domenica 25 giugno 2017

La mummia

Alex Kurtzman

Per gli amanti dell’horror la Universal è un nome sacro al pari della Hammer. Sotto la sua bandiera Boris Karloff e Bela Lugosi, Lon Chaney jr. e John Carradine hanno dato vita a una parata di mostri che ha definito l'immagine archetipica del mostro cinematografico. Fra i quali la Mummia, Boris Karloff nel film omonimo di Karl Freund (1932): il sacerdote sacrilego sepolto da millenni che torna in vita e cerca di far propria la reincarnazione della principessa amata.
Ora sotto il marchio “Dark Universe” la Universal intende mettere a frutto la sua library di mostri con una nuova serie di film, aperta da La mummia di Alex Kurtzman, che si avvale di valori produttivi che la vecchia Universal si sarebbe sognata (proprio per questo gli incassi non sono riusciti a coprire i costi).
La cosa più interessante è il rovesciamento di sesso. La principessa Ahmanet (Sofia Boutella), furiosa per aver perso la successione al trono, cede l'anima a Set e uccide il faraone suo padre e il fratellino neonato; perciò viene sepolta viva, per essere inavvertitamente liberata nel presente come da canone. Da Boris Karloff in poi le mummie dell'horror erano sempre state di sesso maschile; a mia conoscenza la sola versione femminile della creatura è Valerie Leon in Blood from the Mummy's Tomb (1971), tratto però dal romanzo di Bram Stoker The Jewel of the Seven Stars (poi rifatto come Alla 39° eclisse). Conseguentemente, nel presente film Ahmanet cerca di attrarre a sé un amante maschio, lo scioperato Nick Morton (Tom Cruise) – benché non precisamente a scopo sentimentale.
La mummia di Kurtzman ha un eccellente inizio, e non solo perché qualsiasi inizio di film che comprenda Sofia Boutella nuda è eccellente per definizione. La narrazione è veloce e convinta, con vivaci toni erotici: vedi come il feticismo contemporaneo dei tatuaggi s'incarni nella bella malvagia, dalla schiena tatuata ai disegni che le appaiono magicamente su tutto il corpo quando si offre a Set.
Il film si riallaccia al passato mettendo in epigrafe la suggestiva preghiera (“In molte forme ritorneremo”) della Mummia del 1932. Ancora come riconoscimento dell'eredità filmica, nota l’inquadratura in dettaglio degli occhi angosciati di Ahmanet fra le bende quando viene mummificata viva (qui la citazione non è della Mummia Universal ma di quella Hammer del 1959, di Terence Fisher con Christopher Lee: gli occhi angosciati c'erano in entrambe le versioni ma il close-up è solo nel film di Fisher). Nel dialogo, l'aspetto più divertente è il recupero di battute classiche: “Benvenuto in un mondo nuovo di dei e di mostri” viene da The Bride of Frankenstein. Compare il dottor Jekyll (Russel Crowe), a capo della base segreta Prodigium che si batte contro il male (e allo spettatore italiano ricorderà immediatamente la base Altrove dei fumetti Bonelli), costretto a iniettarsi continuamente il suo filtro per non trasformarsi in Hyde; geniale il rovesciamento per cui la battuta del marchio del diavolo sul viso, che nel romanzo di Stevenson era detta da Utterson a Jekyll (in absentia) a proposto di Hyde, qui viene detta da Hyde a Jekyll (idem) a proposito di Nick Morton!
