martedì 27 febbraio 2024

Romeo è Giulietta

Giovanni Veronesi

Un tema molto presente nel teatro di Shakespeare è il travestimento – che è più che mai interessante quando investe lo scambio di genere, con una ragazza che si fa passare per giovanotto (La dodicesima notte, Come vi piace, Il mercante di Venezia). Questo, che implica una particolare carica di ambiguità sessuale, era naturalmente facilitato dal fatto che nel teatro elisabettiano le donne erano sempre interpretate da ragazzi en travesti.
Il concetto è stato sfruttato da sempre nel cinema (un importante film del periodo muto, con Asta Nielsen, metteva in scena un Amleto donna che è stato cresciuto ingannevolmente come maschio per ragioni politiche). È senza dubbio tale concetto che ha suggerito una commedia intelligentemente scritta come Romeo è Giulietta di Giovanni Veronesi. Un anziano regista dispotico (Sergio Castellitto) maltratta e respinge la giovane attrice Vittoria (Pilar Fogliati) all’audizione per il ruolo di Giulietta in un suo spettacolo. Lei giura vendetta e, con l’aiuto di una truccatrice licenziata (Geppi Cucciari), grazie a un abile trucco e un naso finto assai realistico, si fa passare per maschio (il nome della protagonista nasconde un'allusione a Victor/Victoria) e si ripresenta per il ruolo di Romeo. È per beffa, ma quando ottiene la parte, non ha più voglia di svelarsi. Si instaura così un gioco degli equivoci, anch’esso di sapore shakespeariano: vedi la complessa vendetta del fidanzato di lei. Inoltre il vecchio regista si innamora di “lui”.
Giovanni Veronesi è un regista che altre volte ha peccato gravemente di verbosità (il terribile Il mio West non è cinema, è radio!); ma stavolta, alle prese con un materiale così promettente, consegna un film piacevole, sebbene non agilissimo. La parte più divertente sono le audizioni di pessime attrici che precedono quella di Vittoria. Una cosa degna di nota è peraltro il fatto che il teatro di Shakespeare non è fatto per i nostri giovani attori: fra la recitazione umoristicamente modesta imposta dal plot e quella “autentica” non è che ci sia tutta quella differenza. In ogni modo, sebbene Pilar Fogliati sia brava e convincente nella doppia parte, si crea nel film una sorta di disfida generazionale fra i giovani e i vecchi – che i secondi (Castellitto, Margherita Buy, Alessandro Haber) vincono alla grande. In particolare Sergio Castellitto si mangia il film nella parte del vecchio regista gay, ritratto memorabile di un uomo arrogante ma tutt'altro che sciocco. Ci sarebbe molto da eccepire sulla sua gentilezza (lo shakespeariano “latte dell’umana bontà” scorre ben scarso in lui) ma, quanto al contenuto, le sue intemerate violente e sarcastiche non sono solo divertenti ma del tutto giustificate.

