Diversi anni fa il Centro Espressioni Cinematografiche presentava in dicembre, all’indimenticato cinema Ferroviario d’Essai, un festivalino di cartoni animati in collaborazione con la Cineteca del Friuli, con qualche novità e soprattutto con magnifico materiale d’epoca. E’ bello che questo appuntamento decembrino si sia rinnovato con la nascita a Udine del Piccolo Festival dell’Animazione, curato da Paola Bristot, in stretta relazione con il festival Animateka di Lubiana (inoltre confluisce in questo festival, per il settore animazione, la rassegna di forme brevi “Videounlimited” a cura di Valentina Cordelli e Thomas Marcuzzi). Una prima edizione “sperimentale” ha avuto luogo al Visionario (12-19 dicembre), aprendosi con la proiezione di un piccolo capolavoro francese che assurdamente non ha avuto distribuzione in Italia (ma si sa che presto uscirà in DVD): il lungometraggio collettivo a episodi “Peur(s) du noir”, firmato da una serie di disegnatori e autori fra cui il “nostro” Lorenzo Mattotti.
Il Piccolo Festival dell’Animazione è dedicato all’animazione “d’autore”: un termine alquanto discutibile che serve a porre una distinzione rispetto alle grandi imprese commerciali. I mezzi impiegati vanno dall’animazione tradizionale a quella al computer, a tecniche particolari come il “cut-out”, ai “puppets”, pupazzi e plastiline animati a passo uno: colpisce la forte presenza di quest’ultima forma, che è una tradizione delle scuole di animazione dell’Europa orientale (come non ricordare qui la grande lezione di Jiri Trnka?). In effetti una bellissima retrospettiva è stata dedicata alla produzione più recente della casa di produzione estone Nukufilm, attiva nell’animazione di “puppets” fin dalla fondazione nel 1957. Abbiamo così visto numerosi lavori di eccellente livello, come lo spiritoso “Istinct” di Rao Heidmets, l’intelligente “Closing Session” di Hardi Volmer, il delirante “Fox Woman” di Priit Tender, il cupo “Having Soul” di Riho Unt; ma di quest’ultimo autore va citato in particolare l’ultimissimo “Brothers Bearheart”, una pazza riscrittura della pittura moderna attraverso le avventure di tre orsi che sono Van Gogh, Rodin e Toulouse-Lautrec (e sono anche i tre orsacchiotti raffigurati in un famoso quadro del russo Šiškin). A volte i cartoon brevi mostrano qualche carenza, o disinteresse, circa l’aspetto specificamente narrativo; ma questo piccolo capolavoro di umorismo colto vanta una sceneggiatura forte da fare invidia a molti lungometraggi “comedy”.
Il cuore del festival è però stata la retrospettiva dedicata allo svizzero Georges Schwizgebel, geniale autore metamorfico. Fortemente collegati alla musica, i suoi cartoni – realizzati con pittura su acetato - sono un incessante fluire e trasformarsi; il suo punto di vista è un allargarsi e rovesciarsi continuo (con una particolare attrazione per la “mise en abyme”).
Andiamo a curiosare fra i film migliori del programma (deludenti, sia detto in margine, gli autori italiani), che comprendeva opere sia recenti sia realizzate genericamente nel decennio. Useremo per comodità i titoli internazionali. Il film vincitore del premio del pubblico, “KJFG No. 5” di Alexei Alekseev (Ungheria), è di sicuro il più divertente fra quelli presentati al festival, nonché - va annotato - uno dei più tradizionali (ciò che può avere contribuito a conciliargli il favore del pubblico): riporta direttamente per stile e concezione all’animazione classica dell’Est europeo. E’ un’operina estremamente spiritosa, di intelligenza fulminante nel suo umorismo dell’assurdo, che nella sua brevità (sotto i due minuti) funziona grazie a un “timing” accuratissimo. Sempre dall’Ungheria arriva, per contrasto, il film più innovativo (sempre che non vogliamo chiamare “innovazione” delle balordaggini al computer come “Rotators” del croato Tomislav Findrik): “Life Line”, di Tomek Ducki, descrizione astratta e in qualche modo tragica di un mondo meccanico dove su rotaie sospese in aria scivolano figure antropomorfe composte di ruote dentate. Umani o inumani? Umani, certo, umanissimi sono i loro movimenti e quel che mostrano dei loro sentimenti. Ma umani ridotti all’ombra, alla trascrizione meccanica, all’essenzialità, in un mondo non meno essenziale, e desolato.
“Somnambule” di Anke Feuchtenberger (Germania), del 2006, è forse il lavoro migliore presentato alla rassegna. Versione animata di un fumetto dell’autrice, con una bella animazione “sporca” ove il tremolio della figura sfugge all’ossessione della continuità del tratto propria dell’animazione dell’industria, presenta in brevi episodi le avventure surreali di una donna nuda dalle lunghe orecchie che abita un pianetino privato vagamente simile a quello del Piccolo Principe, ed è innamorata di una luna dai tratti maschili (del resto, in tedesco “der Mond” è maschile). Graficamente bellissimo nella sua semplicità di tratto, il film è un susseguirsi di invenzioni inquietanti e sottilmente perverse.
Prodotto da Germania e Slovenia è “Lovesick” della slovena Špela Čadež, una storia d’amore fra “puppets” in uno studio medico che cura le malattie più folli, perfettamente costruito come scenografia (in generale si può osservare che la materialità dei pupazzi ama circondarsi di oggetti - o riproduzioni di oggetti -“vecchi”, caricati di memoria, immediatamente evocativi, e per questo un po’ tristi). Ciò che ben si vede anche in “Sainte Barbe”, malinconica animazione di “puppets” di Cédric Louis e Claude Barras. Canada e Slovenia sono i paesi produttori.
Lo slovacco “Four” di Ivana Šebestova è una gradevole “ronde” di amori realizzati animando “cut-outs” di gusto volutamente démodé: una serie di storie interlineate in un ambiente arioso e solare, che poi si congiungono grazie al racconto anacronico - come, per intenderci, nel Kubrick di “Rapina a mano armata”. Un amabile erotismo attraversa il cartoon; e a proposito di eros, come non citare qui “Patty” di Matej Lavrenčič e Roman Ražman (Slovenia), omaggio alla Patty Diphusa di Almodovar, che inizia in stile “Out of the Inkwell” esibendo il materiale e il lavoro e si scatena in un’animazione supersexy, accompagnata da una canzone in onore della protagonista che a un certo punto riecheggia Kurt Weill!
Olanda, Belgio e Gran Bretagna producono il poetico “Father and Daughter” di Michael Dudok de Wit, un’allegoria della vita umana attraverso l’interminabile attesa di una figlia per il padre partito in barca, realizzato con uno splendido disegno acquerellato dove gli alberi, i ciuffi di canne, i voli d’uccelli sono debitori della pittura orientale. Dalla Gran Bretagna arriva “Adjustement” di Ian Mackinnon: misto di animazione al computer e “live action”, è una riuscita riflessione intellettuale sul cartoon (che usa la tecnica dei “flip books” come simbolo dell’arte) e di conseguenza sull’estraneazione dell’artista dalla realtà in favore della riproduzione, attraverso il racconto della fine di un rapporto d’amore.
In “Tôt ou tard” di Jadwiga Kowalska (Svizzera) l’elementarietà bidimensionale delle figure, dal tratto elegantemente infantile, ben si adatta a un concetto di “meraviglia” infantile: una teoria delirante dell’alternarsi di giorno e notte come effetto meccanico del lavoro di ingranaggi sotterranei. Basta una ghianda che cade giù per un albero cavo a bloccare questo meccanismo, consentendo l’incontro e l’amicizia fra una creatura del giorno e una della notte. Ancora svizzero è “The Cable” di Claudius Gentinetta e Frank Braun, umorosa descrizione della sfiga assoluta in un viaggio su una funivia che definire poco sicura è dir poco - e dei mezzi volontaristici (qui: un nastro di scotch) di un uomo di fronte al disastro. La bella descrizione ambientale trasmette veramente la sensazione della montagna, della gelida altezza e del pericolo.
E restiamo in Svizzera con “Le Printemps de Sant.-Ponç” di Eugenia Mumenthaler e David Epiney. Le voci degli ospiti di un’istituzione per handicappati in Catalogna scorrono sopra animazioni dei loro stessi disegni. Un film interessante, ma nel quale l’animazione sembra mantenere un ruolo estrinseco e vicario; l’impatto del film lo danno queste voci con le loro storie di solitudine, emarginazione e violenza subita: non cambierebbe nulla se le voci scorressero su pareti nude, alla Margherite Duras.
Il polacco “Alter Ego” di Kuba Gruglicki è una riflessione divertita e cinica sul di qua e di là dello specchio, sorretta da una magnifica animazione tridimensionale al computer: magnifica prospettiva, eccellente resa della figura umana, entro una scenografia di delusione e desolazione. Il francese “Skhizein” di Jérémy Clapin è interessante - anche se piuttosto prolungato e in ultima analisi intellettualistico -per l’invenzione audace di un uomo che, per l’influsso di un meteorite, si trova spostato a 91 centimetri da se stesso: un paradosso che il film concretizza non senza abilità (memorabile l’auto guidata da fuori!).
Dalla Croazia in coproduzione con la Francia viene il bel cartoon futuristico post-disastro “Morana” di Simon Bogojevic Narath. E’ Moebius, naturalmente, l’ispirazione è visibilissima; e come in Moebius la concezione del mondo fa premio sull’aspetto narrativo. Però il film scorre piacevolmente, a tal punto che un produttore coraggioso non farebbe male a prolungarlo a lungometraggio. Il serbo “Metamorph” di Rastko Ćirić è un “must” per gli amanti di pseudoscienze, “pseudobiblia” e animali immaginari: è un documentario didattico, rivolto agli allevatori, sulla cura di un animale impossibile durante il ciclo inesauribile delle sue metamorfosi che violano tutti i confini dei regni animale e vegetale. Peccato che, tre anni dopo questo gustosissimo film del 2005, lo stesso autore si sia perso in compiaciuti giochetti al computer col tedioso e troppo lungo “Fantasmagorie 2008”.
