martedì 24 gennaio 2012

Shame

Steve McQueen

Cosa ha mosso Guy Ritchie per fargli inventare uno Sherlock Holmes giovane e atletico, che non dice “Elementare, Watson” e non porta la mantellina scozzese né il berretto da caccia? Beh, voleva guadagnare molti dollari, ovviamente; ma per farlo voleva evitare il luogo comune.
D'altro canto, il luogo comune non va demonizzato. Ci sono molti buoni film (solitamente di genere) che sono una vera sfilata di luoghi comuni, talché lo spettatore ha modo di salutare ogni figura e ogni sviluppo come se rivedesse un vecchio amico. E tuttavia, se si possono definire buoni film, a redimere la mancanza di originalità compaiono altre qualità positive: una nettezza di esecuzione, o un'intensità di sentimento, o magari una dose di tongue-in-cheek, o all'opposto una stilizzazione estenuata.
Niente di tutto questo si applica al film più sopravvalutato dell'anno, “Shame”, diretto da Steve McQueen e scritto dal regista con Abi Morgan. Qui Brandon (Michael Fassbender), una specie di yuppie d'oggigiorno, è sex crazy, ovvero, più brutalmente, vive per scopare. Perfino mentre cena da solo con una birra e una triste confezione del takeaway cinese guarda video porno sul computer. E' un anempatico (la sorella con tendenze suicide, ben interpretata da Carey Mulligan, tenta ancora una volta il gran salto per colpa sua) e tutta la sua vita è un surfeggiare sull'onda dell'infelicità - fino al crollo. Ma poi riprenderà malinconicamente a correr dietro alle donne.
“Shame” inanella come tappe di questa grigia odissea tutti i luoghi comuni che si possono indovinare: la sua ricercatezza programmatica e arty si stempera nella banalità di uno svolgimento che ha la stessa monotona prevedibilità delle fermate dell'autobus che prendiamo ogni mattina per andare al lavoro. Un film strutturalmente traballante, con personaggi che scompaiono, fili lasciati sospesi (ma a un certo punto Brandon perde il lavoro?), e soprattutto con tutti i simbolismi “significanti” del caso; mai un atomo di deviazione dalla ricetta; manca solo il calcio al barattolo dei vecchi film italiani post-neorealisti. Finale col classico pianto sotto la pioggia: invero persino il vecchio “9 settimane e 1/2”, un film meno lontano da questo di quanto si potrebbe pensare, sapeva organizzare la sua materia in modo più originale.
Parlando di mania sessuale compulsiva (satiriasi), uno si aspetterebbe chissà cosa. Qui (tremate!) il protagonista, dopo aver provocato uno più grosso di lui corteggiando pesantemente la sua donna e aver preso un fracco di botte, a) va in un centro di incontri omosessuali e si fa fare un pompino, b) va a letto con due donne contemporaneamente. A questo punto i buoni cittadini dello Iowa sono convinti di aver visto Sodoma e Gomorra sullo schermo; gli italiani, piuttosto, stanno pensando “Beato lui” (o: “Ma questo mangia pane e Cialis?”). Il bellissimo commento musicale di Harry Escott intende drammatizzare, non nel senso della suspense, alla Bernard Herrmann, ma nel senso di un'ondata ampia e tragica di pietà esistenziale: hélas, la douleur humaine! Solo che, applicandolo alle scene di questo film (per esempio all'inizio in metrò, quando Brandon occhieggia una bionda, o verso la fine, nella scena del sesso a tre), la sproporzione fra scopo e occasione è così ciclopica che non solo il film sprofonda ancora di più nell'abisso della falsità ma trascina con sé la partitura musicale, incolpevole ostaggio.
Un effetto simile si ha per il molto volonteroso Michael Fassbender, che per incarnare questo dannato gira di qua e di là con aria depressa, e vorrebbe avere un'espressione alla Jeremy Irons; non è colpa sua se ricorda piuttosto Franco Franchi che fa la parodia di Marlon Brando in “Ultimo tango a Zagarol”. Il moralismo americano (un paese fondato dai puritani cacciati a pedate dall'Inghilterra) dice: lui fa cose cattive quindi è cattivo quindi è infelice. In realtà, quale emerge dal film, Brandon non è un uomo che si annulla in una spirale perversa: è, più semplicemente, un pirla. Fatto sta che “Shame” (fin dal titolo) vorrebbe illustrarci la prima proposizione mentre quella che appare sullo schermo è la seconda. Il protagonista resterebbe un pirla anche se invece del sesso avesse la mania dei francobolli.
Il problema è che Steve McQueen e Abi Morgan vedono poco cinema. Se fossero andati di più in cineteca, o in videoteca, avrebbero potuto trarre giovamento da vari film: per esempio, “Il cattivo tenente” di Abel Ferrara, che dice esattamente tutto quello che “Shame” vorrebbe e non riesce a dire; magari “Shortbus” di John Cameron Mitchell, che mostra come sulla sessualità si possa andare al di là della loro immaginazione da boy scout; poi, perché no, il citato “9 settimane e 1/2” di Adrian Lyne; forse il “Don Giovanni” di Losey, a proposito di ossessione; e qualsiasi Eastwood per imparare come si scrive e si dirige con efficacia.
Ma non c'è proprio niente da salvare in “Shame”? Vorrei indicare tre scene: in primo luogo, una bellissima versione di “New York, New York” cantata da Carey Mulligan che è il passaggio migliore del film (saggiamente è stata inserita anche nel trailer); in secondo luogo, quando Nicole Beharie si spoglia; in terzo luogo, la scena in cui Brandon viene picchiato a sangue, con legittima soddisfazione dello spettatore - se non fosse che è brevissima e anodina, il che guasta quel momento di autentico piacere.

