martedì 13 dicembre 2022

Il corsetto dell'imperatrice

Marie Kreutzer

Qualunque film in costume, si sa, ci dice più del periodo in cui è stato realizzato che di quello che vuole mostrare. Così la famosa trilogia di Sissi/Romy Schneider, con le evidenti libertà che si prende sul piano storico, non ci dice granché sull’epoca di Elisabetta d’Austria (anche se poi magari finisce per fondare la conoscenza di massa su questa base fragile) ma molto sull’Europa degli anni’50 che lo adorò: una “voglia di leggerezza”, un franco desiderio di romanticismo venato di nostalgia. Il cinema “imperiale” non è certo nato allora; ma quel successo parla chiaro.
Allo stesso modo, cancellata Romy Schneider, il passabile Il corsetto dell’imperatrice di Marie Kreutzer, che mostra tutt’altra versione di Elisabetta d’Austria (non la sentiamo mai chiamare Sissi) ben interpretata da Vicky Krieps (Il filo nascosto), ci dice molto sui nostri tempi: niente romanticismo, ancor meno nostalgia, e un mood fosco, quasi disperato. Nell’impossibilità a vivere di Elisabetta non si nasconde il cupio dissolvi del nostro declino occidentale?
Refrattaria ai doveri di imperatrice (esempio se ce n’è uno di persona che ha sbagliato mestiere!, come nel secolo seguente Lady Diana), abile a inscenare finti malori per sottrarsi agli impegni di rappresentanza, quarantenne sconvolta all’idea di invecchiare, Elisabetta trascina dall’inizio alla fine il peso di una cupa infelicità. Della costrizione che sente è simbolo materiale il corsetto che si fa stringere sempre di più; ma non c’è felicità neppure nelle sue evasioni: le cavalcate, i continui viaggi-fuga, le goffe tentazioni d’adulterio. Il film è la storia di una nevrosi: una depressione insuperabile, che si esprime nell’anoressia, nella distanza ostile dal marito Francesco Giuseppe (i cui celebri favoriti, apprendiamo, sono posticci), nei propositi suicidi, ma anche in tocchi di crudeltà oggettiva verso la figlia bambina, che tira giù dal letto per farla cavalcare con lei in piena notte, o verso la dama di compagnia cui impedisce di sposarsi (“Non se ne parla”) perché vuole tenerla con sé. Più intelligente del marito, meno intelligente della figlia, Elisabetta tormenta tutti e in primo luogo se stessa.
La sceneggiatura, della regista, è un po’ ridondante ma anche un po’ incerta; si ha l’impressione che non riesca sempre a “fissare” con precisione il personaggio. A volte Elisabetta sembra soffrire principalmente del suo ruolo, di più della sua età, sebbene sia vero che sono fattori che si rinforzano a vicenda. Fatto sta che già 14 giorni dopo le nozze la Elisabetta storica scrisse una (brutta) poesia in cui lamenta di aver ceduto la libertà sulla strada della vanità. Il film ha alcune cadute di tono (come un episodio inglese in puro stile Lady Chatterley) ma in generale sa rendere la condizione di “anima smarrita” di Elisabetta, con empatia ma evitando in linea di massima di farne una didattica eroina perseguitata “dal sistema”. L’idea migliore del film è che a un certo punto Elisabetta incontra Louis Le Prince, uno degli inventori del cinema (qui c’è un leggero scarto d’anni rispetto al perfezionamento dell’invenzione), dal quale viene filmata; e in film si permette quelle giravolte e sberleffi che non può fare nella vita. Una bella riflessione sul cinema come produzione del doppio.

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