mercoledì 21 dicembre 2022

Pinocchio

Guillermo del Toro

Il capolavoro di Collodi non ha avuto gran fortuna nel cinema degli ultimi vent’anni, con il mediocre e insipido Pinocchio di Roberto Benigni e il tetro e algido Pinocchio di Matteo Garrone. In compenso ha tenuto alta la bandiera pinocchiesca un bellissimo cartone animato di Enzo D’Alò basato sulle illustrazioni di Lorenzo Mattotti. Ora è uscito su Netflix il Pinocchio di Guillermo del Toro (assieme all’esperto animatore Mark Gustafson), realizzato con pupazzi animati a passo uno; mentre la concorrente Disney+ ha messo sul piatto il Pinocchio di Robert Zemeckis, film dal vero con molta CGI.
Bisogna dire che l'interessante film di Guillermo del Toro non è una vera e propria versione del Pinocchio collodiano (laddove quello di Zemeckis è un remake fondamentalmente fedele del classico cartoon Disney del 1940). Del Toro e il co-sceneggiatore Patrick McHale hanno preso i personaggi principali e un paio di avvenimenti base e li hanno inseriti in un racconto d’invenzione. In questo il film ricorda il famoso Pinocchio di Giulio Antamoro, con Polidor, al tempi del muto (1911): che dopo l’evasione di Pinocchio dal carcere lo portava nel “paese degli indiani”, e metteva anche in scena un volo di Pinocchio su una palla di cannone alla Barone di Münchhausen, per poi ritornare al racconto originario. Naturalmente è un segno della vitalità “mitica” del personaggio questa sua capacità di liberarsi dalla gabbia del racconto base per trasferirsi in altri spazi (anche fantascientifici: Pinocchio 3000 di Daniel Robichaud).
Il film di del Toro si allarga in due sensi. Sviluppa la fiaba satirico-educativa di Collodi in una riflessione amara sui legami affettivi, con un complicato sistema per fabbricare una sorta di reincarnazione di un figlio di Geppetto morto bambino (Carlo, come Collodi) tramite uno spirito della natura un po’ New Age; ma Geppetto, perso nel rimpianto del figlio perduto, non riesce ad accettare in cambio questo Pinocchio dal volto un po’ meno antropomorfo del solito (Geppetto lo ha costruito mentre era ubriaco) e dalla vitalità più ghenghe mai irrefrenabile, anche perché si è indebolito l’intento moralistico collodiano. In questa versione il Grillo Parlante, voce narrante della storia, è un insetto scrittore che abita addirittura dentro il corpo di Pinocchio (nota il ritratto di Schopenhauer appeso alla parete della sua tana!). Mangiafuoco con un altro nome e un altro volto (reminiscenza di Lemony Snicket - Una serie di sfortunati eventi) diventa un personaggio principale; gli dà la voce Christoph Waltz.
Inoltre, la storia viene audacemente spostata ai tempi del fascismo, che è un tema ricorrente nel cinema di del Toro, da La spina del diavolo a Il labirinto del fauno. Qui troviamo un Mussolini ferocemente sbeffeggiato ma anche, in chiave drammatica, un fanatico Podestà con un figlio infelice (che si chiama Lucignolo solo per ricordo del romanzo, non essendoci relazione col personaggio) e una sezione tutta d’invenzione del racconto sulla guerra e un campo d’addestramento militare, estremamente cupa, in pieno stile del Toro.
Un tema centrale del film è quello della morte, che già è un filo nero nel romanzo di Collodi: qualcuno ha giustamente detto che Pinocchio è il solo capolavoro gotico del nostro Ottocento. Ora, Guillermo del Toro è un grande ammiratore e inventore di “mostri”. In questo film, dopo un grazioso scherzo su Conigli Neri collodiani, del Toro supera se stesso con una memorabile resa immaginativa della Morte stessa, in forma di una creatura vagamente simile a una sfinge con la coda da manticora, che parla con la voce di Tilda Swinton. Con lei Pinocchio – il quale come burattino non può morire – ha una bizzarra consuetudine di rinascite, ossia di morti e ritorni.
In opposizione alla chiusura di Collodi, con un ristabilimento definitivo dell’ordine, del Toro proietta il suo racconto nella dimensione della durata, con la morte per vecchiaia dei protagonisti e un punto di domanda sul destino finale del burattino. Il suo film non è necessariamente il migliore dei Pinocchio – ma è sicuramente il più coraggioso.