sabato 14 gennaio 2012

J. Edgar

Clint Eastwood

In altre occasioni chi scrive ha spesso paragonato Clint Eastwood a Howard Hawks. Ma vedendo lo sconvolgente “J. Edgar” (la biografia di J. Edgar Hoover, padre padrone del FBI) un altro nome sale con prepotenza alla memoria: ed è, naturalmente, Orson Welles. Davvero “J. Edgar” è il “Citizen Kane” di Eastwood. Non solo per aspetti esteriori, come il lavoro di invecchiamento del protagonista Leonardo Di Caprio, o discorsivi, come i raffinati salti temporali del racconto. Lo è per il suo ritratto shakespeariano di un uomo bigger than life, di fronte al quale - nonostante il film dipinga impietosamente le sue debolezze e il suo tracollo finale - la nostra distanza morale non riesce a tradursi in disprezzo, perché rimane in lui qualcosa di gigantesco e invalicabile; appunto come il Citizen Kane di “Quarto potere”, come Mr. Arkadin, come Quinlan, come tutti i protagonisti wellesiani.
“J. Edgar” non è una storia sociale dell'America, anche se questa emerge con nettezza (e amarezza) dallo sfondo. E' una storia personale di ossessione, di amore omosessuale e di sconfitta. La storia di un maniaco del controllo che tuttavia fallisce anche su questo piano: la sua eterna segretaria Miss Gandy (Naomi Watts) lo trova in lacrime dopo che il nuovo Presidente - un demoniaco Richard Nixon - lo ha messo all'angolo progettando di portagli via la sua macchina informativa per usarla in proprio. Di lì a poco Hoover muore.
Eastwood, sulla scorta di una splendida sceneggiatura di Dustin Lance Black, traccia di Hoover un potente ritratto in cui i piccoli episodi parlano a voce più alta dei grandi fatti storici. Tutti sappiamo che Hoover usava il suo archivio segreto per ricattare i Presidenti, da Roosevelt a Kennedy (vantandosi: “Il Presidente degli Stati Uniti ha paura!”). Ma è più indicativa la scena alla Biblioteca del Congresso, per la quale Hoover ha inventato un sistema di classificazione - e dai libri passa all'ipotesi di schedare tutti gli americani con le impronte digitali. Hoover non nasce poliziotto, nasce catalogatore (“L'informazione è potere”). Un egomaniaco che si identifica totalmente con la sua creatura, lo FBI, e non è mai sfiorato dal dubbio che possa esserci una differenza tra il bene pubblico e il bene del Bureau. Se gli eroi eastwoodiani sono caratterizzati dall'indomabilità e dalla solitudine, J. Edgar Hoover declina la prima di queste caratteristiche nel senso della nevrosi del controllo, e la seconda come prigione in cui si è rinchiuso da solo.
C'è anche un altro momento rivelatore nella scena della Biblioteca. Hoover chiede inopinatamente a Miss Mandy, appena conosciuta, di sposarlo; al suo rifiuto, le offre il posto di sua segretaria (Eastwood racconta anche questo sviluppo come una storia d'amore: lei si commuove). Oltre a essere rappresentativa di una certa vena di follia che attraversa il film, questa sequenza è un'anticipazione del rapporto omosessuale sotterraneo che legherà per tutta la vita Hoover e il suo braccio destro Clyde Tolson (un eccezionale Armie Hammer), con cui è stato amore a prima vista. E' un esempio da manuale di spostamento e sublimazione: Hoover, cui è impedito da se stesso prima che dalla morale del tempo di avere un rapporto d'amore con un uomo, sostituisce all'amore la collaborazione lavorativa. I due attraversano il film come una coppia di amanti senza esserlo.