L’olandese “Sold Out” di Marie José van der Linden e Gerrit van Dijk parla con dimessa cordialità di un negozietto a conduzione familiare nel passare degli anni. Durante il racconto i personaggi si bloccano in foto-ricordo, oppure ne escono per andare a servire i clienti: realizzando una sensazione di “album di famiglia” che è coerente con questa sensazione del tempo che passa in opposizione al “presente continuo” dei supermercati (da cui alla fine sarà sostituito il piccolo negozio). E’ un film che riesce a coniugare la particolarità dei suoni e dei visi (il Brabante) con l’universalità del ricordo.
Quanto mai diverso il delirante “Vesna Doesn’t Work Today”, di Anete Melece, che ci arriva dalla Lituania. Trascrizione in termini umoristicamente grotteschi delle incertezze del corteggiamento, il film è un conglomerato di idee, alcune buone altre meno, che migliora andando avanti e lascia un ricordo positivo, sebbene non abbia una particolare profondità nemmeno in termini di humour dell’assurdo.
Dall’Argentina arriva “Lapsus” di Juan Pablo Caramella, tutto sul gioco fra i campi opposti di bianco e il nero, pieno d’invenzione e d’intelligenza, in una quantità infinita di giochi grafici di cui è vittima una suora (“Oh my God!”) presa fra le due dimensioni. Dal Canada, “Madame Tutli-Putli” di Chris Lavis e Maciek Szczerbowski. Realizzato con “puppets” estremamente espressivi grazie al movimento degli occhi e genialmente concretizzati con abiti e oggetti, crea una sensazione di realismo onirico invero inquietante: le paure inconsce di un lungo viaggio in treno, che tutti abbiamo sperimentato (le soste nel cuore della notte…), qui si materializzano sullo schermo con forza sconcertante.
Ma non chiuderemo senza menzionare il geniale Blu, che meriterebbe una rassegna a parte. E’ l’inventore di un nuovo genere espressivo, che potremmo chiamare graffiti animati (visibili anche su Internet). I graffiti metropolitani prendono vita, lungamente ridisegnati e animati a passo uno, con esiti stupendi. Dove un motivo, non l’ultimo, di fascino dell’operazione è come Blu inserisce nel contesto semi-narrativo gli “ostacoli”, le interruzioni del muro, come una finestra, col graffito in movimento che ci striscia sotto. Così nella dialettica del disegno viene recuperata e inserita la realtà bruta del supporto, che non è cosa da nulla, trattandosi della concretezza materiale della città.
(Il Nuovo FVG)
lunedì 29 dicembre 2008
martedì 16 dicembre 2008
Changeling
Clint Eastwood
Più volte in interventi precedenti è capitato a chi scrive di insistere sulla somiglianza tra Clint Eastwood e Howard Hawks - e questa si vede anche nel magnifico “Changeling”. Nota in margine: è indicativo della grandezza di Eastwood che si possa definire con questo aggettivo un film che non tocca la stessa tragica altezza dei suoi ultimi capolavori, “Million Dollar Baby”, “Flags of Our Fathers”, “Lettere da Iwo Jima” - come dire che Clint, quando non fa capolavori assoluti, fa “solo” film magnifici, e bisogna accontentarsi.
“Changeling”, che ha per sottotitolo “Una storia vera”, si svolge nel 1928. A Christine Collins (Angelina Jolie, eccezionale), una madre single, viene rapito il figlio Walter. Dopo qualche mese, per far bella figura con la stampa, la corrotta polizia di Los Angeles restituisce alla madre un ragazzino, accuratamente imbeccato, che assomiglia allo scomparso. Quando Christine insiste che non è lui, la polizia la fa chiudere in manicomio. E’ solo l’impegno del predicatore Bliegreb (John Malkovich) a salvarla; intanto la confessione del complice fa ritrovare i resti dei bambini uccisi da un serial killer (Jason Butler Harner), che ha rapito Walter e forse l’ha ucciso mentre fuggiva. Lo scandalo travolge tutti i colpevoli, ma Walter non verrà ritrovato.
“Regola numero uno: non colpire per primo - ma colpisci per ultimo”, dice Angelina Jolie a suo figlio all’inizio del film: è il concetto eastwoodiano e americano di non arrendersi mai. Christine Collins non è una suffragetta, una Jane Fonda (orrore!) dell’epoca, una “concerned”; è una donna - nella dura condizione di una madre non sposata negli anni ’20 - che non si arrende, proprio come ha insegnato a suo figlio. Fa quello che farebbe nella sua situazione ogni madre (degna di questo nome, intendo, poiché ad esempio contrario c’è la madre dell’impostore, messa alla berlina in una scena fulminea) - solo che lo fa con più coraggio e determinazione di tutte: ecco la serietà diretta e concreta di Hawks. “Changeling” contiene la morale “western” che attraversa tutto il cinema di Eastwood, una morale della responsabilità (per questo l’insulto peggiore che fa alla donna il poliziotto disonesto è di volersi liberare della responsabilità del bambino).
Forse è proprio per questa morale che Eastwood disprezza gli esecutori (la banalità del male!) più ancora dei responsabili primi. Lo mostra negli schizzi del dottore complice (il finto Walter è più basso dell’altro? “La colonna vertebrale può essersi accorciata”), del tronfio psichiatra del manicomio, o dell’infermiera-kapò (due inquadrature in soggettiva del suo viso gelido nelle scene dell’elettroshock sono sufficienti a condannarla per sempre).
Vestito di colori d’epoca nella bellissima fotografia di Tom Stern (un “regular” degli ultimi film eastwoodiani), “Changeling” è un film pervaso d’una cupezza assoluta - dove l’unico momento di gioia per lo spettatore (o almeno, per questo spettatore) sta nel vedere l’impiccagione, narrata con estremo realismo, dell’assassino. Eppure non è un film nichilista; ed è la grande capacità del cinema eastwoodiano, dovuta a quella base morale cui accennavo, di elaborare un pessimismo radicale senza cadere in un nichilismo un po’ compiaciuto all’europea (e massime all’italiana).
Esiste un elemento inquietante nella figura di questo bambino intruso (un “changeling” sarebbe un infante scambiato in culla dagli elfi, che portano via il bambino umano lasciando al suo posto uno dei loro). Un elemento inquietante che si dichiara nel suo ambiguo sorriso ad Angelina Jolie sconvolta nell’auto che li riporta a casa subito dopo la “restituzione”. Bisogna però dire che il film non solo non esplora questo elemento ma, con l’eccezione di una scena assai bella, tende progressivamente a far uscire il bambino dal suo campo emozionale; e questo è certamente un difetto.
Ma quale grande capacità registica e narrativa mostra Clint Eastwood nel film. Guardate i cupi segni premonitori all’inizio (la frase di Walter alla madre “Io non ho paura di niente”, o quell’inquadratura che resta su di lui dopo che la madre è uscita e poi parte in una triste panoramica vuota; ma pure la corsa di Angelina Jolie dietro all’autobus che perde ha un che di simbolico e profetico). Stesso discorso per la prima visita del poliziotto onesto Ybarra alla fattoria vuota dell’assassino: dove asce e coltelli sparsi qua e là, pur non essendo fuori luogo qui, creano un clima di suspense e soprattutto anticipano l’orrore che verrà dopo. O come dimenticare il sublime dettaglio della sigaretta che si consuma in cenere per tutta la sua lunghezza, dimenticata fra le dita di Ybarra quando ascolta impietrito la confessione del giovanissimo complice del killer?
Sono dettagli, ma servono a costruire scene impregnate della forte, rigorosa, netta classicità di Eastwood; scene talvolta di un’asciutta potenza che le rende degne di un’ipotetica antologia eastwoodiana - come quella del ragazzo complice suo malgrado, che scava disperatamente nella fossa-carnaio come per punirsi, e poi piange.
E un’ultima considerazione va fatta per la brillante musica, una magnifica “score” anti-effettistica e quasi romanticheggiante. Chi l’ha composta - un certo Clint Eastwood - sapeva quello che faceva.
Più volte in interventi precedenti è capitato a chi scrive di insistere sulla somiglianza tra Clint Eastwood e Howard Hawks - e questa si vede anche nel magnifico “Changeling”. Nota in margine: è indicativo della grandezza di Eastwood che si possa definire con questo aggettivo un film che non tocca la stessa tragica altezza dei suoi ultimi capolavori, “Million Dollar Baby”, “Flags of Our Fathers”, “Lettere da Iwo Jima” - come dire che Clint, quando non fa capolavori assoluti, fa “solo” film magnifici, e bisogna accontentarsi.
“Changeling”, che ha per sottotitolo “Una storia vera”, si svolge nel 1928. A Christine Collins (Angelina Jolie, eccezionale), una madre single, viene rapito il figlio Walter. Dopo qualche mese, per far bella figura con la stampa, la corrotta polizia di Los Angeles restituisce alla madre un ragazzino, accuratamente imbeccato, che assomiglia allo scomparso. Quando Christine insiste che non è lui, la polizia la fa chiudere in manicomio. E’ solo l’impegno del predicatore Bliegreb (John Malkovich) a salvarla; intanto la confessione del complice fa ritrovare i resti dei bambini uccisi da un serial killer (Jason Butler Harner), che ha rapito Walter e forse l’ha ucciso mentre fuggiva. Lo scandalo travolge tutti i colpevoli, ma Walter non verrà ritrovato.
“Regola numero uno: non colpire per primo - ma colpisci per ultimo”, dice Angelina Jolie a suo figlio all’inizio del film: è il concetto eastwoodiano e americano di non arrendersi mai. Christine Collins non è una suffragetta, una Jane Fonda (orrore!) dell’epoca, una “concerned”; è una donna - nella dura condizione di una madre non sposata negli anni ’20 - che non si arrende, proprio come ha insegnato a suo figlio. Fa quello che farebbe nella sua situazione ogni madre (degna di questo nome, intendo, poiché ad esempio contrario c’è la madre dell’impostore, messa alla berlina in una scena fulminea) - solo che lo fa con più coraggio e determinazione di tutte: ecco la serietà diretta e concreta di Hawks. “Changeling” contiene la morale “western” che attraversa tutto il cinema di Eastwood, una morale della responsabilità (per questo l’insulto peggiore che fa alla donna il poliziotto disonesto è di volersi liberare della responsabilità del bambino).
Forse è proprio per questa morale che Eastwood disprezza gli esecutori (la banalità del male!) più ancora dei responsabili primi. Lo mostra negli schizzi del dottore complice (il finto Walter è più basso dell’altro? “La colonna vertebrale può essersi accorciata”), del tronfio psichiatra del manicomio, o dell’infermiera-kapò (due inquadrature in soggettiva del suo viso gelido nelle scene dell’elettroshock sono sufficienti a condannarla per sempre).
