiche, rumorose, ubriache di grappa, con quei “visi all’ennesima potenza”, quegli animali onnipresenti, quel bric-à-brac oggettistico tipo madeleine proustiana in salsa jugo, quell’atmosfera balcanica fra sogno e realtà.
Anche ne “La vita è un miracolo” diverse scene, prendendole isolatamente, sono felici (a volte, le più “laterali”, meno necessarie dal punto di vista della costruzione narrativa). Vedi per esempio la delirante descrizione della festa dell’inaugurazione, satira memorabile dei riti nazional-popolari dell’era comunista. Oppure la folle sequenza della caccia all’orso con musica e canti - come molto cinema di Kusturica, specie nella sua prima parte “La vita è un miracolo” è quasi un musical balcanico, con la sua gustosa musica di sapore gitano (però talvolta il mediocre montaggio lo rovina negando a quelli che potremmo chiamare i “numeri” un vero climax). L’interpretazione del protagonista Slavko Stimac è piuttosto modesta, ma ottima è Vesna Trivalic nella parte della moglie pazza.
L’aspetto più rilevante del film è il modo invero abile in cui inserisce nell’allegro caos pacifico della prima parte accenni simbolici cupamente premonitori della guerra futura. Vedi l’invasione degli orsi, che raggiunge, anche grazie a un bel passaggio di dialogo, una pregnanza metaforica autentica e drammatica. O la notevole sequenza della partita di calcio che diventa comica rissa. O la festa di partenza del giovane di leva, dove i gioiosi spari in aria diventano un’anticipazione di ben altri spari.
Un problema de “La vita è un miracolo” è che in realtà si tratta due film in uno: poiché, quando si passa dalla pace alla guerra, quel suo allegro grottesco dispiegato si restringe; forse era inevitabile, ma certo si crea una discrasia di tono ch’è fra i difetti maggiori del film. Ma c’è un problema ben maggiore: anche le scene più felici si perdono in una costruzione gonfia e pesante. In questo film, le caratteristiche di tutto il cinema di Kusturica nel bene e nel male (una vitalistica ipertrofia descrittivo/visuale, intrisa di irrealismo poetico, che si allarga a spese della struttura narrativa) sono ormai diventate manierismo. E’ un rifare se stesso: proprio come Fellini (cineasta vicino per molti tratti al nostro) nella parte declinante della sua carriera fellinava, così Kusturica kusturizza. Così, a un certo punto è tristemente inevitabile che il letto con sopra i due amanti si metta a volare: non è più una soluzione poetica, è un marchio di fabbrica.
Certamente Emir Kusturica ha talento - ma un talento incapace di autodisciplina. Non per nulla i suoi film migliori sono i primi (gli splendidi “Ti ricordi di Dolly Bell?” e “Papà è in viaggio d’affari”), dove condizioni storiche e biografiche lo costringevano a moderarsi; vi aggiungerei “Gatto nero gatto bianco”, dove l’argomento più ristretto e limitato in qualche maniera sortisce l’effetto di circoscrivere la sua enfasi visionaria prima che diventi magniloquenza. Mentre “La vita è un miracolo” con tutto il suo impegno para-poetico ha qualcosa di ampolloso e indisponente, perché si sente sotto un manierismo autocompiaciuto.
(Il Nuovo FVG)
lunedì 8 settembre 2008
Pranzo di Ferragosto
Gianni Di Gregorio
Si loda troppo poco quel genere di film che potremmo definire “cordiali”, quelli che tengono allegri gli spettatori durante tutto lo svolgimento dall'inizio alla fine (metti, le vecchie commedie Ealing quali “Whisky Galore” o “Passport to Pimlico”, o classici come “Accade una notte” o “Il cielo può attendere”, o ancora la maggior parte dei musical), con un sentimento, per così dire, di sorridente comprensione. E' il caso di “Pranzo di Ferragosto”, scritto, diretto e interpretato da Gianni Di Gregorio, sceneggiatore di Matteo Garrone (qui produttore).