Il punto è che la nuova serie si basa su una torsione: uno spostamento dall’horror verso l’action, ossia un cinema d’azione esagerato e fantastico, fatto di gesta patentemente impossibili contrabbandate come atti di forza, con contorno di esplosioni apocalittiche (anzi, la sua immagine generatrice è proprio l’eroe che corre mentre l’esplosione si sviluppa alle sue spalle).
E infatti dopo le sequenze nell'antico Egitto appaiono Nick Morton e il suo sodale Veal, soldati in missione in Iraq nonché ladri di antichità, impegnati in un dialoghetto “divertente” con tutta la prevedibilità dell’action tipico. In seguito tutto lo svolgimento fra Tom Cruise e la coprotagonista Jenny (Annabelle Wallis) si muove su quel tono fra sentimentale e comedy adatto per l’action. Ciò non può stupire. Siccome la caratteristica costituente dell’action è la fanfaronnade, essa si sposa molto bene con un dialogo leggero – laddove invece le costituenti dell’horror sono il dramma lugubre e il mélo (e il dialogo leggero nell’horror può servire solo lateralmente, come comic relief). A meno di non essere un genio come John Landis, naturalmente; e lo scrivo perché l’invenzione peggiore in assoluto de La mummia è la figura dell’amico spettro-zombi che appare a più riprese al protagonista con un plagio goffo e spudorato di Un lupo mannaro americano a Londra (Universal pure quello, s'intende).
Di più: i mostri dell’horror fanno paura – o se preferite disagio – in quanto violazioni dell’ordine naturale/quotidiano. I mostri dell’action no, per quanto siano potenti o anche macabri: evidentemente perché tutto l’action si regge su una violazione dell’ordine naturale, una violazione amabilmente camp anche quando il tono generale è drammatico. L’action non mira alla paura bensì allo stupore. “E’ dell’action il fin la meraviglia”, canterebbe Giovan Battista Marino se vivesse oggi a Hollywood.
Ora, questa torsione dell’horror sull’action non è in sé un fenomeno negativo. Però andrebbe attentamente calibrata; come sempre è il risultato che conta; e il presente film non soddisfa. Nonostante le belle costruzioni scenografiche, e alcune trovate che sulla carta sembrerebbero inquietanti (la più riuscita è l'improvviso risveglio del cadavere di Nick Morton in obitorio), La mummia lascia un’impressione di mix alquanto sbilenco.
La sceneggiatura è assai diseguale come livello. La definizione dei personaggi esaurisce le sue pretese di originalità con Ahmanet; il dialogo mescola ai divertiti rovesciamenti sopra citati molte banalità stantie. A un certo punto vediamo che Jenny è a conoscenza di tutto il quadro, e si lancia in uno spiegone a Nick; pochi minuti dopo, quando Nick comincia a comportarsi stranamente (per influsso della mummia) lei non capisce niente (“Nick, ma che hai?”). Per una contraddizione simile si possono solo ipotizzare diverse stesure della sceneggiatura mal integrate.
L'elemento spettacolare non è male (la tempesta di sabbia su Londra, o i crociati zombi con le loro tombe sott'acqua – ombra di Amando de Ossorio!); ma per ritrovare quel substrato mitico che dava senso all'intera operazione dovremo aspettare la prossima volta. 