Vestito di colori d’epoca nella bellissima fotografia di Tom Stern (un “regular” degli ultimi film eastwoodiani), “Changeling” è un film pervaso d’una cupezza assoluta - dove l’unico momento di gioia per lo spettatore (o almeno, per questo spettatore) sta nel vedere l’impiccagione, narrata con estremo realismo, dell’assassino. Eppure non è un film nichilista; ed è la grande capacità del cinema eastwoodiano, dovuta a quella base morale cui accennavo, di elaborare un pessimismo radicale senza cadere in un nichilismo un po’ compiaciuto all’europea (e massime all’italiana).
Esiste un elemento inquietante nella figura di questo bambino intruso (un “changeling” sarebbe un infante scambiato in culla dagli elfi, che portano via il bambino umano lasciando al suo posto uno dei loro). Un elemento inquietante che si dichiara nel suo ambiguo sorriso ad Angelina Jolie sconvolta nell’auto che li riporta a casa subito dopo la “restituzione”. Bisogna però dire che il film non solo non esplora questo elemento ma, con l’eccezione di una scena assai bella, tende progressivamente a far uscire il bambino dal suo campo emozionale; e questo è certamente un difetto.
Ma quale grande capacità registica e narrativa mostra Clint Eastwood nel film. Guardate i cupi segni premonitori all’inizio (la frase di Walter alla madre “Io non ho paura di niente”, o quell’inquadratura che resta su di lui dopo che la madre è uscita e poi parte in una triste panoramica vuota; ma pure la corsa di Angelina Jolie dietro all’autobus che perde ha un che di simbolico e profetico). Stesso discorso per la prima visita del poliziotto onesto Ybarra alla fattoria vuota dell’assassino: dove asce e coltelli sparsi qua e là, pur non essendo fuori luogo qui, creano un clima di suspense e soprattutto anticipano l’orrore che verrà dopo. O come dimenticare il sublime dettaglio della sigaretta che si consuma in cenere per tutta la sua lunghezza, dimenticata fra le dita di Ybarra quando ascolta impietrito la confessione del giovanissimo complice del killer?
Sono dettagli, ma servono a costruire scene impregnate della forte, rigorosa, netta classicità di Eastwood; scene talvolta di un’asciutta potenza che le rende degne di un’ipotetica antologia eastwoodiana - come quella del ragazzo complice suo malgrado, che scava disperatamente nella fossa-carnaio come per punirsi, e poi piange.
E un’ultima considerazione va fatta per la brillante musica, una magnifica “score” anti-effettistica e quasi romanticheggiante. Chi l’ha composta - un certo Clint Eastwood - sapeva quello che faceva.
venerdì 12 dicembre 2008
Bolt - Un eroe a quattro zampe
Byron Howard e Chris Williams
Il cartone animato americano vive davvero una fase esaltante. Non ha fatto in tempo a sparire dalle nostre sale l’eccezionale “Wall-E” che ci arriva l’ottimo “Bolt – Un eroe a quattro zampe” – quest’ultimo, dalla Disney “in proprio” e non dalla Pixar (ma John Lasseter è produttore esecutivo). Realizzato in 3D, il film è piacevole pure se proiettato “flat” – dove l’origine tridimensionale è resa manifesta solo dal numero di oggetti che vengono puntati o volano verso lo schermo.
Merito numero uno di “Bolt” è l’ intelligente sceneggiatura di Dan Fogelman e Chris Williams (regista assieme a Byron Howard), ottima sia per i dialoghi di questi animali umanizzati sia per l’impostazione generale. “Bolt” è un “Truman Show” canino, incrociato con la riflessione satirica sul cinema “action” del capolavoro di John McTiernan “Last Action Hero” (“L’ultimo grande eroe”).
Il cane Bolt è cresciuto convinto di essere una specie di Superdog dagli incredibili poteri, che usa per aiutare la sua padroncina Penny nella lotta contro il malvagio Dr. Calico. E fra tutti è l’unico a ignorare che tutti i suoi exploit sono trucchi e che la sua vita eroica è un telefilm filmato a sua insaputa (anche Penny si presta all’imbroglio, seppur controvoglia). Accidentalmente Bolt finisce separato da Penny e spedito incosciente sull’altra costa. Convinto che sia stata rapita dal Dr. Calico, deve tornare a Hollywood per salvarla. Fa prigioniera la gatta-gangster Mittens (grande rievocazione della donna “streetwise” del cinema noir, losca e malinconica,che nasconde sotto la scorza di cinismo un cuore d’oro ferito dalla vita), credendola complice del criminale, e la costringe ad accompagnarlo nel viaggio assieme all’entusiastico criceto Rhino. Ma proprio come Schwarzenegger in “Last Action Hero” ben presto Bolt si accorge che la realtà effettiva è ben diversa da quella dell’universo del cinema d’azione. Superbo dialogo dopo un incidente: “Che cos’è questo liquido rosso che mi esce dalla zampa?” – “Si chiama sangue, eroe” – “E… mi serve?”
All’inizio di “Bolt” (e il gioco è ripreso nel finale) crediamo di vedere il film mentre quello che stiamo vedendo è il film-nel-film, il telefilm di Bolt. Ed è, questo dello statuto di verità della visione, il grande “topos” del cinema moderno (mentre la domanda dello spettatore del cinema classico era “Cosa sta succedendo?”, quella dello spettatore del cinema contemporaneo è “Cosa sto vedendo?”). Il rifacimento cartoonistico realizza una perfetta imitazione del (macro)genere “action”, con tutti i suoi stilemi di ritmo, montaggio, inquadrature, spietatezza.
Quando poi nella storia “reale” Bolt, credendosi ancora un supercane, tenta un gran salto e fallisce, il racconto filmico col suo ralenti riprende il linguaggio enfatico dell’“action movie” - parodisticamente, certo, ma anche come proiezione psicologica del modo in cui Bolt lo vive. Ma c’è di più: anche le azioni eroiche di Bolt dopo che ha compreso di non possedere superpoteri (la liberazione di Mittens, il salvataggio di Penny) sono raccontate in termini di pura “action”. Così, “Bolt” assume un valore metacinematografico che appunto lo ricollega - al di là della similarità tematica - al (misconosciuto) capolavoro di John McTiernan prima citato.
Questo cartoon si sviluppa quindi intersecando una quantità di linee tematiche. Il discorso metacinematografico sull’“action” e sulla realtà; la “comedy” sul mondo animale (il rimpallo fra l’ingenuo Bolt e la navigata Mittens è una delizia); il tema della “rinascita” di Bolt (potremmo dire: da Superdog a everydog), passando per la classica punta mélo disneyana; e, “last but not least”, la satira passabilmente puntuta della macchina hollywoodiana, in un film dove tutti gli esseri umani - con la sola esclusione di Penny e della sua non brillantissima madre - fanno davvero una figura da bestie. Niente male per un film che intende in primo luogo divertire e ci riesce brillantemente.
(Il Nuovo FVG)
Il cartone animato americano vive davvero una fase esaltante. Non ha fatto in tempo a sparire dalle nostre sale l’eccezionale “Wall-E” che ci arriva l’ottimo “Bolt – Un eroe a quattro zampe” – quest’ultimo, dalla Disney “in proprio” e non dalla Pixar (ma John Lasseter è produttore esecutivo). Realizzato in 3D, il film è piacevole pure se proiettato “flat” – dove l’origine tridimensionale è resa manifesta solo dal numero di oggetti che vengono puntati o volano verso lo schermo.
Merito numero uno di “Bolt” è l’ intelligente sceneggiatura di Dan Fogelman e Chris Williams (regista assieme a Byron Howard), ottima sia per i dialoghi di questi animali umanizzati sia per l’impostazione generale. “Bolt” è un “Truman Show” canino, incrociato con la riflessione satirica sul cinema “action” del capolavoro di John McTiernan “Last Action Hero” (“L’ultimo grande eroe”).
Il cane Bolt è cresciuto convinto di essere una specie di Superdog dagli incredibili poteri, che usa per aiutare la sua padroncina Penny nella lotta contro il malvagio Dr. Calico. E fra tutti è l’unico a ignorare che tutti i suoi exploit sono trucchi e che la sua vita eroica è un telefilm filmato a sua insaputa (anche Penny si presta all’imbroglio, seppur controvoglia). Accidentalmente Bolt finisce separato da Penny e spedito incosciente sull’altra costa. Convinto che sia stata rapita dal Dr. Calico, deve tornare a Hollywood per salvarla. Fa prigioniera la gatta-gangster Mittens (grande rievocazione della donna “streetwise” del cinema noir, losca e malinconica,che nasconde sotto la scorza di cinismo un cuore d’oro ferito dalla vita), credendola complice del criminale, e la costringe ad accompagnarlo nel viaggio assieme all’entusiastico criceto Rhino. Ma proprio come Schwarzenegger in “Last Action Hero” ben presto Bolt si accorge che la realtà effettiva è ben diversa da quella dell’universo del cinema d’azione. Superbo dialogo dopo un incidente: “Che cos’è questo liquido rosso che mi esce dalla zampa?” – “Si chiama sangue, eroe” – “E… mi serve?”
All’inizio di “Bolt” (e il gioco è ripreso nel finale) crediamo di vedere il film mentre quello che stiamo vedendo è il film-nel-film, il telefilm di Bolt. Ed è, questo dello statuto di verità della visione, il grande “topos” del cinema moderno (mentre la domanda dello spettatore del cinema classico era “Cosa sta succedendo?”, quella dello spettatore del cinema contemporaneo è “Cosa sto vedendo?”). Il rifacimento cartoonistico realizza una perfetta imitazione del (macro)genere “action”, con tutti i suoi stilemi di ritmo, montaggio, inquadrature, spietatezza.
Quando poi nella storia “reale” Bolt, credendosi ancora un supercane, tenta un gran salto e fallisce, il racconto filmico col suo ralenti riprende il linguaggio enfatico dell’“action movie” - parodisticamente, certo, ma anche come proiezione psicologica del modo in cui Bolt lo vive. Ma c’è di più: anche le azioni eroiche di Bolt dopo che ha compreso di non possedere superpoteri (la liberazione di Mittens, il salvataggio di Penny) sono raccontate in termini di pura “action”. Così, “Bolt” assume un valore metacinematografico che appunto lo ricollega - al di là della similarità tematica - al (misconosciuto) capolavoro di John McTiernan prima citato.