Gianni vive con la madre novantenne e finanziariamente è ridotto male. Così quando l'amministratore del condominio si offre di cancellargli le spese dovute se in cambio lui si occupa di sua madre per ferragosto (così l'amministratore andrà al mare con l'amante), Gianni non può che accettare. Ma poi le vecchiette che gli vengono affibbiate divengono tre... Ciò potrebbe dare lo spunto per un'acida riflessione sulla condizione degli anziani, gestiti come pacchi, ma essa resta implicita (non per questo meno evidente). Quel che ci dà il film è una delicata commedia sui rapporti che si instaurano fra le quattro vecchiette (la cui civiltà formale “d’antan”, come suona oggi arcaica e perduta!), che diventano amicissime - e i problemi di Gianni in questa coabitazione. Le interpreti sono quattro anziane signore non professioniste, ciascuna di particolarissima verità; ma spicca in particolare la madre di Gianni (Valeria de Franciscis, 93 anni reali), col suo volto memorabile e il suo eloquio forbito: è il suo contributo alla scena iniziale, in cui il figlio le legge Dumas, a instaurare quella condizione di felicità espressiva su cui si modula il film.
Certo, si sente qualche ruvidezza da opera prima. Le anziane interpreti in alcuni momenti non riescono a impedirsi di lanciare uno sguardo in macchina; il montaggio in un paio di casi è un po’ brutale; soprattutto, in una bella scena in cui una delle quattro rievoca incantata la sua vita passata (“perché la vecchiaia ti offre poco, pochino”), giustamente il regista fa partire l'inquadratura da una vecchia stampa per poi spostarla sulla vecchietta che parla a occhi chiusi; il guaio è che sul vetro di quella stampa si riflette una lucetta rossa - la telecamera digitale.
Sull'elemento di commedia – ovvero su questa distanza sorridente dello sguardo – Di Gregorio innesta l’idea geniale di un realismo assoluto dei volti, magnificato attraverso la lente d’ingrandimento che è la macchina da presa. La vecchiaia, le macchie della pelle, le grinze, le mani artritiche, tutto quello che una commedia americana si sforzerebbe di attenuare, è enunciato in modo aperto e diretto. “Si parva licet componere magnis”, il regista prende a prestito lo stesso concetto di Dreyer in “Giovanna d’Arco” (lo sottolineò il giovane Luis Buñuel in un saggio famoso): se è ripreso molto ravvicinato, il volto è un paesaggio, ma un paesaggio dotato di realtà psicologica propria.
Il plot sfugge al romanzesco: intendo, la classica narrazione per cui c’è una situazione di equilibrio, poi una “peripezia” con incidenti e sviluppi, che porta a una nuova situazione di equilibrio. Qui, una volta posto il punto di partenza, non succede praticamente niente. Infatti l’unico incidente che avrebbe potuto portare a una complicazione in senso classico, il fatto che la più ribelle delle ospiti si allontani da casa offesa perché non le riconoscono il monopolio del televisore e Gianni corra a cercarla, ha una risoluzione di tipo esclusivamente psicologico, e rientra subito in questo circolo incantato che è il film.
Un cerchio perfetto, un momento di equilibrio precario, il tempo breve della festa, quella sorta di calma voluttà dell’amicizia propiziata dalla buona cucina (brindisi: “Viva noi!”). Però un cerchio perfetto su cui implicitamente si proietta l’ombra del divenire. Perché in un film sull’età estrema e sulla situazione di un giorno, intuiamo razionalmente che “dopo” le vecchiette torneranno a casa, alla solitudine degli anziani; e “dopo” un giorno moriranno; sono troppo vecchie e i loro volti sono troppo macchiati e grinzosi per potersi adagiare in quella specie di eternità eroica di cui godono i personaggi del cinema una volta finito il film, anche quando hanno i capelli grigi.
Essere riuscito a mettere fra parentesi quest’ombra, ecco la grande bravura di Gianni Di Gregorio. La scommessa su cui si regge il film è di passare per la porta stretta della contraddizione fra la dolcezza quasi atemporale dell’allegria ritrovata e l’immediatezza visiva, segnata dal tempo, dei volti e dei corpi. Così il film riesce a situarsi - lo esprime puntualmente il titolo - nella quieta dimensione di tempo sospeso di un giorno felice d’estate.
(Il Nuovo FVG)
Si loda troppo poco quel genere di film che potremmo definire “cordiali”, quelli che tengono allegri gli spettatori durante tutto lo svolgimento dall'inizio alla fine (metti, le vecchie commedie Ealing quali “Whisky Galore” o “Passport to Pimlico”, o classici come “Accade una notte” o “Il cielo può attendere”, o ancora la maggior parte dei musical), con un sentimento, per così dire, di sorridente comprensione. E' il caso di “Pranzo di Ferragosto”, scritto, diretto e interpretato da Gianni Di Gregorio, sceneggiatore di Matteo Garrone (qui produttore).
