venerdì 5 dicembre 2008

Rumore bianco

Alberto Fasulo

“Rumore bianco”, presentato in anteprima nazionale al Visionario di Udine e ora in sala, è un documentario poetico di Alberto Fasulo sul fiume Tagliamento, che attraversa il Friuli. Introdotto da una didascalia sull’acqua che conserva la memoria di chi incontra, “Rumore bianco” si apre su un'interminabile panoramica, che nel suo sguardo esplorante inquadra e cattura il vasto greto di ghiaia del Tagliamento, si sposta lenta verso destra seguendo le linee dell'acqua fra i sassi, incontra un cartello, lo supera, continua oltre, riaggancia così col suo sguardo quel letto bianco di ghiaia che sembra infinito, e continua fino a quando l'inquadratura “tocca” una spalla umana - i giovani scienziati che studiano il fiume.
C'è un'analogia precisa fra questo movimento di macchina in apertura e l'andamento dell'intero film: che anch'esso è uno sguardo panoramico e complessivo sul Tagliamento come realtà non solo geografica ma storica, mitica, si può ben dire esistenziale, seguendolo dalla fonte al mare, dal presente al passato, dal mondo contadino alla modernità (caso limite, la demolizione di una serie di villette di origine truffaldina da parte di una gru con una benna straordinariamente simile a un dinosauro). Il Tagliamento come spina dorsale del Friuli, per cui tutto quello che del fiume è detto (mostrato, alluso, evocato) facilmente si trasferisce alla regione nella sua interezza. Il fiume, dunque, come un vasto nastro vivente, connettore dell'esperienza umana: di chi ci vive e ci lavora, chi sogna, pensa, ricorda, gioca, riesce, fallisce, soffre, combatte; da tutte queste vite e questi volti, che il film, alla Piavoli, riunisce in un vasto affresco poetico, emerge un quadro di vivissima, ma dolorosa (perché umana, consegnata al tempo e al dolore) vitalità.
A fare da filo conduttore c'è soltanto l'acqua, col suo ciclo, con la pioggia, e con le sue piene, che innestano il ricordo di altre piene, disastrose, del passato. Giustamente il film lavora, nella scansione abilmente montata delle scene, per contatto poetico; c'è una logica ma non è esplicativa o, peggio, narrativa. Questo film è un viaggio fluido - perché fluido è l'elemento dell'acqua, su cui il film galleggia - e naturalmente erratico, che torna su se stesso, si perde e si ritrova, seguendo collo sguardo lo spettacolo della natura (le piante, la strettoia delle montagne, i cieli grigi friulani, il volo degli uccelli); ma soprattutto possiede un elemento centrale che è il concetto di lavoro, nel senso del fare (faber). Tutti i lavori, da quelli atemporali della vecchia contadina stanca che vediamo all'inizio a quelli degli scienziati svizzeri che studiano il fiume coi loro “rituali” misteriosi (il finale), a quelli dei lavoratori della centrale, dei bonificatori di bombe, dei militari eccetera, che siano esplorati in lunghe riprese o che siano concentrati in una manciata di secondi, e senza essere tutti egualmente comprensibili all'osservatore, tutti questi lavori hanno nel film una solennità scandita nella muta sicurezza del gesto.
Sono lavori che illustrano allo stesso tempo l'asse sincronico e quello diacronico della realtà esistenziale del fiume: perché i gesti della vecchia contadina che spiuma una gallina coll'acqua bollente, pota un albero, rovescia una massa di verzura col forcone, o della donna con la gerla che raccoglie legna sul greto, sono gesti antichi e immutabili; e in questa dimensione entrano i ricordi (la polenta), si mischiano l’oggi (la divertente ordinazione in friulano della spesa al telefono: “...e un Philadelphia”) e i riti antichi delle preghiere per i morti. È forte, specie nella prima parte del film, il senso dell'invecchiamento e della morte (in opposizione netta al calore luminoso di un giorno d'estate dei giochi acquatici di un gruppo di ragazzi nella bassa pianura, alla fine del viaggio) - e non possiamo non connetterlo a un mondo contadino e montanaro destinato a sparire, ovvero a rimanere come pura sopravvivenza.
La bellissima scena del dialogo delle due anziane sulla morte (“Mah! Così è finita la menata, qua”) è intervallata con inquadrature di guerra. Ma nel film il passato è sempre interiorizzato: il materiale storico di repertorio in b/n è sempre legato a un personaggio, sì che la sua entrata ha qualcosa di soggettivo: documento storico, attiene tuttavia alla memoria (o alla memoria-incubo). Anche nel caso del materiale collegato per pura analogia - il volo dell'elicottero militare d'oggi e il volo dell'aereo della seconda guerra mondiale, da cui il filmato dei bombardamenti - l'entrata del filmato è pur sempre innestata da una sensazione. Antico e moderno non sono messi in opposizione ma si fondono continuamente nella dimensione complessiva, insieme unitaria e continuamente mutevole, del film. Per esempio nella pagina del pignarûl, col rogo della “vecchia”: vediamo fabbricare giocosamente il fantoccio, ma il film vi dà (vi riscopre) lontane risonanze arcaiche con quell'uso del buio profondo e quella strana, insistita sparatoria contro il rogo – e c’è uno stacco che ci porta immediatamente alla morte, col teschio del capriolo ucciso dai bracconieri.
Ma a rendere possibile questo riflesso storico e mitico (questa dimensione atemporale sottesa a un film che pure è attento ai volti e ai segni del presente, alle macchine e agli strumenti, e non si perde mai nella leziosità della “rievocazione”) è quell'immediatezza di sguardo che gli dà forma, quel modo diretto di guardare le cose, che è l'anima stessa del film e la sua giustificazione.

(Cinemazero)

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