Andrea Pallaoro
L’eccellente
Monica di Andrea Pallaoro si apre con un primissimo piano frontale
della protagonista, immobile, con un trucco irreale e lenti
riflettenti, e l’ombra di un ambiguo sorriso: una Gioconda
postmoderna. La metafora della pittura torna utile per parlare di
questa coproduzione italo-americana girata in inglese negli States.
Ha una narrazione “impressionistica”, a piccoli stacchi, come
piccoli colpi di pennello; l'inquadratura stringe sulla protagonista,
nel vecchio formato 4:3 che sta tornando di moda nel cinema d'autore.
L’anziana
Eugenia sta morendo, assistita dalla famiglia del figlio Paul, da sua
moglie Laura e dalla badante Leticia. Monica è l’altro figlio, che
ha cambiato sesso, e che torna nella casa per aiutare la madre (da
cui era stato rifiutato), senza rivelarle chi è. Lo spettatore
impara a poco a poco le relazioni e la backstory (non è privo di
importanza che la rottura, evocata nel dialogo, prendesse la forma di
un rinnegamento della maternità). Il film apre altresì una storia
parallela sulla vita amorosa e sessuale di Monica – notevole
la scena di un disastroso blind date. L’intensità viene aumentata
dalla perfetta interpretazione di Trace Lysette, attrice transgender
nella vita reale.
S’intravede
nel film la possibile influenza di autori come Cassavetes,
Fassbinder, Jarmusch, P.T. Anderson – e sul fondo, lontana, l'ombra del
grande Douglas Sirk. Quello
che soprattutto caratterizza Monica è un ammirevole autocontrollo;
in quest’opera intimista non c’è retorica; l’emozione è
marcata (come è marcata la consistenza dei corpi) ma la narrazione è
trattenuta; è un film del non detto, talché è lasciato a noi di
giudicare se mai la madre comprenda chi è Monica veramente. C’è
una “confessione” alla madre che dorme – ma poi un'inquadratura
la vediamo con gli occhi semiaperti. Non sapremo mai quando Eugenia
si è svegliata, quanto ha sentito; se le sue carezze a Monica siano
gratitudine o riconoscimento. In realtà, rendere esplicito cosa
sappia la madre non è necessario al risultato artistico. “Family
comes first”, dice Eugenia, nella prima parte del film, a Paul che
è in tensione con la moglie; i legami familiari vanno seguiti, nel
corso lento e vischioso del tempo (gli Orologi molli di Dalì
compaiono in un puzzle). La foto di famiglia alla fine è, come in
Ozu, uno statement del tempo raggiunto e un’anticipazione
dell’addio.
Film
dell’affetto perduto e ritrovato, Monica proprio per la sua
asciuttezza può permettersi la pregnanza del simbolo. Simboli di
maternità, come la cagnetta che vedendo portare un suo cucciolo a
Eugenia va a controllare che tutto vada bene; simboli della
continuità familiare interrotta, come la piscina vuota in degrado,
“lasciata andare” dopo la morte del padre; ed anche la commovente
conclusione con l’inno nazionale cantato dal nipotino un uno
spettacolo è un simbolo – quasi fordiano – del valore “fraterno”
di una comunità ritrovata.
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