venerdì 9 dicembre 2022

Monica

 Andrea Pallaoro

L’eccellente Monica di Andrea Pallaoro si apre con un primissimo piano frontale della protagonista, immobile, con un trucco irreale e lenti riflettenti, e l’ombra di un ambiguo sorriso: una Gioconda postmoderna. La metafora della pittura torna utile per parlare di questa coproduzione italo-americana girata in inglese negli States. Ha una narrazione “impressionistica”, a piccoli stacchi, come piccoli colpi di pennello; l'inquadratura stringe sulla protagonista, nel vecchio formato 4:3 che sta tornando di moda nel cinema d'autore.
L’anziana Eugenia sta morendo, assistita dalla famiglia del figlio Paul, da sua moglie Laura e dalla badante Leticia. Monica è l’altro figlio, che ha cambiato sesso, e che torna nella casa per aiutare la madre (da cui era stato rifiutato), senza rivelarle chi è. Lo spettatore impara a poco a poco le relazioni e la backstory (non è privo di importanza che la rottura, evocata nel dialogo, prendesse la forma di un rinnegamento della maternità). Il film apre altresì una storia parallela sulla vita amorosa e sessuale di Monica – notevole la scena di un disastroso blind date. L’intensità viene aumentata dalla perfetta interpretazione di Trace Lysette, attrice transgender nella vita reale.
S’intravede nel film la possibile influenza di autori come Cassavetes, Fassbinder, Jarmusch, P.T. Anderson – e sul fondo, lontana, l'ombra del grande Douglas Sirk. Quello che soprattutto caratterizza Monica è un ammirevole autocontrollo; in quest’opera intimista non c’è retorica; l’emozione è marcata (come è marcata la consistenza dei corpi) ma la narrazione è trattenuta; è un film del non detto, talché è lasciato a noi di giudicare se mai la madre comprenda chi è Monica veramente. C’è una “confessione” alla madre che dorme – ma poi un'inquadratura la vediamo con gli occhi semiaperti. Non sapremo mai quando Eugenia si è svegliata, quanto ha sentito; se le sue carezze a Monica siano gratitudine o riconoscimento. In realtà, rendere esplicito cosa sappia la madre non è necessario al risultato artistico. “Family comes first”, dice Eugenia, nella prima parte del film, a Paul che è in tensione con la moglie; i legami familiari vanno seguiti, nel corso lento e vischioso del tempo (gli Orologi molli di Dalì compaiono in un puzzle). La foto di famiglia alla fine è, come in Ozu, uno statement del tempo raggiunto e un’anticipazione dell’addio.
Film dell’affetto perduto e ritrovato, Monica proprio per la sua asciuttezza può permettersi la pregnanza del simbolo. Simboli di maternità, come la cagnetta che vedendo portare un suo cucciolo a Eugenia va a controllare che tutto vada bene; simboli della continuità familiare interrotta, come la piscina vuota in degrado, “lasciata andare” dopo la morte del padre; ed anche la commovente conclusione con l’inno nazionale cantato dal nipotino un uno spettacolo è un simbolo – quasi fordiano – del valore “fraterno” di una comunità ritrovata.

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