sabato 17 giugno 2017

Ritratto di famiglia con tempesta

Kore-eda Hirokazu



Shinoda Ryota (Abe Hiroshi) è un uomo irresponsabile. 15 anni fa ha vinto un premio letterario col suo primo e ultimo libro; ora tira avanti come detective privato squattrinato e gioca d’azzardo. Non ha mai digerito il divorzio dalla moglie Kyoko (Maki Yoko); è in arretrato con gli alimenti; vede il figlio bambino solo una volta al mese (ma secondo Kyoko sta solo giocando una volta al mese a fare il padre). In famiglia, mentre Ryota e la sua sorella maggiore si fanno una guerra sotterranea, la vecchia madre (Kirin Kiki) sogna che i due ex coniugi si rimettano insieme. La radio dice che sta arrivando un tifone. Ritratto di famiglia con tempesta (After the Storm).

Quando è uscito il bellissimo film di Kore-eda Hirokazu – come ogni volta che esce un film giapponese con tematiche familiari – è regolarmente saltato fuori a livello giornalistico il nome di Ozu. In realtà Kore-eda non è affatto un prosecutore di Ozu. Semmai, il regista al quale si può ricondurre la sua opera (com’è riconosciuto nelle sue interviste) non è Ozu Yasujiro bensì Naruse Mikio: il “quarto grande” del cinema giapponese classico con Ozu, Mizoguchi e Kurosawa, purtroppo assai meno conosciuto in Italia.
Basterebbe vedere come in Ozu il realismo psicologico dei comportamenti si sposa a un elemento di astrazione, del tutto assente nell’immediatezza di Kore-eda. Cosa ancora più importante, in Ozu esiste uno sviluppo drammaturgico: la situazione “si carica” lentamente fino a raggiungere uno o più punti di crisi, dai quali procede lo sviluppo ulteriore o la conclusione. Invece nel cinema di Kore-eda – come in vari film della maturità di Naruse – lo sviluppo del racconto tendenzialmente non procede per punti di crisi ma si immerge tutto nel quieto fluire del tempo. Il “salto di qualità” senza il quale non si avrebbe un racconto è legato più al momento che al fatto, e cioè più al pesare del tempo e della vita quotidiana nel suo flusso che ad azioni o accadimenti dirompenti. Un lento agire dei personaggi, un accumulo di fatti quotidiani; basta pensare, tra i suoi film recenti, al magnifico Little Sister. In altre parole, in molte opere (evidentemente non in Nobody Knows, peraltro basato su un fatto di cronaca, né in Father and Son) Kore-eda, sulla scia di Naruse, elide parzialmente o totalmente l’elemento drammaturgico (preparazione della crisi/esplosione/dopo crisi) per concentrarsi in un “nocciolo di tempo” che risulta addirittura solenne.  

E infatti: in Ritratto di famiglia con tempesta c’è un tifone, ma esso non si pone come evento operatore di una svolta drammatica, bensì come occasione, momento in cui si incrina una lunga accumulazione cristallizzata di momenti precedenti; e s’incrina, potremmo dire, non in base a un fatto esterno ma sotto il peso del tempo stesso. Ovviamente influisce la circostanza specifica di essere riuniti tutti sotto lo stesso tetto per una notte – ma è una sorta di catalizzatore.
Il valore metaforico del tifone è evidente; non però come distruzione estrema che preannuncia una ricostruzione. Dice Kore-eda in un’interessante intervista recente a Chiara Ugolini (Repubblica TV): dopo il tifone, erbe e fiori stanno meglio. Se ne fa portavoce nel film la nonna quando dice che i tifoni le piacciono perché rinfrescano (“fanno piazza pulita” nella versione italiana). Si potrebbe dire che nel film esiste un concurrere fra il tempo atmosferico e il tempo esistenziale dei personaggi.
Kore-eda è tutto meno che un regista dell’incomunicabilità, però è acutamente conscio di come noi tendiamo a vedere una data faccia negli altri, ed essa è determinata dalla nostra mistura di emozioni/desideri/frustrazioni/ricordi, alla quale non rinunciamo come modo di rapportarci al mondo. E nel tempo la dimensione della durata minaccia di fissare le percezioni, appunto a causa di quella presenza emotiva con cui ci rapportiamo all’altro.
Al centro del film c’è la percezione dolorosa del tempo passato, e di come il tempo modelli le vite in modo totalmente diverso dai progetti e dai sogni. Il passato pesa sui personaggi; quello che manca loro, in particolare al protagonista Ryota, è quell’atteggiamento di consapevolezza nei confronti della vita che Kore-eda nell’intervista citata chiama “allungare gli arti”. Ritratto è un film costellato di riflessioni sull’amore (riflessioni in cui le donne sono molto più sagge degli uomini). Vale la pena di osservare che in uno di questi dialoghi sull’amore – in cui sentiamo che la maggior parte della gente non lo prova mai ma è un bene per loro – è impressionante la coincidenza ideale con Bergman.
Alla fine del film i protagonisti si trovano after the storm. La tempesta ha ripulito l’aria e molte incrostazioni sono cadute. La conclusione è aperta – difficile immaginare se questa famiglia separata si riunirà o se i protagonisti continueranno per la loro strada – ma hanno raggiunto una nuova comprensione, quell’accettazione dell’esistente che sola permette di crescere. Assai bene ha fatto la casa di distribuzione, la Tucker Film, a sottotitolare la canzone che si sente nei titoli di coda, la quale esprime in modo assai chiaro quest’ambiguità.