Gianni vive con la madre novantenne e finanziariamente è ridotto male. Così quando l'amministratore del condominio si offre di cancellargli le spese dovute se in cambio lui si occupa di sua madre per ferragosto (così l'amministratore andrà al mare con l'amante), Gianni non può che accettare. Ma poi le vecchiette che gli vengono affibbiate divengono tre... Ciò potrebbe dare lo spunto per un'acida riflessione sulla condizione degli anziani, gestiti come pacchi, ma essa resta implicita (non per questo meno evidente). Quel che ci dà il film è una delicata commedia sui rapporti che si instaurano fra le quattro vecchiette (la cui civiltà formale “d’antan”, come suona oggi arcaica e perduta!), che diventano amicissime - e i problemi di Gianni in questa coabitazione. Le interpreti sono quattro anziane signore non professioniste, ciascuna di particolarissima verità; ma spicca in particolare la madre di Gianni (Valeria de Franciscis, 93 anni reali), col suo volto memorabile e il suo eloquio forbito: è il suo contributo alla scena iniziale, in cui il figlio le legge Dumas, a instaurare quella condizione di felicità espressiva su cui si modula il film.
Certo, si sente qualche ruvidezza da opera prima. Le anziane interpreti in alcuni momenti non riescono a impedirsi di lanciare uno sguardo in macchina; il montaggio in un paio di casi è un po’ brutale; soprattutto, in una bella scena in cui una delle quattro rievoca incantata la sua vita passata (“perché la vecchiaia ti offre poco, pochino”), giustamente il regista fa partire l'inquadratura da una vecchia stampa per poi spostarla sulla vecchietta che parla a occhi chiusi; il guaio è che sul vetro di quella stampa si riflette una lucetta rossa - la telecamera digitale.
Sull'elemento di commedia – ovvero su questa distanza sorridente dello sguardo – Di Gregorio innesta l’idea geniale di un realismo assoluto dei volti, magnificato attraverso la lente d’ingrandimento che è la macchina da presa. La vecchiaia, le macchie della pelle, le grinze, le mani artritiche, tutto quello che una commedia americana si sforzerebbe di attenuare, è enunciato in modo aperto e diretto. “Si parva licet componere magnis”, il regista prende a prestito lo stesso concetto di Dreyer in “Giovanna d’Arco” (lo sottolineò il giovane Luis Buñuel in un saggio famoso): se è ripreso molto ravvicinato, il volto è un paesaggio, ma un paesaggio dotato di realtà psicologica propria.
Il plot sfugge al romanzesco: intendo, la classica narrazione per cui c’è una situazione di equilibrio, poi una “peripezia” con incidenti e sviluppi, che porta a una nuova situazione di equilibrio. Qui, una volta posto il punto di partenza, non succede praticamente niente. Infatti l’unico incidente che avrebbe potuto portare a una complicazione in senso classico, il fatto che la più ribelle delle ospiti si allontani da casa offesa perché non le riconoscono il monopolio del televisore e Gianni corra a cercarla, ha una risoluzione di tipo esclusivamente psicologico, e rientra subito in questo circolo incantato che è il film.
Un cerchio perfetto, un momento di equilibrio precario, il tempo breve della festa, quella sorta di calma voluttà dell’amicizia propiziata dalla buona cucina (brindisi: “Viva noi!”). Però un cerchio perfetto su cui implicitamente si proietta l’ombra del divenire. Perché in un film sull’età estrema e sulla situazione di un giorno, intuiamo razionalmente che “dopo” le vecchiette torneranno a casa, alla solitudine degli anziani; e “dopo” un giorno moriranno; sono troppo vecchie e i loro volti sono troppo macchiati e grinzosi per potersi adagiare in quella specie di eternità eroica di cui godono i personaggi del cinema una volta finito il film, anche quando hanno i capelli grigi.
Essere riuscito a mettere fra parentesi quest’ombra, ecco la grande bravura di Gianni Di Gregorio. La scommessa su cui si regge il film è di passare per la porta stretta della contraddizione fra la dolcezza quasi atemporale dell’allegria ritrovata e l’immediatezza visiva, segnata dal tempo, dei volti e dei corpi. Così il film riesce a situarsi - lo esprime puntualmente il titolo - nella quieta dimensione di tempo sospeso di un giorno felice d’estate.