Col che siamo giunti a parlare al punto centrale del film. Eastwood con “J. Edgar” ha realizzato forse il più bel film d'amore omosessuale della storia di Hollywood (l'orrido “Brokeback Mountain” è già dimenticato). Tutto è trasposto, tutto accennato (gli sguardi d'amore che si scambiano Di Caprio e Hammer sono indimenticabili) - salvo esplodere in un lancinante momento di verità quale la rissa nella suite dell'hotel. Essendo un grande regista classico, Eastwood è al suo meglio nel descrivere l'impalpabile verità dei gesti e delle cose: la mano di Hoover che si posa su quella di Tolson nel taxi e lo sguardo inquieto che dal sedile anteriore rivolge loro la madre di Hoover (Judi Dench) che comprende e condanna.
Perché tutta la psiche di Hoover ruota intorno alla figura di questa madre dominante e colpevolizzante (basta pensare al suo commento sull'assassinio del piccolo Lindbergh), in un rapporto che assume tratti quasi incestuosi. Dopo la morte della madre lui si mette i vestiti di lei e si parla allo specchio come se fosse lei - quasi una lontana eco del Norman Bates di “Psycho”.
Il film si basa su una elegantissima intersecazione di piani temporali, con grandi soluzioni di montaggio (Hoover e Tolson che entrano nell'ascensore da vecchi e ne emergono da giovani; un'analoga fusione di due epoche diverse alle corse dei cavalli). Questa intersecazione non è solo narrativa ma rispecchia l'eterno presente di J. Edgar Hoover; fin da quando appare giovanissimo in bicicletta nel 1919 fino al momento della sua morte, non c'è cambiamento se non fisico in lui. Se di solito una biografia è anche un Bildungsroman, questa non lo è perché non c'è alcuna Bildung: Hoover sembra uscito immutabile dal grembo di sua madre (vediamo solo una brevissima scena con lui bambino e la madre che lo istruisce - lo costruisce - e basta).
Eastwood racconta questa dolorosa biografia americana con uno stile intenso e severo. Sappiano che nel cinema alto e virile di Eastwood tutti gli uomini in ultima analisi sono sconfitti, perché sono battuti dal grande vincitore che è la morte. Per questo l'importante è come si è vissuto; ecco ciò che fonda il grande tema eastwoodiano: la responsabilità.
Proprio per questo il film è spietato nel delineare le scelte immorali del protagonista (per dirne una sola, la falsa lettera a Martin Luther King che scandalizza Miss Mandy), la sua insicurezza che si rovescia in aggressività (vede un tradimento personale in qualsiasi opinione critica), la sua piccineria: vuol essere al centro dell'attenzione, è invidioso del successo dei suoi sottoposti, come l'agente Purvis che uccise Dillinger, modifica la realtà quando detta la sua storia (Eastwood lo segue mostrandoci la versione soggettiva per poi rivelarne la falsità alla fine). E tuttavia questo personaggio attinge una cupa grandezza. Nella mirabile conclusione Tolson, subito dopo la morte di Hoover, rilegge pensando a lui una lettera d'amore scritta a Eleanor Roosevelt dalla sua amante. Hoover l'aveva usata per ricattare il Presidente; con un completo rovesciamento di prospettiva, diventa un'elegia per lui. Nella guerra vittoriosa del tempo contro gli uomini, l'amore è quello che resta.