martedì 20 febbraio 2024

I tre moschettieri - Milady

Martin Bourboulon

Quanti ne abbiamo visti di “Tre Moschettieri”? Da quelli eleganti e piumati di George Sidney del 1948, con Gene Kelly, a quelli scanzonati di Richard Lester del 1973, da quelli “steampunk”, con una macchina volante, del 2011 a quelli parodistici (chi si ricorda del Quartetto Cetra?). Ora Martin Bourboulon, che ci aveva divertiti l’anno scorso con “I tre moschettieri – D’Artagnan”, torna col secondo capitolo (sorpresa: non l’ultimo!), “I tre moschettieri – Milady”. La cattivissima del titolo è una sfavillante Eva Green, il cui busto generosamente esibito fa strabuzzare gli occhi sia al di qua sia al di là dello schermo, tanto ai personaggi quanto agli spettatori.
I moschettieri si trovano impegnati nell'assedio de La Rochelle e D’Artagnan deve ritrovare l'amata Constance, rapita nel film precedente. L’arcinemica Milady è lì per mettere i bastoni fra le ruote. Bourboulon e i suoi sceneggiatori si sono saggiamente attenuti allo spirito, se non alla lettera, del romanzo; i pochi tocchi di modernizzazione (la presenza di un moschettiere nero, peraltro un principe, o un accenno alla bisessualità di Porthos) sono discreti e non offendono. L’ambientazione naturalmente è realistica: un Seicento sporco e fangoso, in cui i duelli diventano risse rotolandosi a terra e i moschettieri – altro che Gene Kelly – vanno in giro con giubbe scure e cappellacci con piume striminzite, mal rasati e poco puliti. Il dialogo è vivace e spiritoso, la regia è convincente. Se Eva Green è brava quanto bella (vedi le scene in cui, ingannevolmente, si confida), Vincent Cassel (Athos) ruba la ribalta con la sua disperazione trattenuta; ma tutti i quattro sono commendevoli. Un filmone di cappa e spada contemporaneo e tradizionale allo stesso tempo. Che potrebbe desiderare di meglio
l'appassionato di Dumas?

(Messaggero Veneto)


giovedì 15 febbraio 2024

Green Border

Agnieszka Holland

Preparate i fazzoletti. "Green Border" di Agnieszka Holland presenta l’odissea dei rifugiati fra Bielorussia e Polonia, seguendo una famiglia siriana, più un’intellettuale afghana con loro, nel 2021. Sono stati attirati in Bielorussia dal dittatore Lukashenko per scaraventarli dentro le frontiere europee, come arma impropria nella guerra mondiale a pezzi contro l’Occidente. Pesantemente maltrattati di qua e di là, vengono spediti in segreto dai bielorussi in Polonia e rispediti in segreto dai polacchi in Bielorussia: povera gente buttata a calci da una parte all'altra, come una palla da tennis. L'"imagerie" del film usa come modello i rastrellamenti e i lager nazisti.
Ultra-didattico, il film non ha grandi meriti artistici, a parte la bella fotografia, ma è decisamente commovente sui patimenti di queste vittime. Vale sempre il verso di Dante: “E se non piangi, di che pianger suoli?” Peraltro Agnieszka Holland rifiuterebbe una valutazione di tipo estetico: il suo è un film militante.
Sul piano narrativo "Green Border" si divide fra i due mondi, i migranti e i polacchi. La parte sui migranti è convincente: personaggi semplici ma credibili, e ben interpretati; si crea un’adesione umana che li fa seguire con partecipazione. Se tutto il film fosse stato narrato dal loro punto di vista ne sarebbe uscito un film di rilievo. Ma quando Holland rappresenta l’altra parte, divisa nettamente in cattivi (una Polonia para-nazista) e buoni (pochi polacchi che fanno resistenza clandestina), tutte le caratterizzazioni diventano prevedibili e stereotipate, non solo dalla parte dei cattivi (normale amministrazione cinematografica) ma anche da quella dei buoni. Agnieszka Holland avrebbe qualcosa da imparare – e parliamo sempre di cinema a forte impronta didattica – dal Ken Loach di "The Old Oak". 

(Messaggero Veneto)