(Il Nuovo FVG)
mercoledì 3 settembre 2008
Denti - Teeth
Mitchell Lichtenstein
C’era una volta la Troma - la mitica casa di produzione apertamente e orgogliosamente trash di Lloyd Kaufman, che Dio lo benedica. Oggi vivacchia, lavorando molto per il mercato video, ma ai suoi tempi d’oro sfornò tutta una serie di deliranti delizie popolate di nazisurfisti (“Surf Nazi Must Die!”), studenti dementi zombi atomici (“Class of Nuke ‘em High”), vecchiette idrofobe (“Rabid Grannies”), e non dimentichiamo Tromeo & Juliet, e tanto meno l’eroe Troma numero uno, Toxie, The Toxic Avenger. Ma il titolo forse più famoso del catalogo è “Killer Condom” - che la Troma non produsse, è un geniale film tedesco (“Kondom des Grauens”, 1996) di Martin Walz, ma distribuì col suo marchio sul mercato americano. Tratto da un fumetto dello spiritosissimo disegnatore gay Ralf König, e da lui sceneggiato insieme al regista, presenta il più peculiare dei mostri: un preservativo zannuto che fa strage di, ehm, peni maschili negli ambienti equivoci di New York, mentre il detective gay Mackaroni, che gli è sfuggito per un pelo rimettendoci un testicolo, gli dà la caccia.
“Il cervello! Il mio secondo organo preferito!”, grida Woody Allen ne “Il dormiglione”. Se riuscite a immaginare qual è il primo, potete comprendere quel particolarissimo “frisson” che percorre ogni spettatore di sesso maschile quando sullo schermo una chiostra di denti si chiude “lì”. Il mito della vagina dentata, ci dicono gli antropologi e ora popolarizza il film “Denti – Teeth”, appare in zone diversissime del mondo, rispondendo a un terrore oscuro di castrazione, ovvero alla paura della donna e del contatto sessuale con lei. In questo film satirico scritto e diretto da Mitchell Lichtenstein - che, sì, è il figlio di Roy - la giovane Dawn (Jess Weixler) è nata con la vagina dentata, nella più classica cittadina di provincia americana, a un passo da una centrale atomica inquadrata a più riprese come una presenza sempre più minacciosa. La cosa rilevante è che Dawn appartiene a un’organizzazione giovanile, “The Promise”, in difesa della castità, e fa l’oratrice in isterici raduni basati sul rifiuto del sesso prematrimoniale. Si può dire che il film (certo, non il primo a farlo) porta allo scoperto quei terrori e pulsioni oscure che il cinema horror cela sotto la metafora del mostro: l’equazione fra mostruosità e sessualità qui si manifesta esplicitamente, e la scoperta della propria natura da parte di Dawn - condita da una citazione del film “Lo scorpione nero” di Nathan Juran, da lei appena visto in tv - diventa un’evidente metafora delle paure sessuali adolescenziali, esprimendosi con le parole “C’è qualcosa di sbagliato dentro di me!” (a proposito di citazioni cinematografiche, molto buona quella da “The Gorgon” di Terence Fisher abilmente inserita in montaggio quando Dawn appare sulla soglia della camera dello stupido fratello).
L’elemento satirico, ben servito dalla convincente Jess Weixler, è ben delineato: Dawn incarna perfettamente il tipo della bellezza orribile americana, la “good girl” WASP da capo a piedi, suffragetta della purezza che fa la predica a tutti alla High School e sogna solo un marito e quattro figli (l’anti-Juno, direbbe Diablo Cody). Se non fosse nata col suo piccolo difetto fisico, al college avrebbe potuto iscriversi agli Omega, i nemici dei Delta di John Belushi in “Animal House”.
Il problema è che, nonostante il suo elemento satirico, il film comincia a mordere solo quando comincia a farlo la sua protagonista – cioè piuttosto tardi nello svolgimento. Non è solo per l’analogia della castrazione che citavo la Troma e “Killer Condom”. Apparentemente “Denti – Teeth” assomiglia molto a un film Troma, per quell’aria “sloppy” e rilassata; ma nonostante tutto gli mancano la follia anarchica e il divertimento sfacciato dei film Troma.
Migliora progredendo, quando le cose assumono per loro stessa natura un andamento precipitoso; e qui lo spettacolo di peni e dita troncati vale da solo il prezzo del biglietto; fino a sfociare in una gustosa conclusione muta, con Dawn e un vecchio porco (il caratterista, sublime, si chiama Doyle Carter) che non sa cosa lo aspetta. Persa fra una cultura sessuofoba e giovani deficienti sessuomani, col suo sorriso finale Dawn sembra dire: diamoci un taglio.