A tutto questo si collega il tema, centrale in Kore-eda e centrale in Ritratto, del lutto. Poiché accade nella vita che la comunicazione venga interrotta, accade anche che questa frattura venga resa irreparabile dalla morte. Come in Still Walking, un film del 2008 che ha tali somiglianze con Ritratto da poterne essere considerato il gemello (ed è sempre interpretato da Abe Hiroshi, nel ruolo di un personaggio di nome Ryota, e Kirin Kiki nel ruolo della madre), alla base del racconto c’è il dolore, la difficoltà di elaborarlo, di relazionarsi agli esseri umani con questo peso, l’impossibilità di annodare fili spezzati, emozioni lacerate e non ricomposte (fantasie sul ritorno dei morti, magari in forma di farfalla, ritornano nel cinema di Kore-eda).
Rimane la dimensione del ricordo, che per Kore-eda è qualcosa di dannatamente importante (in After Life, un bizzarro e affascinante film sull’aldilà che è l’opera seconda di Kore-eda, i morti hanno diritto a portarsi con sé un ricordo solo). Nota che al ricordo si connettono le scene di preparazione e consumo del cibo che costellano i suoi film (anche Ritratto), rito familiare e sociale: in Kore-eda il cibo è una categoria dell’esistenza come il bere per Ozu. Il passato ha colori che nella memoria sono più intensi (i fiori dell’albero di Still Walking!) – ma è irrevocabile, non si lascia ricondurre al nostro cambiamento e ai nostri pentimenti. Sebbene possa accadere, come nel presente film, il miracolo di una scoperta che anni dopo la morte ridefinisce la percezione del defunto.

Ritratto di famiglia con tempesta è un film carsico. Sotto la distesa e a tratti ironica descrizione della quotidianità, la prima storia sottesa riguarda il rapporto sia della madre sia dei figli col padre morto; la seconda racconta il rapporto di Ryota con la moglie quand’erano sposati. Sono legate, le due storie, dalla somiglianza di carattere – quasi un’identità – fra il padre e Ryota: cosa che tutti non si stancano di sottolineare, e non certo per fargli un complimento; mentre quest’identità avviluppa Ryota, che più lotta contro di essa più ci ricade.
Il film è percorso da un umorismo delicato, che esplode in gustosi tocchi di comedy nelle scene riguardanti il (disonesto) lavoro di Ryota in un’agenzia di investigatori privati (il saggio boss è interpretato da quel grande caratterista giapponese che è Lily Franky). Ma anche nelle scene in cui Ryota col suo collaboratore Machida sorveglia l’ex moglie e il suo nuovo fidanzato con le sue tecniche di detective privato il cortocircuito vita-lavoro produce un effetto comico, non aspro (Kore-eda non è mai aspro) ma venato di un divertimento agrodolce.
In una scena sublime, nel bel mezzo di un litigio Ryota e sua sorella si mettono a ridere ricordando i trucchi della madre per nascondere i risparmi al padre giocatore, ed è un improvviso momento di fraternità. Il “flauto magico” di Kore-eda è la fluente assoluta autenticità del suo narrare. Quest’uomo geniale ci immette al centro delle vite dei suoi personaggi come se fossimo un familiare che è sempre stato lì; e ammiriamo con un’intima comprensione i piccoli schemi e le piccole cattiverie delle guerre familiari, le evoluzioni e la persistenza degli affetti, tutti i dolori e le gioie della realtà quotidiana. Un’avventura sotto la pioggia diventa emozionante come una spedizione antartica!

