lunedì 21 settembre 2015

Sangue del mio sangue

Marco Bellocchio



Quello di Marco Bellocchio è un cinema di pulsioni, di rottura del possibile, di riconoscimento della contraddizione, di spregio della costrizione narrativa – di incontro fra la completezza della forma, in Bellocchio sempre bellissima, e la dimensione mutevole del racconto, in accordo con la mutevolezza della realtà dello spirito. Offre storie aperte dove si spalancano pieghe vertiginose di possibilità, dove la contraddizione delinea una forma cinema che rifiuta la dimensione rassicurante del film “sferico” e conseguente. Il magnifico Sangue del mio sangue si prende la libertà di giustapporre un dramma gotico seicentesco e una satira novecentesca, rovesciando l’uno nell’altra, secondo due forme del potere e contestualmente due approcci narrativi. Gioca con l'unità di luogo – la località bellocchiana di Bobbio, e in particolare nel film il convento – e con un personaggio centrale che realizza una sorta di reincarnazione cinematografica, o ereditarietà.
Nel 2010 Bellocchio aveva girato un cortometraggio inedito dal titolo La monaca di Bobbio, sul tema diderottiano e soprattutto manzoniano di una nobildonna seicentesca costretta a farsi monaca che infine finiva in carcere. Il suo progetto era di sviluppare il racconto con altri episodi; e in questo progetto il cui titolo doveva essere Lacrime era già contenuto lo sconvolgente finale di Sangue del mio sangue (cfr. Marco Bellocchio. L’inquietudine di un sogno, a cura di Denis Brotto e Farah Polato, Udine-Pordenone 2012). Bellocchio è indubbiamente un autore barocco - lo sfasamento prospettico, l'ambiguità come progetto estetico, la “perdita del centro” - e ciò lo avvicina naturalmente al secolo XVII. Ma merita ricordare che il giovanissimo Bellocchio fu molto colpito dalla visione de I promessi sposi di Camerini (un film, questo, che evidenzia le sfumature gotiche già presenti in Manzoni) e si direbbe che ciò gli ha lasciato un segno indelebile; a parte l’inedita Monaca, Manzoni (e anche il gotico) si vede fortemente ne Il regista di matrimoni; ma il Seicento si direbbe consustanziale al suo cinema; non penso solo a La visione del sabba ma già a un film del 1972, ambientato negli anni ’50 ma profondamente barocco, pieno di imagerie controriformista e di meraviglia seicentesca: Nel nome del padre.

Un tema centrale del cinema di Bellocchio è l'opposizione fra ordine e disordine. L’ordine, la legge del potere, o se preferiamo la Legge del Padre, che va dall'istituzione familiare all'istituzione totale; qui, il potere della Chiesa di cui il convento seicentesco è una cellula. Il disordine, rappresentato dal sogno, dalla ribellione, dalla bestemmia, dal desiderio, dall'irruzione dell'inconscio; e ne è portatore privilegiato l'elemento femminile, spesso assumendo la figura della strega e della pazza - da La visione del sabba a Vincere, per citare due titoli assai noti.  
In Sangue del mio sangue - nella prima parte la fotografia di Daniele Ciprì è pura pittura seicentesca - la monaca Benedetta (Lidiya Liberman) ha avvinto d’amore il suo confessore, il nobile Fabrizio, il quale si è ucciso. Come suicida, dovrà essere sepolto in terra sconsacrata – a meno che non si costringa Benedetta a confessare che è una strega e lo ha portato a perdizione attraverso le arti di Satana. A esigere la sua confessione, in combutta con l'inquisitore domenicano, arriva a Bobbio il cavaliere Federico Mai (Pier Giorgio Bellocchio), fratello e sosia di Fabrizio - questa forma di iper-identificazione (addirittura Benedetta lo scambia per il morto) ci riporta direttamente al trauma del suicidio del fratello già esplorato ne Gli occhi, la bocca. Mentre il cognome Mai ci riporta al lavoro di Bellocchio a Bobbio e al suo cinema “familiare” (Sorelle Mai); che questo film lo riprenda non lo dicono solo il nome e l’ambientazione ma la presenza come interpreti di Pier Giorgio Bellocchio, Elena Bellocchio, Angelo Bellocchio nel finale; Marco Bellocchio ci mantiene in un qui ed ora nutrito di sogni e suggestioni.

Benedetta dunque “deve essere” strega per l’ordine maschile, ma paradossalmente “lo è” come portatrice dell’alterità assoluta rispetto ad esso – ciò che peraltro è la stessa cosa della santità; dopo la “prova delle lacrime” (che già il progetto citato, Lacrime, contemplava fin dal titolo) un frate francescano si chiede se non stiano tormentando una santa. Dopo che sono fallite sia quella sia la prova dell’acqua (inutile ricordare come sia connesso all’acqua l’elemento femminile), la  aspetta quella del fuoco.
Nella dialettica fra l’ordine del potere e il suo Altro, il debole Federico è preso in mezzo, poiché – preso anch’egli dal desiderio amoroso per Benedetta – partecipa di entrambi: il crocefisso buttato a terra insieme ai paramenti ecclesiastici del fratello  sembra l’equivalente visuale della bestemmia de L’ora di religione. “Impazzire per una donna”, sentiamo nel dialogo; un desiderio sessuale avvolgente sembra stillare dalla luna piena e contagiare in scene vagamente oniriche le due sorelle che ospitano Federico. Per Bellocchio il desiderio è più grande dei corpi.
Peraltro Federico non è il Principe di Homburg; è soltanto un mediocre; si confronta coll’ombra suicida del fratello, un doppio che anche vede allucinatoriamente sull’altra riva del fiume, è colpito d’amore per Benedetta allo stesso modo, ma poi fugge. C’è un passaggio di dialogo importante quando Federico potrebbe far evadere Benedetta, il giorno prima della prova del fuoco. Lei: “Andiamo!” e lui “No, domani” (in questo scambio fra uomo e donna si concentra, a ben vedere, l’universo di Bellocchio); al che lei dice: “Sei come tuo fratello. Hai paura”. Segue per Federico una gotica fuga a cavallo nella notte; ma poi ritorna ed è presente al rito con cui Benedetta è murata viva in una piccola cella. Bellocchio è un regista dello sguardo: la soggettiva di Benedetta dallo spioncino lasciatole coglie Federico fra gli astanti – poi Federico si ritira all’indietro sparendo nell’ombra – segue un superbo controcampo in cui è Benedetta a sparire ritirandosi a sua volta nell’ombra. 

Eraclito diceva che non ci bagniamo mai due volte nello stesso fiume. E’ il tempo che scorre. Ma quando Federico nel film getta via nell’acqua la chiave della prigione di Benedetta, essa finisce vicino a quella identica che già aveva gettato suo fratello. Le tracce di due viltà riposano vicine; il tempo fluisce ma c’è una materialità “storica” che rimane. Mi pare che si possa accostare questo concetto alla compresenza di due tempi nel film. Infatti l’incipit della parte contemporanea riprende accuratamente (si potrebbe dire parodisticamente: le buste per terra, come in un negozio chiuso) quello seicentesco; e il portone del convento si apre (dopo molte insistenze per farsi aprire, però!) sulla Bobbio moderna.  
Federico Mai (il suo discendente) ritorna involgarito. Si spaccia per un ispettore (strizzata d’occhio a Gogol’) venuto per aiutare un miliardario russo a comprare l’antico convento; si rivela un imbroglione di mezza tacca, che alla fine si fa liquidare vergognosamente con un pugno di spiccioli. Possiamo vedere la seconda parte del film come un rovesciamento della prima. Il potere dell’Ecclesia triumphans controriformista si rovescia in un opportunismo molliccio, avvolgente, dolciastro e corruttore. Il potere di un’Italia democristiana in cui quasi ciascuno ha la sua fettina di vantaggio sotto lo sguardo dei maggiorenti del paese. La grande idea di Bellocchio è quella di concretizzarlo satiricamente nell’imbroglio sulle pensioni.
Infatti ora nel convento abita, abusivamente, il conte Basta (un indimenticabile Roberto Herlitzka), un dignitoso vampiro che ama le canzoni alpine e tiene in mano l’intero paese attraverso un opportunismo legato alle pensioni d’invalidità. Finti storpi, finti ciechi, perfino finti morti. Orbene, se i finti ciechi si possono definire dei non-ciechi, i finti morti si possono definire dei non-morti, ed ecco il conte Basta. “I morti non escono più di casa”, sentiamo dire quando tutto il paese è terrorizzato dal sedicente ispettore. Nota qui il rovesciamento rispetto al cinema di vampiri: qui non è il vampiro a terrorizzare il paese ma il suo possibile nemico; e quando la moglie del conte (furiosa perché non prende né gli alimenti del vivo né la pensione del morto!) lo vede per strada e fa per inseguirlo viene trattenuta dai propri amici festaioli, in una scena di violenza orgiastica.

Bellocchio gioca assai spiritosamente con una metafora vecchissima, i potenti come vampiri, che risale addirittura a Voltaire; la articola con un gusto che la rende nuova tenendosi sempre sul crinale fra il metaforico e un reale che è il reale della satira; vedi il gioco linguistico nell’impagabile colloquio del conte col medico (Toni Bertorelli). Oppure la  scena adorabile quando ascolta “Sul ponte di Perati”, singolarmente adatta con versi come “Col sangue degli alpini” e “Un coro di fantasmi”. Ma quando abbiamo la volgare tentazione di ridurre il vampirismo del conte Basta a un puro doppio senso satirico, ecco che il conte viene fotografato in mezzo a un gruppo di ragazze, e - da buon vampiro - non appare nella foto.
Nonostante la preoccupazione dei maggiorenti del paese, che produce frenetiche riunioni notturne, il conte non ha problemi a liquidare il misero Federico Mai. Però arriva un momento di desiderio di tenerezza per una bella ragazza (Elena Bellocchio) e lo perde – esattamente come il desiderio perdeva Nosferatu nel film di Murnau. Il riferimento non è casuale. Si guardi bene la camminata di Roberto Helitzka verso il gruppo di ragazze, prima della scena della fotografia: con tutto il corpo rende una stanca vecchiezza, una tristezza davvero figlia di un’età immemorabile, che accomuna immediatamente Herlitzka al Max Schreck murnauiano.
La conclusione del film ci riporta al Seicento. Federico è diventato cardinale (come il suo omonimo Borromeo) e ritorna al convento dopo tanti anni. Benedetta, murata là, è ancora viva e chiede il perdono della Chiesa. Federico dopo qualche dubbio fa demolire il muro... e dalle nuvole di polvere appare Benedetta di nuovo giovane, nuda e trionfante nella sua bellezza – e se ne va passando con disprezzo accanto al cardinale morto a terra; un finale che è la quintessenza bellocchiana. Una breve inquadratura ci mostra il conte Basta morto. L’ultima immagine è di auto della polizia che arrivano in ralenti coi fari accesi come in un thriller americano. 

giovedì 3 settembre 2015

Taxi Teheran

Jafar Panahi


Francesco Casetti nel recente, bellissimo libro La Galassia Lumière parla lungamente del “cinema espanso”, nel quale fa rientrare anche l’uso di media a bassa definizione: webcam, cellulari e iPhone (qui val la pena di menzionare lo splendido Night Fishing di Park Chan-wook, Far East Film 2015), telecamere di sorveglianza e così via. Il regista iraniano Jafar Panahi è stato condannato dal regime degli ayatollah a non poter più girare film per vent’anni. Senza arrendersi, ha realizzato quelli che potremmo chiamare film espansi di resistenza.
Dopo This Is Not a Film e Closed Curtain, felicemente Taxi Teheran, vincitore dell’Orso d’Oro a Berlino, è uscito nelle sale. Panahi vi compare come se stesso in veste di improbabile tassista (non conosce le strade e non si fa pagare). Il suo taxi è dotato di una mdp digitale (in realtà tre Blackmagic Design Pocket Cinema Camera), e un tetto apribile per la luce. E’ abilmente montato da Panahi stesso, naturalmente, uncredited come tutti giacché il film (informa un cartello finale) è privo dei credits in quanto non è stato approvato dal Ministero per l’Orientamento Islamico. Siccome Panahi non ha il permesso di viaggiare (tranne, è stato precisato, che per cure mediche o per il pellegrinaggio alla Mecca…), il premio a Berlino è stato ritirato dalla nipotina Hana, vera co-protagonista del film.
I passeggeri filmati, in dialogo con Panahi, dipingono allo stesso tempo un quadro vivace della Teheran contemporanea e un’illustrazione fulminante dello strano e del buffo che si celano nella vita quotidiana. Un uomo difende la pena di morte per gli scippatori e poi si rivela un borseggiatore, che disprezza questa specie di semiprofessionisti. La vittima di un incidente, portato all’ospedale mentre la moglie piangente lo tiene in grembo, fa un testamento video su un telefonino in prestoto, a favore di lei che altrimenti non potrebbe ereditare (grande battuta tragicomica: “Basta piangere, se piangi le mie parole non si capiscono”). Due indimenticabili vecchie signore con una vasca di pesci rossi concretizzano da sole un surreale film in nuce. Uno spacciatore di dvd illegali, conoscente del regista, svela subito il gioco: “Crede che non mi sia accorto che tutto quello che è successo in macchina era una messinscena, eh? Grande!”
Perché Taxi Teheran non è registrazione bruta (nel qual caso il suo interesse non andrebbe oltre la solidarietà col regista). Il film di Panahi si basa su un doppio movimento. Da un lato mette in questione lo statuto dello sguardo (chi filma?); dall’altro lo statuto di realtà dell’immagine: sono attori o personaggi? “documentario” o “finzione”? Il film ci gioca sopra, con attori non professionisti (una costante di Panahi, ma qui una necessità sia artistica sia politica) che fanno le “persone normali” e “persone normali” (la nipotina, l’avvocatessa) che recitando se stesse fanno gli attori non professionisti, finché i due status si confondono: il che corrisponde esattamente al progetto dell’autore.
Sembra proprio un incontro per caso quello con l’avvocatessa che difende una ragazza arrestata per aver voluto entrare in uno stadio di pallavolo maschile, cosa illegale in Iran (e qui la realtà ricalca un film di Panahi, Offside). Ci vorrebbe un libro per districare tutte queste contraddizioni ma, a parte il fatto che sarebbe un libro noiosissimo, a Panahi importa appunto che siano inestricabili. Il suo realismo si basa proprio sul muoversi in questa zona intermedia: e Panahi ben conosce (vogliamo far rabbrividire qualche fisico?) quel principio di indeterminazione del cinema per cui la registrazione cambia la natura di ciò che è registrato.
Ecco allora che il film, partendo da questa costruzione “ontologica”, mette in scena un’affascinante riflessione sul concetto di realtà. Intrecciato ad essa c’è un discorso politico – che non è espresso in forma di manifesto bensì anch’esso come riflessione satirica sul filmare. Questo discorso si materializza esplicitamente nel dialogo col personaggio centrale della nipotina Hana, una ragazzina spiritosissima che si autodefinisce “una signorina beneducata e di alto livello culturale”. Cinecamera in mano, Hana deve girare un breve film come compito per la scuola e interroga lo zio illustre regista sul concetto di realtà e sulla censura, ovvero il cinema “distribuibile” e “non distribuibile”. Quando enumera le regole dettate dalla maestra in proposito, ne risulta una pagina degna di uno Swift del XXI secolo (i personaggi positivi non possono portare la cravatta ed è consigliabile usare per loro i nomi dei profeti).
Ma, di nuovo, il divertimento immediato si rovescia in una riflessione seria sul reale, prima attraverso la storia dell’amico di Panahi con la cravatta, poi col fallimento di un episodio edificante che Hana cerca di girare; e il discorso precipita sulla questione che investe tutto il cinema di Panahi: cos’è la realtà, cosa vuol dire filmare? Taxi Teheran è una lezione di moralità cinematografica; e qui si può citare un passaggio che assume un valore metaforico, quando alla nipote che tiene un quaderno in una mano e la mdp nell’altra Panahi sbotta: “Che fai, riprendi o leggi?!” Questa, i critici dei Cahiers du cinéma dell’epoca d’oro, Truffaut, Godard eccetera, l’avrebbero immediatamente capita - e sottoscritta.