Marie Kreutzer
Qualunque
film in costume, si sa, ci dice più del periodo in cui è stato
realizzato che di quello che vuole mostrare. Così la famosa trilogia
di Sissi/Romy Schneider, con le evidenti libertà che si prende sul
piano storico, non ci dice granché sull’epoca di Elisabetta
d’Austria (anche se poi magari finisce per fondare la conoscenza di
massa su questa base fragile) ma molto sull’Europa degli anni’50
che lo adorò: una “voglia di leggerezza”, un franco desiderio di
romanticismo venato di nostalgia. Il cinema “imperiale” non è
certo nato allora; ma quel successo parla chiaro.
Allo
stesso modo, cancellata Romy Schneider, il passabile Il corsetto
dell’imperatrice di Marie Kreutzer, che mostra tutt’altra
versione di Elisabetta d’Austria (non la sentiamo mai chiamare Sissi)
ben interpretata da Vicky Krieps (Il filo nascosto), ci dice molto sui
nostri tempi: niente romanticismo, ancor meno nostalgia, e un mood
fosco, quasi disperato. Nell’impossibilità a vivere di Elisabetta
non si nasconde il cupio dissolvi del nostro declino occidentale?
Refrattaria
ai doveri di imperatrice (esempio se ce n’è uno di persona che ha
sbagliato mestiere!, come nel secolo seguente Lady Diana), abile a
inscenare finti malori per sottrarsi agli impegni di rappresentanza,
quarantenne sconvolta all’idea di invecchiare, Elisabetta trascina
dall’inizio alla fine il peso di una cupa infelicità. Della
costrizione che sente è simbolo materiale il corsetto che si fa
stringere sempre di più; ma non c’è felicità neppure nelle sue
evasioni: le cavalcate, i continui viaggi-fuga, le goffe tentazioni
d’adulterio. Il film è la storia di una nevrosi: una depressione
insuperabile, che si esprime nell’anoressia, nella distanza ostile
dal marito Francesco Giuseppe (i cui celebri favoriti, apprendiamo,
sono posticci), nei propositi suicidi, ma anche in tocchi di crudeltà
oggettiva verso la figlia bambina, che tira giù dal letto per farla
cavalcare con lei in piena notte, o verso la dama di compagnia cui
impedisce di sposarsi (“Non se ne parla”) perché vuole tenerla
con sé. Più intelligente del marito, meno intelligente della
figlia, Elisabetta tormenta tutti e in primo luogo se stessa.
La
sceneggiatura, della regista, è un po’ ridondante ma anche un po’
incerta; si ha l’impressione che non riesca sempre a “fissare”
con precisione il personaggio. A volte Elisabetta sembra soffrire
principalmente del suo ruolo, di più della sua età, sebbene sia
vero che sono fattori che si rinforzano a vicenda. Fatto sta che già
14 giorni dopo le nozze la Elisabetta storica scrisse una (brutta)
poesia in cui lamenta di aver ceduto la libertà sulla strada della
vanità. Il film ha alcune cadute di tono (come un episodio inglese
in puro stile Lady Chatterley) ma in generale sa rendere la
condizione di “anima smarrita” di Elisabetta, con empatia ma
evitando in linea di massima di farne una didattica eroina
perseguitata “dal sistema”. L’idea migliore del film è che a
un certo punto Elisabetta incontra Louis Le Prince, uno degli
inventori del cinema (qui c’è un leggero scarto d’anni rispetto
al perfezionamento dell’invenzione), dal quale viene filmata; e in
film si permette quelle giravolte e sberleffi che non può fare nella
vita. Una bella riflessione sul cinema come produzione del doppio.
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