Questo cartoon si sviluppa quindi intersecando una quantità di linee tematiche. Il discorso metacinematografico sull’“action” e sulla realtà; la “comedy” sul mondo animale (il rimpallo fra l’ingenuo Bolt e la navigata Mittens è una delizia); il tema della “rinascita” di Bolt (potremmo dire: da Superdog a everydog), passando per la classica punta mélo disneyana; e, “last but not least”, la satira passabilmente puntuta della macchina hollywoodiana, in un film dove tutti gli esseri umani - con la sola esclusione di Penny e della sua non brillantissima madre - fanno davvero una figura da bestie. Niente male per un film che intende in primo luogo divertire e ci riesce brillantemente.
(Il Nuovo FVG)
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venerdì 5 dicembre 2008
La Quinta del Sordo. Le pitture nere di Antonella Peresson
Udine, Danza y Vida, novembre 2008
Può sembrare bizzarra un’esposizione di questo genere cupo per una pittrice come Antonella Peresson, per la quale i primi aggettivi che ci vengono in mente sono: sensuale e solare.
E quando dico sensuale e solare, non intendo riferirmi semplicemente al soggetto di tanti suoi dipinti: la bellezza carnale e l’esuberanza vorrei dire rubensiana dei suoi nudi, l’inondazione di una luce calda e meridionale sui suoi villaggi di pescatori. No, mi riferisco alla spessa materialità del tratto, che si concretizza nella consistenza pastosa e, appunto, sensuale della pennellata. La sua pittura è naturalmente materica. Ed è un prolungamento di questa concretezza tangibile l’inserimento nel quadro di elementi di tecniche miste: dapprima carta e foto, ma poi anche altri materiali come le componenti di computer ricontestualizzate come parti dell’opera nella bellissima serie di pannelli che abbiamo visto nella precedente mostra, intitolata “Memorie”.
Nei dipinti di questa mostra la ricchezza della materia, quella natura lavica del tratto che credo sia un forte titolo di credito dell’autrice, viene piegata e incanalata nella cupezza del tema. Dico incanalata perché persiste: questi cuori rovesciati, questi macabri festoni di vasi sanguigni ancora fiammeggiano di una loro barbarica ricchezza.
Non è sbagliato dire che queste pitture riunite sotto l’ironico titolo “Cuore di mamma” sono la Quinta del Sordo di Antonella Peresson. (Mi riferisco naturalmente alla casa oltre il Manzanarre dove si ritirò Goya affrescandola con le sue pitture più nere). Questo è il luogo dove l’autrice dà sfogo artistico alla sua riflessione più cupa e terrifica. Se questo Inferno ha bisogno di un Virgilio, una buona guida, un buon punto di partenza può esserci fornito da un dipinto che cronologicamente è tra i primi lavori della serie, “…cosa voglio…” (tutti i quadri sono contraddistinti da un verso tratto dal lavoro letterario di Daniela Secchettin che si compenetra alla mostra dialogando con le opere). In passato Antonella Peresson ha realizzato una serie di nudi in cui il corpo della donna si fonde con i quattro elementi, terra aria fuoco acqua: cioè si unifica col tessuto vivo della natura dissolvendo la propria singolarità umana nel suo fluire, in una sorta di unità panica. Ebbene, tecnicamente, come tratto e realizzazione, la presente pittura appartiene alla stessa serie. Ma qui, quella creatura mostruosa, quel feto che occhieggia attraverso uno sguardo radiografico impossibile che viola il ventre – e guardate il gesto di vergogna e disperazione, di ispirazione classica (Masaccio), della madre – rappresenta l’altra faccia di quell’estasi panica: un’immissione del male nella natura. Che non è cospirazione e violazione ma è un elemento diabolico e perverso celato nella natura fin dall’inizio della creazione – proprio come vediamo in Hieronymus Bosch.
A un livello più individuale, di ponte fra la realtà fisica e l’inconscio, in queste opere si palesa il coraggio dell’autrice di mostrare l’elemento di orrore implicito e costantemente negato nella gravidanza: la sensazione di una creatura aliena che cresce dentro il tuo corpo e si nutre del tuo sangue, nonché il senso di aggressività della madre verso il nato: una sensazione che è il non dicibile di una società tanto pronta a celebrare a parole la natalità e l’infanzia quanto pigra a proteggerle nei fatti.
Poiché – nella fondamentale duplicità di tutte le emozioni umane – accanto alla madre felice, la madre placida, la madre nutritrice, la madre eroica, la madre feconda, la Madonna con Bambino, esiste questo grumo di impulsi negativi, esiste questa ripulsa; non per nulla il cuore rovesciato è un elemento ricorrente nella presente raccolta di opere. Nella propria solitudine, la madre sperimenta (e nega a se stessa) la percezione dell’altro come intruso; la propria spinta a dare la vita si rovescia nella tentazione a dare la morte. Quando questa sensazione emerge post partum la etichettiamo come “depressione”.
E dunque questa serie di dipinti mette a nudo l’altra faccia – la faccia oscura – della maternità.
In “…dove è rimasta la parola…” un infante è nato come un verme da una madre che volge verso lo spettatore un viso a metà strada fra un mostro e una civetta, in un urlo che non possiede la parola; il suo corpo si identifica coi geroglifici dello sfondo che le disegnano i capezzoli. In “…le stesse mani…” un mostro monolitico (nella cui testa-feto l’occhio del neonato si identifica col suo) grida con una bocca innaturale mentre soffoca un’orrida creatura dall’inconfondibile somiglianza: di sopra genera, di sotto uccide, impossibile catena di montaggio tra nascita e distruzione. “…quante prigionie di quante mani...” potrebbe essere una maternità placida, dove la nudità è simbolo di purezza: i seni appesantiti dal latte pendono verso il bambino come una promessa di nutrimento; ma le mani sono costrette e legate dall’intrico di vasi sanguigni di un cuore rovesciato: vuoto, incapacità, dolore, frustrazione.
Questo rovesciamento osceno, tanto fisico quanto simbolico, ritorna di continuo: l’esplosione in “…niente di mio…” di vasi sanguigni che erompe come fuoco nella tenerezza dell’allattamento, ed esplode trionfante nella parte alta del quadro riempiendosi di punte di chiodi torturatrici; l’utero rovesciato in “…è nido su ramo flessibile di albero…”, dove la forma generatrice è la spirale, un viluppo che sale fino a generare una colomba che prende il volo sulle chiome scure di un albero, sullo sfondo di un cielo sanguigno; la descrizione della sterilità e della perdita in “…tra me e il mio corpo…”, dove nella parte mediana del corpo della donna, il luogo della fecondità, si apre uno squarcio – e i colori cinerini, funerei, rinforzano questo senso di negazione, come lo sguardo della donna di profilo, che si perde in un fuori campo infinito.
Per arrivare al dipinto più demoniaco, “…non lo conosce nessuno!”. L’Inquisizione, che costrinse il Veronese a cambiare titolo alla sua grande tela da “L’ultima cena” a “Convito in casa di Levi”, avrebbe bruciato il quadro (e forse anche l’autrice). A vederlo, ritornano in mente i versi di Yeats: “E quale animale informe, giunto alfine il suo tempo, striscia verso Betlemme per nascervi?” – per nascervi, o per morirvi? o per restare sospeso in una specie di agonia immortale?
Vediamo una Madonna di un’altra dimensione, con occhi vuoti impenetrabili e una traccia diabolica sul viso dove occhieggia l’ombra del Capro, così ciecamente sicura della sua perfezione da soffocare il Bambino, nel rovesciamento del gesto d’amore (ma il Bambino stesso raggiunge una consapevolezza nel suo stato eternamente morente). Ecco di nuovo il potere materno tanto di nutrire quanto di dare la morte. Ed ecco che in questo dipinto si riflette il gesto della figura mostruosa di “…le stesse mani…” – anch’essa forse una Dea primeva – che abbiamo visto prima. E che sia un dipinto demoniaco lo dicono anche i visi beffardi, di bambini crudeli, degli angioletti.
Uno di questi dipinti, “…c’erano tutti ma chiamava lo stesso…”, mostra dei visi malvagi che ci scrutano e sogghignano – perché sanno qualcosa che noi non sappiamo. Ebbene, anche noi ora sappiamo qualcosa che non sapevamo – o cui non osavamo pensare.
Può sembrare bizzarra un’esposizione di questo genere cupo per una pittrice come Antonella Peresson, per la quale i primi aggettivi che ci vengono in mente sono: sensuale e solare.
E quando dico sensuale e solare, non intendo riferirmi semplicemente al soggetto di tanti suoi dipinti: la bellezza carnale e l’esuberanza vorrei dire rubensiana dei suoi nudi, l’inondazione di una luce calda e meridionale sui suoi villaggi di pescatori. No, mi riferisco alla spessa materialità del tratto, che si concretizza nella consistenza pastosa e, appunto, sensuale della pennellata. La sua pittura è naturalmente materica. Ed è un prolungamento di questa concretezza tangibile l’inserimento nel quadro di elementi di tecniche miste: dapprima carta e foto, ma poi anche altri materiali come le componenti di computer ricontestualizzate come parti dell’opera nella bellissima serie di pannelli che abbiamo visto nella precedente mostra, intitolata “Memorie”.
Nei dipinti di questa mostra la ricchezza della materia, quella natura lavica del tratto che credo sia un forte titolo di credito dell’autrice, viene piegata e incanalata nella cupezza del tema. Dico incanalata perché persiste: questi cuori rovesciati, questi macabri festoni di vasi sanguigni ancora fiammeggiano di una loro barbarica ricchezza.