domenica 11 giugno 2017

Sieranevada

Cristi Puiu



In Romania il parastas è il rito funebre cristiano ortodosso, che vediamo in Sieranevada di Cristi Puiu. Su questo rito la famiglia del film innesta una tradizione valacca: a quaranta giorni dalla morte – a sancire la fine del periodo traumatico della perdita e il momento del “congedo” – il più giovane della famiglia indossa un vestito simbolicamente appartenente al morto (anche se comprato apposta) e benedetto dal pope; si siede al banchetto funebre accolto con solenni espressioni di benvenuto; è insieme il rappresentante del defunto e, come se stesso, il pegno della continuità.
Nel superbo film di Puiu, una sorta di acida commedia drammatica che dura quasi tre ore (ma passano come un lampo), il defunto è il capofamiglia Emil, e la madre, le zie, i figli, i generi e le nuore, i nipoti si riuniscono per il rito e per il pranzo. Il protagonista, il barbuto e quieto Lary, uno dei figli, va alla riunione familiare con la sua nervosa moglie. Ma questo pranzo solenne è atteso e rimandato per tutto il film. In primo luogo, il pope non arriva mai, e nell’attesa di questo prete-Godot si sviluppa il nervosismo (e anche la fame, come ben sa chi si sia trovato in situazioni simili). Poi il vestito per il giovane è grottescamente sbagliato di misura, e va aggiustato. Sul tutto si abbatte un vortice di litigi, recriminazioni, isterismo e pianti. Non aiutano, anzi!, un paio di intromissioni: il marito prepotente e cornificatore di una delle zie, che piomba in casa (esilarante quando la rabbia spinge la moglie a un linguaggio che scandalizza tutti), e una straniera sconosciuta, ubriaca fradicia o drogata, che viene portata dalla nipote più squinternata e rimane come un cadavere vivente in una camera, inondandola regolarmente di vomito. Il caos familiare si sviluppa a velocità incredibile: è la vita accelerata, come una comica muta proiettata al passo sbagliato d’un tempo. Tutti i personaggi sono concreti come se stessero per uscire dallo schermo – e ciascuno a suo modo non manca di far risuonare nello spettatore ricordi di conoscenza o di parentela.
Questo nervosismo familiare va in scena nell’appartamento della madre, affollatissimo, nel quale si svolge quasi per intero il film. Qui Cristi Puiu mette in atto una magnifica organizzazione “aperta” dello spazio. I piani sequenza sono attraversati dai movimenti di una mdp nervosa e vagante che segue gli spostamenti dei personaggi (col protagonista come filo conduttore) realizzando coi suoi salti di interesse una sorta di teatro mobile; mentre aperture di porte, chiusure e sbattimenti delle stesse modificano lo spazio in un modo che farebbe quasi pensare agli shoji del cinema giapponese.
Il senso di affollamento è enunciato già nella sequenza pre-titoli – che si svolge all’aperto! Ma l’inquadratura stretta, l’ammassamento di auto, la presenza non casuale di uno scavo di lavori in corso col suo ovvio effetto sull’intasamento del traffico, tutto ciò crea un senso di chiusura soffocante, ampliato nella sequenza da una prevalenza stridula e aggressiva dei rumori urbani, che arrivano a coprire e soffocare le battute di dialogo. Chiusura, confusione, rumore. E' un paese coi nervi tesi – sia per la strada (l’incidente del parcheggio, nella seconda e ultima scena all’esterno) sia in questa grande famiglia, che del paese rappresenta il rispecchiamento come microcosmo. Tutti coi nervi tesi, anche l’apparentemente calmo protagonista: anzi, la prima esplosione di rabbia è sua.