giovedì 8 febbraio 2024

Ambin - La roccia e la piuma

Fredo Valla

Il massiccio dell’Ambin, “cuore bianco della Valle di Susa”, tra il Piemonte e la Francia, è protagonista dell’ultimo film di Fredo Valla, il bellissimo documentario Ambin – La roccia e la piuma, che si può vedere in rare fortunate occasioni di proiezione. A Udine è stato presentato al cinema Visionario venerdì 2 febbraio.
Fredo Valla è regista di eccellenti documentari (oltre che sceneggiatore: cito solo Il vento fa il suo giro e Lubo, entrambi di Giorgio Diritti) ma il suo documentarismo è diverso da quello tradizionale. All’istanza ordinatrice autoritaria della voce narrante, Valla preferisce sostituire una pluralità di voci, un mosaico. Il suo metodo è quello del collage di interventi/dichiarazioni, e ciò dà all’opera una particolarissima veridicità. Spesso la sua scelta è quella di ancorarsi a un personaggio che crea una continuità narrativa su cui s’innesta il discorso: come Giorgio Conte in Plus haut que les nuages o Pietro Spirito in Medusa – Storie di uomini sul fondo o, a un livello più complesso, lui stesso come soggetto peregrinante in Bogre – La grande eresia europea. Non in Ambin dove abbiamo solo una ritmata, fascinosa, convincente polifonia di voci che crea la sensazione viva dell’esistenza e della memoria. Tutte queste voci danno l'impressione che l’oggetto di film “si costruisca da sé”. Ovviamente il documentario è sempre uno sguardo non incorporeo sul mondo: è sempre la mediazione di un autore (questo raggiunge la sua reductio ad absurdum nel documentario-pamphlet alla Michael Moore). Peraltro, anche se l’elemento ordinatore dello sguardo autoriale è ineliminabile, in Ambin esso è mediato da una sorta di disponibilità che mette in primo piano la montagna sui due piani, diacronico e sincronico, dell’esistenza.
Di solito i film sulla montagna (senza riandare ai Bergfilme tedeschi, menziono il sottovalutato Grido di pietra di Werner Herzog) tendono alla vetta, punto di arrivo. Certamente, come dice Fredo Valla, questo si lega spesso al concetto della montagna violata, quasi un discorso di stupro come atto simbolico. Ma se il film è il sogno della conquista della vetta, la montagna in sé diventa il luogo di un percorso, il momento della contraddizione: vale principalmente come ostacolo. Invece in Ambin la montagna appare per sé. E la cima (i Denti) non è conquistata se non nel senso ludico del gruppo di highliners alla fine – il che non nega né l’elemento di inevitabile suspense che proviamo sempre davanti a simili spettacoli né l'aspetto incantato che li circonda (l’aurora). Nel loro camminare sul filo sopra l’abisso, o anche stendersi per gioco a fingere di dormire, vediamo realizzarsi quell'antitesi fra il pieno e il vuoto, il massiccio e il volatile, la roccia e la piuma, postulata dal (sotto)titolo.
Un grande lavoro di fotografia, che si avvale anche di riprese col drone e dall’elicottero, rende la bellezza materiale, fisica, “tangibile” della montagna. In molti dettagli, per esempio l’elemento insieme concreto e visionario delle statue di Santi nel buio, si riconosce l’autore di Bogre – La grande eresia europea. Riguardo all’ordine espositivo, il percorso è divagante, poetico, e il montaggio, che ama talvolta i raccordi per contrasto, lo riflette. Lasciando la parola a Valla stesso: “ho cercato… un approccio diverso al tema, vorrei dire più lirico, dove quella sorta di Sahel alpino (complice la siccità) che è il Massiccio d'Ambin, con i pochi ghiacciai rimasti simili a tele di Hartung, attraversati da segni profondi, assumessero un significato diverso (quello dell'antropologo all'inizio del film). Poi, escludendo la voce off che non mi è congeniale, ho voluto che a raccontare il Massiccio e il rapporto con la montagna fosse la gente che ci vive attorno, in una sorta di montaggio che definirei espressionista” (lettera di Fredo Valla a chi scrive).
Gli interventi, sarebbe riduttivo chiamarli interviste, sono sempre interessanti e spesso assai illuminanti, o per l’aspetto scientifico o filosofico (bellissimo per esempio il discorso sul significato delle croci in cima alle montagne), o per la concretezza umana (i due malgari) o per una qualità di “meraviglia” che crea una pagina magica (la visita alla galleria, scavata da un Colombano nel Cinquecento). Anche l’intervento della giovane donna nel rifugio esprime in modo intrigante il concetto “alternativo” di viaggio, come continua conoscenza del percorso, rispetto alla linea retta dell’aereo; si può trovare invece retorico (iper-semplificatorio) il suo discorso, quando prosegue, sull’insensatezza delle frontiere, ma anche questo, come credo dicano i giovani, “ci sta”. La scelta di non mettere le didascalie che permettano di dare un nome alla persona che parla è una scelta radicale ma centrata, perché contribuisce a una fluidità discorsiva che lo apparenta in qualche modo allo scorrere della vita (dove parliamo con centinaia di persone ma non vediamo didascalie). Forse nei titoli di coda sarebbe stato opportuno che i nomi, anziché sul nero, apparissero accanto all'immagine relativa del film, in modo da attivare la memoria dello spettatore.
Sui due assi del presente e della memoria, la forza della storia umana – il senso profondo delle croci alpine, i ricordi del passato, dalla Glorieuse Rentrée dei valdesi nel XVII secolo al vecchio forte italiano bombardato dagli italiani per sperimentare i progressi dell'artiglieria, l'ingegneria umana, la piccola cronaca sugli animali scomparsi – si incrocia con l’altra dimensione del tempo, quella della montagna. Perché, se noi “viviamo la montagna”, la montagna vive come noi – ma questa sua vita si esprime in una dimensione temporale del tutto diversa: ere geologiche contro i nostri brevi anni; e potremmo dire che anche nella dialettica fra la “lentezza” possente della montagna e l'immediatezza transeunte delle vite umane ancora si ritrova l'endiadi del sottotitolo, la roccia e la piuma. Qui la geologia, sulla quale il documentario insiste, entra perfettamente, perché è una descrizione dell’“anatomia dell’Ambin”, fonda quel modo di renderlo personaggio su cui s’impernia il discorso.