Non è sbagliato dire che queste pitture riunite sotto l’ironico titolo “Cuore di mamma” sono la Quinta del Sordo di Antonella Peresson. (Mi riferisco naturalmente alla casa oltre il Manzanarre dove si ritirò Goya affrescandola con le sue pitture più nere). Questo è il luogo dove l’autrice dà sfogo artistico alla sua riflessione più cupa e terrifica. Se questo Inferno ha bisogno di un Virgilio, una buona guida, un buon punto di partenza può esserci fornito da un dipinto che cronologicamente è tra i primi lavori della serie, “…cosa voglio…” (tutti i quadri sono contraddistinti da un verso tratto dal lavoro letterario di Daniela Secchettin che si compenetra alla mostra dialogando con le opere). In passato Antonella Peresson ha realizzato una serie di nudi in cui il corpo della donna si fonde con i quattro elementi, terra aria fuoco acqua: cioè si unifica col tessuto vivo della natura dissolvendo la propria singolarità umana nel suo fluire, in una sorta di unità panica. Ebbene, tecnicamente, come tratto e realizzazione, la presente pittura appartiene alla stessa serie. Ma qui, quella creatura mostruosa, quel feto che occhieggia attraverso uno sguardo radiografico impossibile che viola il ventre – e guardate il gesto di vergogna e disperazione, di ispirazione classica (Masaccio), della madre – rappresenta l’altra faccia di quell’estasi panica: un’immissione del male nella natura. Che non è cospirazione e violazione ma è un elemento diabolico e perverso celato nella natura fin dall’inizio della creazione – proprio come vediamo in Hieronymus Bosch.
A un livello più individuale, di ponte fra la realtà fisica e l’inconscio, in queste opere si palesa il coraggio dell’autrice di mostrare l’elemento di orrore implicito e costantemente negato nella gravidanza: la sensazione di una creatura aliena che cresce dentro il tuo corpo e si nutre del tuo sangue, nonché il senso di aggressività della madre verso il nato: una sensazione che è il non dicibile di una società tanto pronta a celebrare a parole la natalità e l’infanzia quanto pigra a proteggerle nei fatti.
Poiché – nella fondamentale duplicità di tutte le emozioni umane – accanto alla madre felice, la madre placida, la madre nutritrice, la madre eroica, la madre feconda, la Madonna con Bambino, esiste questo grumo di impulsi negativi, esiste questa ripulsa; non per nulla il cuore rovesciato è un elemento ricorrente nella presente raccolta di opere. Nella propria solitudine, la madre sperimenta (e nega a se stessa) la percezione dell’altro come intruso; la propria spinta a dare la vita si rovescia nella tentazione a dare la morte. Quando questa sensazione emerge post partum la etichettiamo come “depressione”.
E dunque questa serie di dipinti mette a nudo l’altra faccia – la faccia oscura – della maternità.
In “…dove è rimasta la parola…” un infante è nato come un verme da una madre che volge verso lo spettatore un viso a metà strada fra un mostro e una civetta, in un urlo che non possiede la parola; il suo corpo si identifica coi geroglifici dello sfondo che le disegnano i capezzoli. In “…le stesse mani…” un mostro monolitico (nella cui testa-feto l’occhio del neonato si identifica col suo) grida con una bocca innaturale mentre soffoca un’orrida creatura dall’inconfondibile somiglianza: di sopra genera, di sotto uccide, impossibile catena di montaggio tra nascita e distruzione. “…quante prigionie di quante mani...” potrebbe essere una maternità placida, dove la nudità è simbolo di purezza: i seni appesantiti dal latte pendono verso il bambino come una promessa di nutrimento; ma le mani sono costrette e legate dall’intrico di vasi sanguigni di un cuore rovesciato: vuoto, incapacità, dolore, frustrazione.
Questo rovesciamento osceno, tanto fisico quanto simbolico, ritorna di continuo: l’esplosione in “…niente di mio…” di vasi sanguigni che erompe come fuoco nella tenerezza dell’allattamento, ed esplode trionfante nella parte alta del quadro riempiendosi di punte di chiodi torturatrici; l’utero rovesciato in “…è nido su ramo flessibile di albero…”, dove la forma generatrice è la spirale, un viluppo che sale fino a generare una colomba che prende il volo sulle chiome scure di un albero, sullo sfondo di un cielo sanguigno; la descrizione della sterilità e della perdita in “…tra me e il mio corpo…”, dove nella parte mediana del corpo della donna, il luogo della fecondità, si apre uno squarcio – e i colori cinerini, funerei, rinforzano questo senso di negazione, come lo sguardo della donna di profilo, che si perde in un fuori campo infinito.
Per arrivare al dipinto più demoniaco, “…non lo conosce nessuno!”. L’Inquisizione, che costrinse il Veronese a cambiare titolo alla sua grande tela da “L’ultima cena” a “Convito in casa di Levi”, avrebbe bruciato il quadro (e forse anche l’autrice). A vederlo, ritornano in mente i versi di Yeats: “E quale animale informe, giunto alfine il suo tempo, striscia verso Betlemme per nascervi?” – per nascervi, o per morirvi? o per restare sospeso in una specie di agonia immortale?
Vediamo una Madonna di un’altra dimensione, con occhi vuoti impenetrabili e una traccia diabolica sul viso dove occhieggia l’ombra del Capro, così ciecamente sicura della sua perfezione da soffocare il Bambino, nel rovesciamento del gesto d’amore (ma il Bambino stesso raggiunge una consapevolezza nel suo stato eternamente morente). Ecco di nuovo il potere materno tanto di nutrire quanto di dare la morte. Ed ecco che in questo dipinto si riflette il gesto della figura mostruosa di “…le stesse mani…” – anch’essa forse una Dea primeva – che abbiamo visto prima. E che sia un dipinto demoniaco lo dicono anche i visi beffardi, di bambini crudeli, degli angioletti.
Uno di questi dipinti, “…c’erano tutti ma chiamava lo stesso…”, mostra dei visi malvagi che ci scrutano e sogghignano – perché sanno qualcosa che noi non sappiamo. Ebbene, anche noi ora sappiamo qualcosa che non sapevamo – o cui non osavamo pensare.
Rumore bianco
Alberto Fasulo
“Rumore bianco”, presentato in anteprima nazionale al Visionario di Udine e ora in sala, è un documentario poetico di Alberto Fasulo sul fiume Tagliamento, che attraversa il Friuli. Introdotto da una didascalia sull’acqua che conserva la memoria di chi incontra, “Rumore bianco” si apre su un'interminabile panoramica, che nel suo sguardo esplorante inquadra e cattura il vasto greto di ghiaia del Tagliamento, si sposta lenta verso destra seguendo le linee dell'acqua fra i sassi, incontra un cartello, lo supera, continua oltre, riaggancia così col suo sguardo quel letto bianco di ghiaia che sembra infinito, e continua fino a quando l'inquadratura “tocca” una spalla umana - i giovani scienziati che studiano il fiume.
C'è un'analogia precisa fra questo movimento di macchina in apertura e l'andamento dell'intero film: che anch'esso è uno sguardo panoramico e complessivo sul Tagliamento come realtà non solo geografica ma storica, mitica, si può ben dire esistenziale, seguendolo dalla fonte al mare, dal presente al passato, dal mondo contadino alla modernità (caso limite, la demolizione di una serie di villette di origine truffaldina da parte di una gru con una benna straordinariamente simile a un dinosauro). Il Tagliamento come spina dorsale del Friuli, per cui tutto quello che del fiume è detto (mostrato, alluso, evocato) facilmente si trasferisce alla regione nella sua interezza. Il fiume, dunque, come un vasto nastro vivente, connettore dell'esperienza umana: di chi ci vive e ci lavora, chi sogna, pensa, ricorda, gioca, riesce, fallisce, soffre, combatte; da tutte queste vite e questi volti, che il film, alla Piavoli, riunisce in un vasto affresco poetico, emerge un quadro di vivissima, ma dolorosa (perché umana, consegnata al tempo e al dolore) vitalità.
A fare da filo conduttore c'è soltanto l'acqua, col suo ciclo, con la pioggia, e con le sue piene, che innestano il ricordo di altre piene, disastrose, del passato. Giustamente il film lavora, nella scansione abilmente montata delle scene, per contatto poetico; c'è una logica ma non è esplicativa o, peggio, narrativa. Questo film è un viaggio fluido - perché fluido è l'elemento dell'acqua, su cui il film galleggia - e naturalmente erratico, che torna su se stesso, si perde e si ritrova, seguendo collo sguardo lo spettacolo della natura (le piante, la strettoia delle montagne, i cieli grigi friulani, il volo degli uccelli); ma soprattutto possiede un elemento centrale che è il concetto di lavoro, nel senso del fare (faber). Tutti i lavori, da quelli atemporali della vecchia contadina stanca che vediamo all'inizio a quelli degli scienziati svizzeri che studiano il fiume coi loro “rituali” misteriosi (il finale), a quelli dei lavoratori della centrale, dei bonificatori di bombe, dei militari eccetera, che siano esplorati in lunghe riprese o che siano concentrati in una manciata di secondi, e senza essere tutti egualmente comprensibili all'osservatore, tutti questi lavori hanno nel film una solennità scandita nella muta sicurezza del gesto.
Sono lavori che illustrano allo stesso tempo l'asse sincronico e quello diacronico della realtà esistenziale del fiume: perché i gesti della vecchia contadina che spiuma una gallina coll'acqua bollente, pota un albero, rovescia una massa di verzura col forcone, o della donna con la gerla che raccoglie legna sul greto, sono gesti antichi e immutabili; e in questa dimensione entrano i ricordi (la polenta), si mischiano l’oggi (la divertente ordinazione in friulano della spesa al telefono: “...e un Philadelphia”) e i riti antichi delle preghiere per i morti. È forte, specie nella prima parte del film, il senso dell'invecchiamento e della morte (in opposizione netta al calore luminoso di un giorno d'estate dei giochi acquatici di un gruppo di ragazzi nella bassa pianura, alla fine del viaggio) - e non possiamo non connetterlo a un mondo contadino e montanaro destinato a sparire, ovvero a rimanere come pura sopravvivenza.
La bellissima scena del dialogo delle due anziane sulla morte (“Mah! Così è finita la menata, qua”) è intervallata con inquadrature di guerra. Ma nel film il passato è sempre interiorizzato: il materiale storico di repertorio in b/n è sempre legato a un personaggio, sì che la sua entrata ha qualcosa di soggettivo: documento storico, attiene tuttavia alla memoria (o alla memoria-incubo). Anche nel caso del materiale collegato per pura analogia - il volo dell'elicottero militare d'oggi e il volo dell'aereo della seconda guerra mondiale, da cui il filmato dei bombardamenti - l'entrata del filmato è pur sempre innestata da una sensazione. Antico e moderno non sono messi in opposizione ma si fondono continuamente nella dimensione complessiva, insieme unitaria e continuamente mutevole, del film. Per esempio nella pagina del pignarûl, col rogo della “vecchia”: vediamo fabbricare giocosamente il fantoccio, ma il film vi dà (vi riscopre) lontane risonanze arcaiche con quell'uso del buio profondo e quella strana, insistita sparatoria contro il rogo – e c’è uno stacco che ci porta immediatamente alla morte, col teschio del capriolo ucciso dai bracconieri.