Nella scena d’apertura sopra citata è particolarmente importante l’elemento (tutt’altro che solo scenografico) dei lavori in  corso. Nella Romania di Sieranevada vediamo un paese in ristrutturazione – ma questo, che in un altro panorama simbolico potrebbe alludere a un miglioramento o a una sorta di soluzione, qui somiglia piuttosto a un moto perpetuo. L’incompiutezza – la stasi – è il senso stesso del film.
Ciò vale in particolare per il rito che dovrebbe accompagnare al paradiso l’anima del morto Emil. Perché qui parliamo né più né meno di elaborazione del lutto. Ma nella Romania di Cristi Puiu il lutto non viene elaborato; il passato non passa, rimane come un groppo in gola, o un bolo di cibo che non si riesce né a respingere né a mandar giù. Vale per tutti gli articolati livelli del film. Vale per la memoria storica del comunismo, da Ana Pauker a Ceausescu, che innesta furibondi litigi fra la vecchia zia Evelina, ex attivista, ancora comunista convinta, e la giovane nipote Sandra, anticomunista e religiosissima (nonché antisemita). Vale a livello più personale per i litigi gli scontri i tradimenti e le verità non dette di questa grande famiglia.
Parliamo di un blocco e di una stasi, ed ecco allora il punto centrale: proprio il rito, la comparsa al banchetto del figlio più giovane nell’abito del morto, quello che dovrebbe sancire definitivamente la dipartita di Emil e così segnare un rinnovamento – un punto da cui ripartire – viene preparato lungo tutto il film ma non viene effettuato. Ovvero: continuamente atteso e interrotto, viene effettuato alla fine in forme ridicole e autoparodistiche (vedi l’incidente del vestito della misura sbagliata, ma soprattutto lo scambio di battute finali).
La critica ha citato giustamente Beckett e Buñuel; a questi nomi indubitabili mi sentirei di aggiungere il Tati di Play Time; ma soprattutto mi sembra giusto richiamare quell’elemento allegorico presente con forza sotto il realismo della messa in scena nelle varie nouvelles vagues est-europee (vedi per esempio La festa e gli invitati di Jan Nemec).
Non per nulla un dibattito attraversa tutto il film: il concetto di verità, che Cristi Puiu materializza ironicamente nelle scemenze cospirazioniste post-11 Settembre, ma che va al di là, dando al film la sua forma filosofica generale. Ovviamente questo non è direttamente legato alla temperie politica dell’Est europeo, ma non è inutile ricordare che il comunismo portò una vera guerra al concetto stesso di verità (Nel paese della grande menzogna è il titolo rivelatore di un vecchio libro di Ante Ciliga sull’URSS staliniana).
Di fronte al blocco politico ed esistenziale che non passa, che stende nascostamente la sua angoscia su tutto, come può porsi il protagonista? Il prete ortodosso del film accenna, ma solo per liquidarla come tentazione diabolica, all’ipotesi che l’umanità sia perduta (in termini cristiani: che il secondo avvento di Gesù sia già avvenuto e nessuno se ne sia accorto). Il laico Lary (dettaglio interessante, un medico che ha lasciato la medicina) coi suoi fratelli dà una risposta diversa. Alla fine del film il pranzo è servito – ma per l’ennesima volta è interrotto. Però Lary e suo fratello, raggiunti subito dal nipote che rappresenta il defunto, rifiutano di alzarsi da tavola per l’ultimo inconveniente – e ridono.
Forse ridere è l’unica risposta possibile alla disperante confusione del paese, o del vivere.