(Il Nuovo FVG)
C’era una volta la Troma - la mitica casa di produzione apertamente e orgogliosamente trash di Lloyd Kaufman, che Dio lo benedica. Oggi vivacchia, lavorando molto per il mercato video, ma ai suoi tempi d’oro sfornò tutta una serie di deliranti delizie popolate di nazisurfisti (“Surf Nazi Must Die!”), studenti dementi zombi atomici (“Class of Nuke ‘em High”), vecchiette idrofobe (“Rabid Grannies”), e non dimentichiamo Tromeo & Juliet, e tanto meno l’eroe Troma numero uno, Toxie, The Toxic Avenger. Ma il titolo forse più famoso del catalogo è “Killer Condom” - che la Troma non produsse, è un geniale film tedesco (“Kondom des Grauens”, 1996) di Martin Walz, ma distribuì col suo marchio sul mercato americano. Tratto da un fumetto dello spiritosissimo disegnatore gay Ralf König, e da lui sceneggiato insieme al regista, presenta il più peculiare dei mostri: un preservativo zannuto che fa strage di, ehm, peni maschili negli ambienti equivoci di New York, mentre il detective gay Mackaroni, che gli è sfuggito per un pelo rimettendoci un testicolo, gli dà la caccia.
“Il cervello! Il mio secondo organo preferito!”, grida Woody Allen ne “Il dormiglione”. Se riuscite a immaginare qual è il primo, potete comprendere quel particolarissimo “frisson” che percorre ogni spettatore di sesso maschile quando sullo schermo una chiostra di denti si chiude “lì”. Il mito della vagina dentata, ci dicono gli antropologi e ora popolarizza il film “Denti – Teeth”, appare in zone diversissime del mondo, rispondendo a un terrore oscuro di castrazione, ovvero alla paura della donna e del contatto sessuale con lei. In questo film satirico scritto e diretto da Mitchell Lichtenstein - che, sì, è il figlio di Roy - la giovane Dawn (Jess Weixler) è nata con la vagina dentata, nella più classica cittadina di provincia americana, a un passo da una centrale atomica inquadrata a più riprese come una presenza sempre più minacciosa. La cosa rilevante è che Dawn appartiene a un’organizzazione giovanile, “The Promise”, in difesa della castità, e fa l’oratrice in isterici raduni basati sul rifiuto del sesso prematrimoniale. Si può dire che il film (certo, non il primo a farlo) porta allo scoperto quei terrori e pulsioni oscure che il cinema horror cela sotto la metafora del mostro: l’equazione fra mostruosità e sessualità qui si manifesta esplicitamente, e la scoperta della propria natura da parte di Dawn - condita da una citazione del film “Lo scorpione nero” di Nathan Juran, da lei appena visto in tv - diventa un’evidente metafora delle paure sessuali adolescenziali, esprimendosi con le parole “C’è qualcosa di sbagliato dentro di me!” (a proposito di citazioni cinematografiche, molto buona quella da “The Gorgon” di Terence Fisher abilmente inserita in montaggio quando Dawn appare sulla soglia della camera dello stupido fratello).
L’elemento satirico, ben servito dalla convincente Jess Weixler, è ben delineato: Dawn incarna perfettamente il tipo della bellezza orribile americana, la “good girl” WASP da capo a piedi, suffragetta della purezza che fa la predica a tutti alla High School e sogna solo un marito e quattro figli (l’anti-Juno, direbbe Diablo Cody). Se non fosse nata col suo piccolo difetto fisico, al college avrebbe potuto iscriversi agli Omega, i nemici dei Delta di John Belushi in “Animal House”.
Il problema è che, nonostante il suo elemento satirico, il film comincia a mordere solo quando comincia a farlo la sua protagonista – cioè piuttosto tardi nello svolgimento. Non è solo per l’analogia della castrazione che citavo la Troma e “Killer Condom”. Apparentemente “Denti – Teeth” assomiglia molto a un film Troma, per quell’aria “sloppy” e rilassata; ma nonostante tutto gli mancano la follia anarchica e il divertimento sfacciato dei film Troma.
Migliora progredendo, quando le cose assumono per loro stessa natura un andamento precipitoso; e qui lo spettacolo di peni e dita troncati vale da solo il prezzo del biglietto; fino a sfociare in una gustosa conclusione muta, con Dawn e un vecchio porco (il caratterista, sublime, si chiama Doyle Carter) che non sa cosa lo aspetta. Persa fra una cultura sessuofoba e giovani deficienti sessuomani, col suo sorriso finale Dawn sembra dire: diamoci un taglio.
(Il Nuovo FVG)
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