Ma a rendere possibile questo riflesso storico e mitico (questa dimensione atemporale sottesa a un film che pure è attento ai volti e ai segni del presente, alle macchine e agli strumenti, e non si perde mai nella leziosità della “rievocazione”) è quell'immediatezza di sguardo che gli dà forma, quel modo diretto di guardare le cose, che è l'anima stessa del film e la sua giustificazione.
(Cinemazero)
“Rumore bianco”, presentato in anteprima nazionale al Visionario di Udine e ora in sala, è un documentario poetico di Alberto Fasulo sul fiume Tagliamento, che attraversa il Friuli. Introdotto da una didascalia sull’acqua che conserva la memoria di chi incontra, “Rumore bianco” si apre su un'interminabile panoramica, che nel suo sguardo esplorante inquadra e cattura il vasto greto di ghiaia del Tagliamento, si sposta lenta verso destra seguendo le linee dell'acqua fra i sassi, incontra un cartello, lo supera, continua oltre, riaggancia così col suo sguardo quel letto bianco di ghiaia che sembra infinito, e continua fino a quando l'inquadratura “tocca” una spalla umana - i giovani scienziati che studiano il fiume.
C'è un'analogia precisa fra questo movimento di macchina in apertura e l'andamento dell'intero film: che anch'esso è uno sguardo panoramico e complessivo sul Tagliamento come realtà non solo geografica ma storica, mitica, si può ben dire esistenziale, seguendolo dalla fonte al mare, dal presente al passato, dal mondo contadino alla modernità (caso limite, la demolizione di una serie di villette di origine truffaldina da parte di una gru con una benna straordinariamente simile a un dinosauro). Il Tagliamento come spina dorsale del Friuli, per cui tutto quello che del fiume è detto (mostrato, alluso, evocato) facilmente si trasferisce alla regione nella sua interezza. Il fiume, dunque, come un vasto nastro vivente, connettore dell'esperienza umana: di chi ci vive e ci lavora, chi sogna, pensa, ricorda, gioca, riesce, fallisce, soffre, combatte; da tutte queste vite e questi volti, che il film, alla Piavoli, riunisce in un vasto affresco poetico, emerge un quadro di vivissima, ma dolorosa (perché umana, consegnata al tempo e al dolore) vitalità.
A fare da filo conduttore c'è soltanto l'acqua, col suo ciclo, con la pioggia, e con le sue piene, che innestano il ricordo di altre piene, disastrose, del passato. Giustamente il film lavora, nella scansione abilmente montata delle scene, per contatto poetico; c'è una logica ma non è esplicativa o, peggio, narrativa. Questo film è un viaggio fluido - perché fluido è l'elemento dell'acqua, su cui il film galleggia - e naturalmente erratico, che torna su se stesso, si perde e si ritrova, seguendo collo sguardo lo spettacolo della natura (le piante, la strettoia delle montagne, i cieli grigi friulani, il volo degli uccelli); ma soprattutto possiede un elemento centrale che è il concetto di lavoro, nel senso del fare (faber). Tutti i lavori, da quelli atemporali della vecchia contadina stanca che vediamo all'inizio a quelli degli scienziati svizzeri che studiano il fiume coi loro “rituali” misteriosi (il finale), a quelli dei lavoratori della centrale, dei bonificatori di bombe, dei militari eccetera, che siano esplorati in lunghe riprese o che siano concentrati in una manciata di secondi, e senza essere tutti egualmente comprensibili all'osservatore, tutti questi lavori hanno nel film una solennità scandita nella muta sicurezza del gesto.
Sono lavori che illustrano allo stesso tempo l'asse sincronico e quello diacronico della realtà esistenziale del fiume: perché i gesti della vecchia contadina che spiuma una gallina coll'acqua bollente, pota un albero, rovescia una massa di verzura col forcone, o della donna con la gerla che raccoglie legna sul greto, sono gesti antichi e immutabili; e in questa dimensione entrano i ricordi (la polenta), si mischiano l’oggi (la divertente ordinazione in friulano della spesa al telefono: “...e un Philadelphia”) e i riti antichi delle preghiere per i morti. È forte, specie nella prima parte del film, il senso dell'invecchiamento e della morte (in opposizione netta al calore luminoso di un giorno d'estate dei giochi acquatici di un gruppo di ragazzi nella bassa pianura, alla fine del viaggio) - e non possiamo non connetterlo a un mondo contadino e montanaro destinato a sparire, ovvero a rimanere come pura sopravvivenza.
La bellissima scena del dialogo delle due anziane sulla morte (“Mah! Così è finita la menata, qua”) è intervallata con inquadrature di guerra. Ma nel film il passato è sempre interiorizzato: il materiale storico di repertorio in b/n è sempre legato a un personaggio, sì che la sua entrata ha qualcosa di soggettivo: documento storico, attiene tuttavia alla memoria (o alla memoria-incubo). Anche nel caso del materiale collegato per pura analogia - il volo dell'elicottero militare d'oggi e il volo dell'aereo della seconda guerra mondiale, da cui il filmato dei bombardamenti - l'entrata del filmato è pur sempre innestata da una sensazione. Antico e moderno non sono messi in opposizione ma si fondono continuamente nella dimensione complessiva, insieme unitaria e continuamente mutevole, del film. Per esempio nella pagina del pignarûl, col rogo della “vecchia”: vediamo fabbricare giocosamente il fantoccio, ma il film vi dà (vi riscopre) lontane risonanze arcaiche con quell'uso del buio profondo e quella strana, insistita sparatoria contro il rogo – e c’è uno stacco che ci porta immediatamente alla morte, col teschio del capriolo ucciso dai bracconieri.
Ma a rendere possibile questo riflesso storico e mitico (questa dimensione atemporale sottesa a un film che pure è attento ai volti e ai segni del presente, alle macchine e agli strumenti, e non si perde mai nella leziosità della “rievocazione”) è quell'immediatezza di sguardo che gli dà forma, quel modo diretto di guardare le cose, che è l'anima stessa del film e la sua giustificazione.
(Cinemazero)
I mondi di Scarabottolo
Udine, Visionario, estate 2005
Disposte in geometrico ordinamento, 4 file di 29 “tasselli” ciascuna (alcuni doppi), pochi altri alle altre pareti, fanno un singolare effetto le illustrazioni di Guido Scarabottolo esposte nell’abside del Visionario - il Centro Arti Visive di via Asquini - nella sua mostra a cura di Giovanna Durì, divisa fra la sala esposizioni e l’abside. Sono come mattonelle, col loro fondo dal colore smaltato, ma in realtà ognuna di esse è un buco che dà su un altro mondo: una collezione di finestre sul cortile per un James Stewart impazzito. Un orso rosso legge il “Berliner Express” seduto su un orso giallo; uno scheletro amletico medita sopra una testa umana; un angelo e un diavolo in borghese, wendersiani, si incrociano per strada; un dinosauro legge un libro sul Titanic; un uomo cerca di entrare in un film esotico proiettandoselo addosso.
Questo geniale grafico e illustratore lavora al computer. I suoi disegni non esistono: sono stampe digitali. Scarabottolo (scrive benissimo Thomas Bertacche nel mini-catalogo “La sindrome di bau”) usa il computer come una macchina da scrivere grafica; il computer sostituisce la tecnica del collage e gli permette di scombinare, rimontare, replicare a volontà il suo catalogo iconografico. Lo stesso lieve fumo di nuvole sopra lo stesso profilo di montagne lontane può ritornare all’infinito.
Scarabottolo lavora attraverso la semplificazione e la sintesi, inserendo le sue ironiche distaccate composizioni in spazi di colore immobili. Condizione del suo (relativo) minimalismo, Scarabottolo è maestro nell’uso dello spazio. Nei suoi campi statici riposano vuoti e pieni armoniosamente bilanciati. I suoi fondi sono solitamente monocromatici, lisci, distesi, fatti apposta per “poggiarci” una figura. Il colore in Scarabottolo ha qualcosa di tranquillo e di meccanico, adatto al computer. Lo sfondo può aprirsi in porte e finestre - ma non si corruga.
E’ forte, dichiarato, l’influsso di Saul Steinberg. Almeno una illustrazione ricorda un Folon divenuto finalmente perverso. Un disegno rende omaggio a Copi. Altri influssi si possono solo indovinare (Dino Buzzati pittore). L’immaginario di Scarabottolo, che utilizza anche vecchie stampine e xilografie, ingloba e riscrive. Ecco rispuntare una sirena alata, antica figura decorativa di grottesche. Un quadretto macabro (corpi umani pigiati nella botte che danno un rosso sangue/vino) riprende ingenue xilografie stregonesche. Rivediamo il celebre capezzolo pizzicato d’un dipinto della Scuola di Fontainebleu. Un bel nudo di schiena arriva da Ingres passando per Man Ray tramite la pop art.
C’è un’ombra di solipsismo nei disegni di Scarabottolo, una solitudine, una tendenza a isolarsi, specie legata alla lettura. Mentre in secondo piano si spoglia una donna, dal corpo di carta stampata (è la voce “Book” del dizionario), il personaggio in primo piano legge un libro. Il pittore e la modella si danno le spalle, persi ciascuno in sé. Anche i due orsi (disegnati, dice l’autore, per illustrare un racconto di russi a Berlino) sono l’uno assente all’altro; l’uno lettore, l’altro sedile; gli sguardi vanno in direzioni opposte.
La caratteristica dei disegni di Scarabottolo è la risonanza. La loro semplicità e insieme la loro densità li rende piccoli imbuti dell’esistenza. Di raro Scarabottolo è autoanalitico; il suo intimismo dipinge il percorso psicologico nei suoi bizzarri accostamenti, fotografa lo hic et nunc di una sensazione profonda, senza volerlo sezionare: “Non è necessario spiegare tutto e neanche spiegarselo”. Preferisce creare immagini che “occupano uno spazio con discrezione, si offrono con grande generosità” (Giovanna Durì): poi ognuno vi troverà il modo di declinare le proprie suggestioni. Il dono di questi disegni altamente evocativi è l’apertura.