venerdì 2 giugno 2017

Pirati dei Caraibi - La vendetta di Salazar

Joachim Rønning & Espen Sandberg



Il Jolly Roger, la bandiera nera dei pirati, sventola sul castello fatato del logo della Disney, nella penombra della sera: uno degli esempi più divertenti dell’usanza invalsa nel cinema d’oggi (non priva però di esempi anteriori) per cui il logo delle case di produzione si trasforma in un’anticipazione del film; e il film è Pirati dei Caraibi – La maledizione di Salazar, di Joachim Rønning ed Espen Sandberg, quinto episodio della bellissima saga.
Dopo la trilogia iniziale di Gore Verbinski la serie è passata in mano ad altri registi, prima Rob Marshall e ora il duo scandinavo; si può osservare che l’episodio di Marshall (Oltre i confini del mare) era un po’ “laterale” sul piano dei personaggi, mentre il presente film è una vera rentrée. Non è un grande spoiler se scrivo che per vie traverse ritornano Will Turner (Orlando Bloom) ed Elizabeth Swann (Keira Knightley), assenti nel quarto film, e la maledizione che li tiene lontani si risolve. Si può osservare per inciso che la loro separazione ventennale nel corso della serie porta in primo piano quella malinconia che attraversa tutta la saga sotto le sue fanfaronnades: in questo senso, e fatta salva ovviamente la differenza a livello artistico, Pirati dei Caraibi è un ciclo perfettamente ariostesco.
Pur con il dovuto omaggio a Javier Bardem (Salazar), che è un grande anche quando la CGI lo trasforma in un morto vivente, il migliore in campo resta Geoffrey Rush, un Capitan Barbossa delizioso e in parte inedito. L’enfasi sui figli ne La vendetta di Salazar sembra rappresentare anche un passaggio generazionale, benché non confermato sul puro piano del plot. Gli eroi sono stanchi.
Meno romanticismo e più buffoneria è la scelta della sceneggiatura di Jeff Nathanson, basata su una storia sua e di Terry Rossio (scompare con questo episodio la collaborazione Ted Elliot-Terry Rossio, sceneggiatori dei primi film). Sono gustosissime la sequenza iniziale della “banca in fuga” (contenente un riferimento forse non casuale a Corsari di Renny Harlin) e ancor più la folle sequenza su Jack Sparrow e la ghigliottina. Va sottolineato come il film metta in atto una vera e propria diminutio della figura di Jack Sparrow. Nonostante la grande apparizione iniziale, lo vediamo in rovina: praticamente alcolizzato, abbandonato dalla sua ciurma (che gli rimprovera di aver perso la sua proverbiale fortuna), ridotto a una mummia di fango dopo essere cascato, ubriaco, in un porcile – e nella stessa scena disposto a barattare la famosa bussola dei desideri per una misera bottiglia. Segue una risalita, certo, ma Jack Sparrow non torna mai pienamente ad essere il più flamboyant dei pirati quale lo conoscevamo. Sarebbe interessante chiedersi se e quanto c’entri la condizione di declino espressa nel racconto, ma Johnny Depp – che pure, si sa, ama il personaggio – lo interpreta stavolta un po’ stancamente. Si potrebbe dire paradossalmente che il momento più eroico di Sparrow nel film è quello senza Depp: intendo la bella pagina delle “origini” di Jack Sparrow, ragazzo giovanissimo, che vediamo in flashback. I tributi che la ciurma gli offre dopo la vittoria, per cui vediamo nascere l’immagine grafica del personaggio, hanno una solennità particolare, rappresentando la sua vestizione – qualcosa che nell’epica data fin dalle armi di Achille.
Pur coi nuovi registi e sceneggiatori, La vendetta di Salazar si inserisce bene nella serie. Il dialogo è sempre spiritoso, con la confusione verbale dei pirati sul ruolo di Carina Smyth (Katya Scodellaro, new entry accanto a Brenton Thwaites) che produce passaggi di buona comedy; e con piacere vediamo ritornare, benché non così frequenti, quei fiori di retorica piratesca che caratterizzano il genere (“Congrega di codardi inutili e perniciosi!”). Il ritmo è veloce e (quasi inutile dirlo) il film rappresenta un esempio di ottima action, come tutto il  ciclo – che è una vera saga del doppio gioco sul piano umano e del rovesciamento sul piano fisico; non per nulla un suo punto ricorrente è l’inversione fra la terraferma e il fondo del mare. Anche su quello metafisico, peraltro: in Pirati dei Caraibi né la morte né la dannazione sono definitive. Anzi, fanno da carburante per la serie mettendo in atto il suo lato horror. Molto bella qui la nave fantasma di Salazar, annunciata da uno stormo di gabbiani decomposti (e provvista di squali-zombie da usare come arma!); il modo in cui attacca le navi nemiche torreggiando sopra di esse e “inghiottendole” è quasi impressionante.
Infine, con tutto il suo mix di action e comicità, non manca nel presente film (ma qui non posso dilungarmi perché rappresenterebbe davvero un grosso spoiler) un imprevisto tocco finale di profondità e sacrificio.
In una serie è pressoché inevitabile un calo nel corso degli episodi (solo Star Wars riesce a cambiare pelle e rinascere come un serpente!) ma il quinto Pirati dei Caraibi tiene alta la bandiera del ciclo. Il sesto, già in preparazione, potrebbe essere l’ultimo, almeno per quanto riguarda l’attuale set di personaggi – ma già lo aspettiamo con fiducia. “Tremate, patetici ratti di sentina!” (cit.).