martedì 13 dicembre 2022

Il corsetto dell'imperatrice

Marie Kreutzer

Qualunque film in costume, si sa, ci dice più del periodo in cui è stato realizzato che di quello che vuole mostrare. Così la famosa trilogia di Sissi/Romy Schneider, con le evidenti libertà che si prende sul piano storico, non ci dice granché sull’epoca di Elisabetta d’Austria (anche se poi magari finisce per fondare la conoscenza di massa su questa base fragile) ma molto sull’Europa degli anni’50 che lo adorò: una “voglia di leggerezza”, un franco desiderio di romanticismo venato di nostalgia. Il cinema “imperiale” non è certo nato allora; ma quel successo parla chiaro.
Allo stesso modo, cancellata Romy Schneider, il passabile Il corsetto dell’imperatrice di Marie Kreutzer, che mostra tutt’altra versione di Elisabetta d’Austria (non la sentiamo mai chiamare Sissi) ben interpretata da Vicky Krieps (Il filo nascosto), ci dice molto sui nostri tempi: niente romanticismo, ancor meno nostalgia, e un mood fosco, quasi disperato. Nell’impossibilità a vivere di Elisabetta non si nasconde il cupio dissolvi del nostro declino occidentale?
Refrattaria ai doveri di imperatrice (esempio se ce n’è uno di persona che ha sbagliato mestiere!, come nel secolo seguente Lady Diana), abile a inscenare finti malori per sottrarsi agli impegni di rappresentanza, quarantenne sconvolta all’idea di invecchiare, Elisabetta trascina dall’inizio alla fine il peso di una cupa infelicità. Della costrizione che sente è simbolo materiale il corsetto che si fa stringere sempre di più; ma non c’è felicità neppure nelle sue evasioni: le cavalcate, i continui viaggi-fuga, le goffe tentazioni d’adulterio. Il film è la storia di una nevrosi: una depressione insuperabile, che si esprime nell’anoressia, nella distanza ostile dal marito Francesco Giuseppe (i cui celebri favoriti, apprendiamo, sono posticci), nei propositi suicidi, ma anche in tocchi di crudeltà oggettiva verso la figlia bambina, che tira giù dal letto per farla cavalcare con lei in piena notte, o verso la dama di compagnia cui impedisce di sposarsi (“Non se ne parla”) perché vuole tenerla con sé. Più intelligente del marito, meno intelligente della figlia, Elisabetta tormenta tutti e in primo luogo se stessa.
La sceneggiatura, della regista, è un po’ ridondante ma anche un po’ incerta; si ha l’impressione che non riesca sempre a “fissare” con precisione il personaggio. A volte Elisabetta sembra soffrire principalmente del suo ruolo, di più della sua età, sebbene sia vero che sono fattori che si rinforzano a vicenda. Fatto sta che già 14 giorni dopo le nozze la Elisabetta storica scrisse una (brutta) poesia in cui lamenta di aver ceduto la libertà sulla strada della vanità. Il film ha alcune cadute di tono (come un episodio inglese in puro stile Lady Chatterley) ma in generale sa rendere la condizione di “anima smarrita” di Elisabetta, con empatia ma evitando in linea di massima di farne una didattica eroina perseguitata “dal sistema”. L’idea migliore del film è che a un certo punto Elisabetta incontra Louis Le Prince, uno degli inventori del cinema (qui c’è un leggero scarto d’anni rispetto al perfezionamento dell’invenzione), dal quale viene filmata; e in film si permette quelle giravolte e sberleffi che non può fare nella vita. Una bella riflessione sul cinema come produzione del doppio.

venerdì 9 dicembre 2022

Monica

 Andrea Pallaoro

L’eccellente Monica di Andrea Pallaoro si apre con un primissimo piano frontale della protagonista, immobile, con un trucco irreale e lenti riflettenti, e l’ombra di un ambiguo sorriso: una Gioconda postmoderna. La metafora della pittura torna utile per parlare di questa coproduzione italo-americana girata in inglese negli States. Ha una narrazione “impressionistica”, a piccoli stacchi, come piccoli colpi di pennello; l'inquadratura stringe sulla protagonista, nel vecchio formato 4:3 che sta tornando di moda nel cinema d'autore.
L’anziana Eugenia sta morendo, assistita dalla famiglia del figlio Paul, da sua moglie Laura e dalla badante Leticia. Monica è l’altro figlio, che ha cambiato sesso, e che torna nella casa per aiutare la madre (da cui era stato rifiutato), senza rivelarle chi è. Lo spettatore impara a poco a poco le relazioni e la backstory (non è privo di importanza che la rottura, evocata nel dialogo, prendesse la forma di un rinnegamento della maternità). Il film apre altresì una storia parallela sulla vita amorosa e sessuale di Monica – notevole la scena di un disastroso blind date. L’intensità viene aumentata dalla perfetta interpretazione di Trace Lysette, attrice transgender nella vita reale.
S’intravede nel film la possibile influenza di autori come Cassavetes, Fassbinder, Jarmusch, P.T. Anderson – e sul fondo, lontana, l'ombra del grande Douglas Sirk. Quello che soprattutto caratterizza Monica è un ammirevole autocontrollo; in quest’opera intimista non c’è retorica; l’emozione è marcata (come è marcata la consistenza dei corpi) ma la narrazione è trattenuta; è un film del non detto, talché è lasciato a noi di giudicare se mai la madre comprenda chi è Monica veramente. C’è una “confessione” alla madre che dorme – ma poi un'inquadratura la vediamo con gli occhi semiaperti. Non sapremo mai quando Eugenia si è svegliata, quanto ha sentito; se le sue carezze a Monica siano gratitudine o riconoscimento. In realtà, rendere esplicito cosa sappia la madre non è necessario al risultato artistico. “Family comes first”, dice Eugenia, nella prima parte del film, a Paul che è in tensione con la moglie; i legami familiari vanno seguiti, nel corso lento e vischioso del tempo (gli Orologi molli di Dalì compaiono in un puzzle). La foto di famiglia alla fine è, come in Ozu, uno statement del tempo raggiunto e un’anticipazione dell’addio.
Film dell’affetto perduto e ritrovato, Monica proprio per la sua asciuttezza può permettersi la pregnanza del simbolo. Simboli di maternità, come la cagnetta che vedendo portare un suo cucciolo a Eugenia va a controllare che tutto vada bene; simboli della continuità familiare interrotta, come la piscina vuota in degrado, “lasciata andare” dopo la morte del padre; ed anche la commovente conclusione con l’inno nazionale cantato dal nipotino un uno spettacolo è un simbolo – quasi fordiano – del valore “fraterno” di una comunità ritrovata.