venerdì 5 dicembre 2008

La Quinta del Sordo. Le pitture nere di Antonella Peresson

Udine, Danza y Vida, novembre 2008

Può sembrare bizzarra un’esposizione di questo genere cupo per una pittrice come Antonella Peresson, per la quale i primi aggettivi che ci vengono in mente sono: sensuale e solare.
E quando dico sensuale e solare, non intendo riferirmi semplicemente al soggetto di tanti suoi dipinti: la bellezza carnale e l’esuberanza vorrei dire rubensiana dei suoi nudi, l’inondazione di una luce calda e meridionale sui suoi villaggi di pescatori. No, mi riferisco alla spessa materialità del tratto, che si concretizza nella consistenza pastosa e, appunto, sensuale della pennellata. La sua pittura è naturalmente materica. Ed è un prolungamento di questa concretezza tangibile l’inserimento nel quadro di elementi di tecniche miste: dapprima carta e foto, ma poi anche altri materiali come le componenti di computer ricontestualizzate come parti dell’opera nella bellissima serie di pannelli che abbiamo visto nella precedente mostra, intitolata “Memorie”.
Nei dipinti di questa mostra la ricchezza della materia, quella natura lavica del tratto che credo sia un forte titolo di credito dell’autrice, viene piegata e incanalata nella cupezza del tema. Dico incanalata perché persiste: questi cuori rovesciati, questi macabri festoni di vasi sanguigni ancora fiammeggiano di una loro barbarica ricchezza.
Non è sbagliato dire che queste pitture riunite sotto l’ironico titolo “Cuore di mamma” sono la Quinta del Sordo di Antonella Peresson. (Mi riferisco naturalmente alla casa oltre il Manzanarre dove si ritirò Goya affrescandola con le sue pitture più nere). Questo è il luogo dove l’autrice dà sfogo artistico alla sua riflessione più cupa e terrifica. Se questo Inferno ha bisogno di un Virgilio, una buona guida, un buon punto di partenza può esserci fornito da un dipinto che cronologicamente è tra i primi lavori della serie, “…cosa voglio…” (tutti i quadri sono contraddistinti da un verso tratto dal lavoro letterario di Daniela Secchettin che si compenetra alla mostra dialogando con le opere). In passato Antonella Peresson ha realizzato una serie di nudi in cui il corpo della donna si fonde con i quattro elementi, terra aria fuoco acqua: cioè si unifica col tessuto vivo della natura dissolvendo la propria singolarità umana nel suo fluire, in una sorta di unità panica. Ebbene, tecnicamente, come tratto e realizzazione, la presente pittura appartiene alla stessa serie. Ma qui, quella creatura mostruosa, quel feto che occhieggia attraverso uno sguardo radiografico impossibile che viola il ventre – e guardate il gesto di vergogna e disperazione, di ispirazione classica (Masaccio), della madre – rappresenta l’altra faccia di quell’estasi panica: un’immissione del male nella natura. Che non è cospirazione e violazione ma è un elemento diabolico e perverso celato nella natura fin dall’inizio della creazione – proprio come vediamo in Hieronymus Bosch.
A un livello più individuale, di ponte fra la realtà fisica e l’inconscio, in queste opere si palesa il coraggio dell’autrice di mostrare l’elemento di orrore implicito e costantemente negato nella gravidanza: la sensazione di una creatura aliena che cresce dentro il tuo corpo e si nutre del tuo sangue, nonché il senso di aggressività della madre verso il nato: una sensazione che è il non dicibile di una società tanto pronta a celebrare a parole la natalità e l’infanzia quanto pigra a proteggerle nei fatti.
Poiché – nella fondamentale duplicità di tutte le emozioni umane – accanto alla madre felice, la madre placida, la madre nutritrice, la madre eroica, la madre feconda, la Madonna con Bambino, esiste questo grumo di impulsi negativi, esiste questa ripulsa; non per nulla il cuore rovesciato è un elemento ricorrente nella presente raccolta di opere. Nella propria solitudine, la madre sperimenta (e nega a se stessa) la percezione dell’altro come intruso; la propria spinta a dare la vita si rovescia nella tentazione a dare la morte. Quando questa sensazione emerge post partum la etichettiamo come “depressione”.
E dunque questa serie di dipinti mette a nudo l’altra faccia – la faccia oscura – della maternità.
In “…dove è rimasta la parola…” un infante è nato come un verme da una madre che volge verso lo spettatore un viso a metà strada fra un mostro e una civetta, in un urlo che non possiede la parola; il suo corpo si identifica coi geroglifici dello sfondo che le disegnano i capezzoli. In “…le stesse mani…” un mostro monolitico (nella cui testa-feto l’occhio del neonato si identifica col suo) grida con una bocca innaturale mentre soffoca un’orrida creatura dall’inconfondibile somiglianza: di sopra genera, di sotto uccide, impossibile catena di montaggio tra nascita e distruzione. “…quante prigionie di quante mani...” potrebbe essere una maternità placida, dove la nudità è simbolo di purezza: i seni appesantiti dal latte pendono verso il bambino come una promessa di nutrimento; ma le mani sono costrette e legate dall’intrico di vasi sanguigni di un cuore rovesciato: vuoto, incapacità, dolore, frustrazione.
Questo rovesciamento osceno, tanto fisico quanto simbolico, ritorna di continuo: l’esplosione in “…niente di mio…” di vasi sanguigni che erompe come fuoco nella tenerezza dell’allattamento, ed esplode trionfante nella parte alta del quadro riempiendosi di punte di chiodi torturatrici; l’utero rovesciato in “…è nido su ramo flessibile di albero…”, dove la forma generatrice è la spirale, un viluppo che sale fino a generare una colomba che prende il volo sulle chiome scure di un albero, sullo sfondo di un cielo sanguigno; la descrizione della sterilità e della perdita in “…tra me e il mio corpo…”, dove nella parte mediana del corpo della donna, il luogo della fecondità, si apre uno squarcio – e i colori cinerini, funerei, rinforzano questo senso di negazione, come lo sguardo della donna di profilo, che si perde in un fuori campo infinito.
Per arrivare al dipinto più demoniaco, “…non lo conosce nessuno!”. L’Inquisizione, che costrinse il Veronese a cambiare titolo alla sua grande tela da “L’ultima cena” a “Convito in casa di Levi”, avrebbe bruciato il quadro (e forse anche l’autrice). A vederlo, ritornano in mente i versi di Yeats: “E quale animale informe, giunto alfine il suo tempo, striscia verso Betlemme per nascervi?” – per nascervi, o per morirvi? o per restare sospeso in una specie di agonia immortale?
Vediamo una Madonna di un’altra dimensione, con occhi vuoti impenetrabili e una traccia diabolica sul viso dove occhieggia l’ombra del Capro, così ciecamente sicura della sua perfezione da soffocare il Bambino, nel rovesciamento del gesto d’amore (ma il Bambino stesso raggiunge una consapevolezza nel suo stato eternamente morente). Ecco di nuovo il potere materno tanto di nutrire quanto di dare la morte. Ed ecco che in questo dipinto si riflette il gesto della figura mostruosa di “…le stesse mani…” – anch’essa forse una Dea primeva – che abbiamo visto prima. E che sia un dipinto demoniaco lo dicono anche i visi beffardi, di bambini crudeli, degli angioletti.
Uno di questi dipinti, “…c’erano tutti ma chiamava lo stesso…”, mostra dei visi malvagi che ci scrutano e sogghignano – perché sanno qualcosa che noi non sappiamo. Ebbene, anche noi ora sappiamo qualcosa che non sapevamo – o cui non osavamo pensare.

Nessun commento: