Quello di Marco Bellocchio
è un cinema di pulsioni, di rottura del possibile, di riconoscimento della
contraddizione, di spregio della costrizione narrativa – di incontro fra
la completezza della forma, in Bellocchio sempre bellissima, e la dimensione
mutevole del racconto, in accordo con la mutevolezza della realtà dello
spirito. Offre storie aperte dove si spalancano pieghe vertiginose di
possibilità, dove la contraddizione delinea una forma cinema che rifiuta la
dimensione rassicurante del film “sferico” e conseguente. Il magnifico Sangue
del mio sangue si prende la libertà di giustapporre un dramma gotico
seicentesco e una satira novecentesca, rovesciando l’uno nell’altra, secondo
due forme del potere e contestualmente due approcci narrativi. Gioca con l'unità
di luogo – la località bellocchiana di Bobbio, e in particolare nel film il
convento – e con un personaggio centrale che realizza una sorta di
reincarnazione cinematografica, o ereditarietà.
Nel 2010 Bellocchio aveva
girato un cortometraggio inedito dal titolo La monaca di Bobbio, sul
tema diderottiano e soprattutto manzoniano di una nobildonna seicentesca
costretta a farsi monaca che infine finiva in carcere. Il suo progetto era di
sviluppare il racconto con altri episodi; e in questo progetto il cui titolo
doveva essere Lacrime era già
contenuto lo sconvolgente finale di Sangue del mio sangue (cfr. Marco Bellocchio. L’inquietudine di
un sogno, a cura di Denis Brotto e Farah Polato, Udine-Pordenone 2012). Bellocchio
è indubbiamente un autore barocco - lo sfasamento prospettico, l'ambiguità come
progetto estetico, la “perdita del centro” - e ciò lo avvicina naturalmente al
secolo XVII. Ma merita ricordare che il giovanissimo Bellocchio fu molto colpito
dalla visione de I promessi sposi di Camerini (un film, questo, che
evidenzia le sfumature gotiche già presenti in Manzoni) e si direbbe che ciò gli
ha lasciato un segno indelebile; a parte l’inedita Monaca, Manzoni (e anche il gotico) si vede fortemente ne Il
regista di matrimoni; ma il Seicento si direbbe consustanziale al suo
cinema; non penso solo a La visione del sabba ma già a un film del 1972,
ambientato negli anni ’50 ma profondamente barocco, pieno di imagerie controriformista
e di meraviglia seicentesca: Nel
nome del padre.
Un tema centrale del
cinema di Bellocchio è l'opposizione fra ordine e disordine. L’ordine, la legge
del potere, o se preferiamo la
Legge del Padre, che va dall'istituzione familiare
all'istituzione totale; qui, il potere della Chiesa di cui il convento seicentesco
è una cellula. Il disordine, rappresentato dal sogno, dalla ribellione, dalla bestemmia,
dal desiderio, dall'irruzione dell'inconscio; e ne è portatore privilegiato l'elemento
femminile, spesso assumendo la figura della strega e della pazza - da La visione
del sabba a Vincere, per
citare due titoli assai noti.
In Sangue del mio
sangue - nella prima parte la
fotografia di Daniele Ciprì è pura pittura seicentesca - la monaca Benedetta
(Lidiya Liberman) ha avvinto d’amore il suo confessore, il nobile Fabrizio, il
quale si è ucciso. Come suicida, dovrà essere sepolto in terra sconsacrata – a
meno che non si costringa Benedetta a confessare che è una strega e lo ha
portato a perdizione attraverso le arti di Satana. A esigere la sua
confessione, in combutta con l'inquisitore domenicano, arriva a Bobbio il
cavaliere Federico Mai (Pier Giorgio Bellocchio), fratello e sosia di Fabrizio
- questa forma di iper-identificazione (addirittura Benedetta lo scambia per il
morto) ci riporta direttamente al trauma del suicidio del fratello già
esplorato ne Gli occhi, la bocca. Mentre il cognome Mai ci riporta al
lavoro di Bellocchio a Bobbio e al suo cinema “familiare” (Sorelle Mai); che questo film lo riprenda non lo dicono solo il
nome e l’ambientazione ma la presenza come interpreti di Pier Giorgio
Bellocchio, Elena Bellocchio, Angelo Bellocchio nel finale; Marco Bellocchio ci
mantiene in un qui ed ora nutrito di
sogni e suggestioni.
Benedetta dunque “deve
essere” strega per l’ordine maschile, ma paradossalmente “lo è” come portatrice
dell’alterità assoluta rispetto ad esso – ciò che peraltro è la stessa cosa
della santità; dopo la “prova delle lacrime” (che già il progetto citato, Lacrime, contemplava fin dal titolo) un
frate francescano si chiede se non stiano tormentando una santa. Dopo che sono
fallite sia quella sia la prova dell’acqua (inutile ricordare come sia
connesso all’acqua l’elemento femminile), la
aspetta quella del fuoco.
Nella dialettica fra
l’ordine del potere e il suo Altro, il debole Federico è preso in mezzo, poiché
– preso anch’egli dal desiderio amoroso per Benedetta – partecipa di entrambi: il
crocefisso buttato a terra insieme ai paramenti ecclesiastici del fratello sembra l’equivalente visuale della bestemmia
de L’ora di religione. “Impazzire per
una donna”, sentiamo nel dialogo; un desiderio sessuale avvolgente sembra
stillare dalla luna piena e contagiare in scene vagamente oniriche le due
sorelle che ospitano Federico. Per Bellocchio il desiderio è più grande dei
corpi.
Peraltro Federico non è
il Principe di Homburg; è soltanto un mediocre; si confronta coll’ombra suicida
del fratello, un doppio che anche
vede allucinatoriamente sull’altra riva del fiume, è colpito d’amore per
Benedetta allo stesso modo, ma poi fugge. C’è un passaggio di dialogo importante
quando Federico potrebbe far evadere Benedetta, il giorno prima della prova del
fuoco. Lei: “Andiamo!” e lui “No, domani” (in questo scambio fra uomo e donna
si concentra, a ben vedere, l’universo di Bellocchio); al che lei dice: “Sei
come tuo fratello. Hai paura”. Segue per Federico una gotica fuga a cavallo nella notte; ma poi ritorna ed è presente al
rito con cui Benedetta è murata viva in una piccola cella. Bellocchio è un
regista dello sguardo: la soggettiva di Benedetta dallo spioncino lasciatole coglie
Federico fra gli astanti – poi Federico si ritira all’indietro sparendo
nell’ombra – segue un superbo controcampo in cui è Benedetta a sparire ritirandosi
a sua volta nell’ombra.
Eraclito diceva che non
ci bagniamo mai due volte nello stesso fiume. E’ il tempo che scorre. Ma quando
Federico nel film getta via nell’acqua la chiave della prigione di Benedetta,
essa finisce vicino a quella identica che già aveva gettato suo fratello. Le
tracce di due viltà riposano vicine; il tempo fluisce ma c’è una materialità “storica”
che rimane. Mi pare che si possa accostare questo concetto alla compresenza
di due tempi nel film. Infatti l’incipit
della parte contemporanea riprende accuratamente (si potrebbe dire
parodisticamente: le buste per terra, come in un negozio chiuso) quello
seicentesco; e il portone del convento si apre (dopo molte insistenze per farsi
aprire, però!) sulla Bobbio moderna.
Federico Mai (il suo
discendente) ritorna involgarito. Si spaccia per un ispettore (strizzata
d’occhio a Gogol’) venuto per aiutare un miliardario
russo a comprare l’antico convento; si rivela un imbroglione di mezza tacca, che
alla fine si fa liquidare vergognosamente con un pugno di spiccioli. Possiamo
vedere la seconda parte del film come un rovesciamento della prima. Il potere
dell’Ecclesia triumphans controriformista
si rovescia in un opportunismo molliccio, avvolgente, dolciastro e corruttore.
Il potere di un’Italia democristiana in cui quasi ciascuno ha la sua fettina di
vantaggio sotto lo sguardo dei maggiorenti del paese. La grande idea di
Bellocchio è quella di concretizzarlo satiricamente nell’imbroglio sulle
pensioni.
Infatti ora nel convento
abita, abusivamente, il conte Basta (un indimenticabile Roberto Herlitzka), un
dignitoso vampiro che ama le canzoni alpine e tiene in mano l’intero paese
attraverso un opportunismo legato alle pensioni d’invalidità. Finti storpi,
finti ciechi, perfino finti morti. Orbene, se i finti ciechi si possono
definire dei non-ciechi, i finti morti si possono definire dei non-morti, ed
ecco il conte Basta. “I morti non escono più di casa”, sentiamo dire quando tutto
il paese è terrorizzato dal sedicente ispettore. Nota qui il rovesciamento
rispetto al cinema di vampiri: qui non è il vampiro a terrorizzare il paese ma
il suo possibile nemico; e quando la moglie del conte (furiosa perché non
prende né gli alimenti del vivo né la pensione del morto!) lo vede per strada e
fa per inseguirlo viene trattenuta dai propri amici festaioli, in una scena di
violenza orgiastica.
Bellocchio gioca assai
spiritosamente con una metafora vecchissima, i potenti come vampiri, che risale
addirittura a Voltaire; la articola con un gusto che la rende nuova tenendosi
sempre sul crinale fra il metaforico e un reale che è il reale della satira;
vedi il gioco linguistico nell’impagabile colloquio del conte col medico (Toni
Bertorelli). Oppure la scena adorabile
quando ascolta “Sul ponte di Perati”, singolarmente adatta con versi come “Col
sangue degli alpini” e “Un coro di fantasmi”. Ma quando abbiamo la volgare
tentazione di ridurre il vampirismo del conte Basta a un puro doppio senso
satirico, ecco che il conte viene fotografato in mezzo a un gruppo di ragazze,
e - da buon vampiro - non appare nella foto.
Nonostante la
preoccupazione dei maggiorenti del paese, che produce frenetiche riunioni
notturne, il conte non ha problemi a liquidare il misero Federico Mai. Però
arriva un momento di desiderio di tenerezza per una bella ragazza (Elena
Bellocchio) e lo perde – esattamente come il desiderio perdeva Nosferatu nel
film di Murnau. Il riferimento non è casuale. Si guardi bene la camminata di
Roberto Helitzka verso il gruppo di ragazze, prima della scena della fotografia:
con tutto il corpo rende una stanca vecchiezza, una tristezza davvero figlia di
un’età immemorabile, che accomuna immediatamente Herlitzka al Max Schreck
murnauiano.
La conclusione del film
ci riporta al Seicento. Federico è diventato cardinale (come il suo omonimo
Borromeo) e ritorna al convento dopo tanti anni. Benedetta, murata là, è ancora
viva e chiede il perdono della Chiesa. Federico dopo qualche dubbio fa demolire
il muro... e dalle nuvole di polvere appare Benedetta di nuovo giovane, nuda e trionfante nella sua bellezza – e se
ne va passando con disprezzo accanto al cardinale morto a terra; un finale che
è la quintessenza bellocchiana. Una breve inquadratura ci mostra il conte Basta
morto. L’ultima immagine è di auto della polizia che arrivano in ralenti coi
fari accesi come in un thriller americano.