Nella loro staticità sono istantanee che congelano un attimo, ma non annullano il tempo in sé. Così queste immagini eccitano la tendenza all’affabulazione - come un mazzo di tarocchi dello spirito. Allora non fa meraviglia che i disegni di Scarabottolo siano diventati la base di varie graphic novels realizzate con Giovanna Zoboli, che scegliendoli dal mazzo li ha ordinati creando uno svolgimento; da citare la splendida “Love”, I Libri a Naso, 2004. Ancora più ambizioso “Una vita (Romanzo Metafisico)”, Guanda, 2005 - però col limite che il testo è graficamente invasivo nei confronti dell’immagine. Certamente non è una novità nel gusto postmoderno della combinazione (nei “Cahiers du cinéma” 600 ve n’è un esempio fotografico bellissimo, grazie a Takeshi Kitano e altri) - però le immagini di Scarabottolo sembrano prestarvisi in modo particolarmente felice, vuoi sulla carta stampata, vuoi nel cervello di chi guarda.
In questo senso sono epifaniche.
(Il Nuovo FVG)
Disposte in geometrico ordinamento, 4 file di 29 “tasselli” ciascuna (alcuni doppi), pochi altri alle altre pareti, fanno un singolare effetto le illustrazioni di Guido Scarabottolo esposte nell’abside del Visionario - il Centro Arti Visive di via Asquini - nella sua mostra a cura di Giovanna Durì, divisa fra la sala esposizioni e l’abside. Sono come mattonelle, col loro fondo dal colore smaltato, ma in realtà ognuna di esse è un buco che dà su un altro mondo: una collezione di finestre sul cortile per un James Stewart impazzito. Un orso rosso legge il “Berliner Express” seduto su un orso giallo; uno scheletro amletico medita sopra una testa umana; un angelo e un diavolo in borghese, wendersiani, si incrociano per strada; un dinosauro legge un libro sul Titanic; un uomo cerca di entrare in un film esotico proiettandoselo addosso.
Questo geniale grafico e illustratore lavora al computer. I suoi disegni non esistono: sono stampe digitali. Scarabottolo (scrive benissimo Thomas Bertacche nel mini-catalogo “La sindrome di bau”) usa il computer come una macchina da scrivere grafica; il computer sostituisce la tecnica del collage e gli permette di scombinare, rimontare, replicare a volontà il suo catalogo iconografico. Lo stesso lieve fumo di nuvole sopra lo stesso profilo di montagne lontane può ritornare all’infinito.
Scarabottolo lavora attraverso la semplificazione e la sintesi, inserendo le sue ironiche distaccate composizioni in spazi di colore immobili. Condizione del suo (relativo) minimalismo, Scarabottolo è maestro nell’uso dello spazio. Nei suoi campi statici riposano vuoti e pieni armoniosamente bilanciati. I suoi fondi sono solitamente monocromatici, lisci, distesi, fatti apposta per “poggiarci” una figura. Il colore in Scarabottolo ha qualcosa di tranquillo e di meccanico, adatto al computer. Lo sfondo può aprirsi in porte e finestre - ma non si corruga.
E’ forte, dichiarato, l’influsso di Saul Steinberg. Almeno una illustrazione ricorda un Folon divenuto finalmente perverso. Un disegno rende omaggio a Copi. Altri influssi si possono solo indovinare (Dino Buzzati pittore). L’immaginario di Scarabottolo, che utilizza anche vecchie stampine e xilografie, ingloba e riscrive. Ecco rispuntare una sirena alata, antica figura decorativa di grottesche. Un quadretto macabro (corpi umani pigiati nella botte che danno un rosso sangue/vino) riprende ingenue xilografie stregonesche. Rivediamo il celebre capezzolo pizzicato d’un dipinto della Scuola di Fontainebleu. Un bel nudo di schiena arriva da Ingres passando per Man Ray tramite la pop art.
C’è un’ombra di solipsismo nei disegni di Scarabottolo, una solitudine, una tendenza a isolarsi, specie legata alla lettura. Mentre in secondo piano si spoglia una donna, dal corpo di carta stampata (è la voce “Book” del dizionario), il personaggio in primo piano legge un libro. Il pittore e la modella si danno le spalle, persi ciascuno in sé. Anche i due orsi (disegnati, dice l’autore, per illustrare un racconto di russi a Berlino) sono l’uno assente all’altro; l’uno lettore, l’altro sedile; gli sguardi vanno in direzioni opposte.
La caratteristica dei disegni di Scarabottolo è la risonanza. La loro semplicità e insieme la loro densità li rende piccoli imbuti dell’esistenza. Di raro Scarabottolo è autoanalitico; il suo intimismo dipinge il percorso psicologico nei suoi bizzarri accostamenti, fotografa lo hic et nunc di una sensazione profonda, senza volerlo sezionare: “Non è necessario spiegare tutto e neanche spiegarselo”. Preferisce creare immagini che “occupano uno spazio con discrezione, si offrono con grande generosità” (Giovanna Durì): poi ognuno vi troverà il modo di declinare le proprie suggestioni. Il dono di questi disegni altamente evocativi è l’apertura.
Nella loro staticità sono istantanee che congelano un attimo, ma non annullano il tempo in sé. Così queste immagini eccitano la tendenza all’affabulazione - come un mazzo di tarocchi dello spirito. Allora non fa meraviglia che i disegni di Scarabottolo siano diventati la base di varie graphic novels realizzate con Giovanna Zoboli, che scegliendoli dal mazzo li ha ordinati creando uno svolgimento; da citare la splendida “Love”, I Libri a Naso, 2004. Ancora più ambizioso “Una vita (Romanzo Metafisico)”, Guanda, 2005 - però col limite che il testo è graficamente invasivo nei confronti dell’immagine. Certamente non è una novità nel gusto postmoderno della combinazione (nei “Cahiers du cinéma” 600 ve n’è un esempio fotografico bellissimo, grazie a Takeshi Kitano e altri) - però le immagini di Scarabottolo sembrano prestarvisi in modo particolarmente felice, vuoi sulla carta stampata, vuoi nel cervello di chi guarda.
In questo senso sono epifaniche.
(Il Nuovo FVG)
Gianluigi Toccafondo: la danza serpentina
Udine, Chiesa di San Francesco, settembre 2000
La meravigliosa mostra di Gianluigi Toccafondo organizzata dal Centro Espressioni Cinematografiche col Comune di Udine (coordinamento artistico Giovanna Durì) alla Chiesa di San Francesco fa riflettere sull’essenza immateriale del cinema: sguardo, memoria, movimento.
I filmati elaborati da Toccafondo a partire dal fotogramma sono un’incessante trasformazione. Tutte le cose in Toccafondo aspettano solo la spinta dello sguardo per trasformarsi e volare. Così il corpo disegnato, modificandosi, tende a sfuggire per le vie laterali: orecchie capelli braccia code; per questo Toccafondo ama appioppare ai personaggi dei suoi disegni orecchie da coniglio, o da pipistrello. Gli elementi tendono a innalzarsi verso l’alto, spargersi lateralmente, scappare. Un gatto nero dalle zampe che si allungano in corsa diventa una nuvola (“Sipario ducale”, 1999).
Quest’arte “eraclitea” fa pensare a Proteo, il corpo inafferrabile della mitologia -e infatti in Toccafondo pare impossibile afferrare, bloccare, imprigionare qualcosa, perché sarebbe come afferrare il fumo. Però, allo stesso modo, come rende Toccafondo ancor più drammatica la drammaticità cinematografica del morire rotolando! (“Le Criminel”, 1993).
Il disegno non sostituisce l’immagine fotografica: la ricopre, la metabolizza. Per Toccafondo disegnare sull’immagine significa appropriarsene (in un’inquadratura dell’ammirevole “Toccafondo in Japan”, 1999, lampi di disegno percorrono l’inquadratura ordinatamente ad angolo retto). Toccafondo parte dalla pellicola cinematografica su cui lavora, fotografando un monitor, fotocopiando le immagini, dipingendovi sopra. Ma alla pellicola cinematografica pare opporsi quel continuo trasformarsi, quella meravigliosa fluidità. Si ha l’impressione paradossale che sia “più” movimento quello che il movimento del cinema - e ciò perché distrugge la tirannia dei contorni e delle forme.
Val la pena di ricordare che nel primissimo cinema la meraviglia non veniva dal racconto, ma dal movimento. Come racconta Jacques Aumont in un libro bellissimo, “L’occhio interminabile”, quando Méliès va a vedere “Le gouter de bébé” dei Lumière, cosa nota? Non la scena in primo piano ma gli alberi sul fondo: come il vento muove le foglie.
E nei brevi film del protocinema è diffuso uno spettacolo che si chiama “la danza serpentina”. Una danzatrice dal largo manto gira su se stessa facendo roteare la sua robe. Pura voluttà del movimento! Effetto poi accresciuto dall’eventuale colorazione.
Perché la prima colorazione del protocinema sono colpi di pennello su un solo oggetto del quadro (metti, la danzatrice) che, essendo irregolari da fotogramma a fotogramma, creano una macchia monocroma, un alone vibrante che si agita dentro e fuori dei contorni dell’immagine fotografata - un’affascinante attinia cromatica.
Colore che deborda. E anche in Toccafondo il colore sprezza i contorni: è una macchia, una nuvola, che si espande e si ritrae. Contro la tradizione prevalente del disegno animato (Walt Disney è il caso limite) dove il colore è imprigionato nella gabbia del tratto, in una specie di fiorentino “primato del disegno” spinto all’estremo. Nel gran mare del disegno animato, quella dei colori che debordano dal disegno è una corrente largamente minoritaria.
Tutta questa meraviglia - quella del movimento, quella del mobile colore - Toccafondo ce lo fa ritrovare nella “danza serpentina” dei suoi film. Ecco che quest’autore di abbagliante modernità sa regalarci lo stesso brivido - di piacere - degli spettatori di Edison e dei Lumière.
(Il Nuovo FVG)
La meravigliosa mostra di Gianluigi Toccafondo organizzata dal Centro Espressioni Cinematografiche col Comune di Udine (coordinamento artistico Giovanna Durì) alla Chiesa di San Francesco fa riflettere sull’essenza immateriale del cinema: sguardo, memoria, movimento.