domenica 4 febbraio 2024

Prima danza, poi pensa - Alla ricerca di Beckett

James Marsh

Un consiglio agli spettatori: prima di vedere il “biopic” (film biografico) su Samuel Beckett “Prima danza, poi pensa” di James Marsh, conviene guardarsi su YouTube il cortometraggio di 22 minuti “Film” (1962), scritto da Beckett e interpretato dal vecchio Buster Keaton. Mostra in forma di strano apologo il suo mix di conoscenza del dolore, bizzarra saggezza e umorismo nero. Perché? Perché così davanti al film di Marsh capiamo di chi si parla.
Qual è il compito d’un “biopic” su un artista? Dare un'illustrazione della sua vita; portarci (a sommi tratti) dentro la sua opera; possibilmente, mostrare il loro rapporto reciproco. Lo sceneggiatore del presente film, Neil Forsyth, ha scelto di focalizzare il racconto sulla storia privata di Beckett, e questo è legittimo; però manca completamente la seconda esigenza. Vediamo uno scrittore malinconico e le donne della sua vita; ma per quel che il film ci fa capire della sua opera, potrebbe essere chiunque. Il suo genio viene asserito ma non mostrato, salvo citazioni inavvertibili e quattro secondi quando guarda la rappresentazione di una sua pièce. Non a caso il film inizia col conferimento del Premio Nobel: sentir declamare le motivazioni dà allo spettatore una direzione su che cosa deve pensare.
Alla cerimonia del Nobel Beckett entra in una specie di caverna e incontra se stesso; discutendo con se stesso (coscienza? memoria?) per tutto il tempo vede sfilare sotto gli occhi gli episodi della sua vita. Questa trovata “artistica” piuttosto kitsch dialoga con il tono medio, da film televisivo, degli episodi. Fra questi è interessante quello su James Joyce (potenza dei nomi!) ma nel complesso non si va oltre una convenzionalità ben recitata. Samuel Beckett come grande drammaturgo e scrittore aspetta ancora il suo Godot cinematografico.

(Messaggero Veneto)