I filmati elaborati da Toccafondo a partire dal fotogramma sono un’incessante trasformazione. Tutte le cose in Toccafondo aspettano solo la spinta dello sguardo per trasformarsi e volare. Così il corpo disegnato, modificandosi, tende a sfuggire per le vie laterali: orecchie capelli braccia code; per questo Toccafondo ama appioppare ai personaggi dei suoi disegni orecchie da coniglio, o da pipistrello. Gli elementi tendono a innalzarsi verso l’alto, spargersi lateralmente, scappare. Un gatto nero dalle zampe che si allungano in corsa diventa una nuvola (“Sipario ducale”, 1999).
Quest’arte “eraclitea” fa pensare a Proteo, il corpo inafferrabile della mitologia -e infatti in Toccafondo pare impossibile afferrare, bloccare, imprigionare qualcosa, perché sarebbe come afferrare il fumo. Però, allo stesso modo, come rende Toccafondo ancor più drammatica la drammaticità cinematografica del morire rotolando! (“Le Criminel”, 1993).
Il disegno non sostituisce l’immagine fotografica: la ricopre, la metabolizza. Per Toccafondo disegnare sull’immagine significa appropriarsene (in un’inquadratura dell’ammirevole “Toccafondo in Japan”, 1999, lampi di disegno percorrono l’inquadratura ordinatamente ad angolo retto). Toccafondo parte dalla pellicola cinematografica su cui lavora, fotografando un monitor, fotocopiando le immagini, dipingendovi sopra. Ma alla pellicola cinematografica pare opporsi quel continuo trasformarsi, quella meravigliosa fluidità. Si ha l’impressione paradossale che sia “più” movimento quello che il movimento del cinema - e ciò perché distrugge la tirannia dei contorni e delle forme.
Val la pena di ricordare che nel primissimo cinema la meraviglia non veniva dal racconto, ma dal movimento. Come racconta Jacques Aumont in un libro bellissimo, “L’occhio interminabile”, quando Méliès va a vedere “Le gouter de bébé” dei Lumière, cosa nota? Non la scena in primo piano ma gli alberi sul fondo: come il vento muove le foglie.
E nei brevi film del protocinema è diffuso uno spettacolo che si chiama “la danza serpentina”. Una danzatrice dal largo manto gira su se stessa facendo roteare la sua robe. Pura voluttà del movimento! Effetto poi accresciuto dall’eventuale colorazione.
Perché la prima colorazione del protocinema sono colpi di pennello su un solo oggetto del quadro (metti, la danzatrice) che, essendo irregolari da fotogramma a fotogramma, creano una macchia monocroma, un alone vibrante che si agita dentro e fuori dei contorni dell’immagine fotografata - un’affascinante attinia cromatica.
Colore che deborda. E anche in Toccafondo il colore sprezza i contorni: è una macchia, una nuvola, che si espande e si ritrae. Contro la tradizione prevalente del disegno animato (Walt Disney è il caso limite) dove il colore è imprigionato nella gabbia del tratto, in una specie di fiorentino “primato del disegno” spinto all’estremo. Nel gran mare del disegno animato, quella dei colori che debordano dal disegno è una corrente largamente minoritaria.
Tutta questa meraviglia - quella del movimento, quella del mobile colore - Toccafondo ce lo fa ritrovare nella “danza serpentina” dei suoi film. Ecco che quest’autore di abbagliante modernità sa regalarci lo stesso brivido - di piacere - degli spettatori di Edison e dei Lumière.
(Il Nuovo FVG)
Toccafondo e "Gli ultimi"
Se guardiamo alle schede filmografiche, il grande film friulano “Gli ultimi” è diretto da Vito Pandolfi e scritto da Padre David Maria Turoldo; ma è evidente che nel film l’impronta di Turoldo è assai più forte e decisiva di quella usuale - pur già così importante - d’uno sceneggiatore, al punto da assurgere a un livello di co-autorialità. Ebbene, quando pochi anni or sono è apparso il restauro de “Gli ultimi”, abbiamo potuto vedere in appendice alcune inquadrature tagliate che non è esagerato definire folgoranti, in un paio di casi fra le cose migliori del film. E’ dunque una perdita, un impoverimento, che esse siano state espunte dalla versione definitiva. Qui - non è errato concludere - il marxista e razionalista Pandolfi ha prevalso a torto su Turoldo e sulla sua particolarissima sensibilità artistica: poiché le parti tagliate illustravano meglio quell’elemento irrazionale e quasi onirico, pertinente a un Friuli notturno e fantastico, ch’è sotteso a “Gli ultimi”, e che ci appare oggi come il suo aspetto forse più rilevante.
Lo incarna la figura dello spaventapasseri, vero Leitmotiv ossessivo del film, ben al di là del suo essere metafora della miseria del piccolo protagonista Checo, che proprio con lo spaventapasseri viene oscuramente identificato; appunto nella più bella e importante delle scene tagliate, vediamo Checo a fianco dello spaventapasseri, e una panoramica verso il basso sposta l’inquadratura su un velo d’acqua in cui insieme si rispecchiano: il bambino e il suo doppio.
Indicativamente, proprio da quest’elemento fantastico, da questo sottotesto onirico del film è affascinato Gianluigi Toccafondo nel suo intervento su “Gli ultimi” - recente frutto artistico di un lavoro che si distribuisce equamente sul versante grafico e sul quello della video art. Toccafondo lavora modificando, distorcendo, ridefinendo l’immagine cinematografica fotografata da un monitor. Ecco che qui, ne “Gli ultimi”, la grana video assume una strana, distaccata lontananza - poiché si oppone nella nostra memoria a quel calore vitale, che come una furia trattenuta e nitida informava le immagini del film.
L’artista coglie immediatamente il ruolo centrale dello spaventapasseri come figura totemica del film, e l’amplifica. Così nelle visioni di Toccafondo lo spaventapasseri campeggia in cima ad alberi spogli, ne prolunga la forma scheletrita, quasi germinandone!, sopra il malinconico paesaggio friulano.
Altrove, Toccafondo lo pone sotto il segno della pesantezza. In genere nella visione dinamica di Toccafondo le figure sono soggette a una forza centrifuga, si allungano lateralmente e verso l’alto, le propaggini del corpo schizzano verso il bordo del disegno. In un paio d’immagini dello spaventapasseri le sue braccia si appesantiscono, generano un oscuro viluppo di linee nere che si gonfia quasi oscenamente verso il terreno: figura tellurica, ctonia.
Ombre e fantasmi. Lo spazio intorno al letto di Checo si contorrce, nel disegni di Toccafondo, la tinta si ritrae per creare col nero dell’immagine sottostante una popolazione di ombre. Allo stesso modo, nere ombre fantastiche popolano come spettatori l’inquadratura/disegno di Checo “impiccato” da bambini crudeli (e sospettiamo qui anche una reminiscenza da “Pinocchio”, gran libro nero della nostra letteratura infantile).
C’è la trascrizione fantasmagorica della malvagità: quei bambini del film diventano grottesche maschere maligne; ma l’opera di Toccafondo è tutta, in partenza, per sua natura, una proiezione fantasmatica tesa a evocare graficamente l’inconscio. Quell’elemento fantastico che vediamo nei disegni di Toccafondo già attraversava in filigrana “Gli ultimi”. Possiamo quindi dire che il lavoro di Toccafondo sul film non vi sovrappone un’interpretazione esteriore ma ne coglie e ne evidenzia in modo affascinante l’interna realtà.
postfazione a "Lo spaventapasseri. Gli ultimi di Toccafondo", CEC, Udine 2005
Lo incarna la figura dello spaventapasseri, vero Leitmotiv ossessivo del film, ben al di là del suo essere metafora della miseria del piccolo protagonista Checo, che proprio con lo spaventapasseri viene oscuramente identificato; appunto nella più bella e importante delle scene tagliate, vediamo Checo a fianco dello spaventapasseri, e una panoramica verso il basso sposta l’inquadratura su un velo d’acqua in cui insieme si rispecchiano: il bambino e il suo doppio.
Indicativamente, proprio da quest’elemento fantastico, da questo sottotesto onirico del film è affascinato Gianluigi Toccafondo nel suo intervento su “Gli ultimi” - recente frutto artistico di un lavoro che si distribuisce equamente sul versante grafico e sul quello della video art. Toccafondo lavora modificando, distorcendo, ridefinendo l’immagine cinematografica fotografata da un monitor. Ecco che qui, ne “Gli ultimi”, la grana video assume una strana, distaccata lontananza - poiché si oppone nella nostra memoria a quel calore vitale, che come una furia trattenuta e nitida informava le immagini del film.
L’artista coglie immediatamente il ruolo centrale dello spaventapasseri come figura totemica del film, e l’amplifica. Così nelle visioni di Toccafondo lo spaventapasseri campeggia in cima ad alberi spogli, ne prolunga la forma scheletrita, quasi germinandone!, sopra il malinconico paesaggio friulano.
Altrove, Toccafondo lo pone sotto il segno della pesantezza. In genere nella visione dinamica di Toccafondo le figure sono soggette a una forza centrifuga, si allungano lateralmente e verso l’alto, le propaggini del corpo schizzano verso il bordo del disegno. In un paio d’immagini dello spaventapasseri le sue braccia si appesantiscono, generano un oscuro viluppo di linee nere che si gonfia quasi oscenamente verso il terreno: figura tellurica, ctonia.
Ombre e fantasmi. Lo spazio intorno al letto di Checo si contorrce, nel disegni di Toccafondo, la tinta si ritrae per creare col nero dell’immagine sottostante una popolazione di ombre. Allo stesso modo, nere ombre fantastiche popolano come spettatori l’inquadratura/disegno di Checo “impiccato” da bambini crudeli (e sospettiamo qui anche una reminiscenza da “Pinocchio”, gran libro nero della nostra letteratura infantile).
C’è la trascrizione fantasmagorica della malvagità: quei bambini del film diventano grottesche maschere maligne; ma l’opera di Toccafondo è tutta, in partenza, per sua natura, una proiezione fantasmatica tesa a evocare graficamente l’inconscio. Quell’elemento fantastico che vediamo nei disegni di Toccafondo già attraversava in filigrana “Gli ultimi”. Possiamo quindi dire che il lavoro di Toccafondo sul film non vi sovrappone un’interpretazione esteriore ma ne coglie e ne evidenzia in modo affascinante l’interna realtà.
postfazione a "Lo spaventapasseri. Gli ultimi di Toccafondo", CEC, Udine 2005
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