sabato 20 aprile 2024

Ghostbusters - Minaccia glaciale

Gil Kenan 

Che freddo, quando l’antichissimo dio-demone Garraka, signore del gelo, riesce a uscire dalla sfera in cui era stato imprigionato nell'antichità e scatena un’ondata glaciale su New York. Questo accade all'interno del film Ghostbusters – Minaccia glaciale, ultimo della serie (magari, uno penserebbe che sarebbe stato ovvio mostrarci cinque secondi di reazione dei newyorkesi, invece che limitarsi al panorama della città con effetti al computer); ci penseranno i Ghostbusters, i vecchi e i nuovi, a sventare la minaccia del ghiaccio salvando la città e il mondo.
Ah, ma c’è anche un’altra ondata di gelo che agghiaccia New York e l’America, e questa esterna al film: l’ondata del politicamente corretto. C’entra, perché il primo indimenticabile Ghostbusters, mix di horror e risate con protagonista un gruppo di antieroi, si caratterizzava per un umorismo sfacciato e gaglioffo (unito a una carica di energia scatenata). Ricordate cosa diceva Bill Murray quando la dea sumerica Gozer appare in cima al grattacielo? Impensabile oggi certo, aiutava lo spudorato doppiaggio d’epoca, ma anche l’originale era forte quanto basta.
Poiché la prima vittima del politicamente corretto è l’umorismo, quasi non ve n’è traccia nel film (sprecata la new entry, il bravo Kumail Nanjani). Però manca anche l’energia, della quale sopravviveva un pochino nel precedente Ghostbusters – Legacy (che peraltro era quasi un remake del primo film). Qui siamo alla noia benintenzionata, condita di problemucci generazionali che non vanno oltre la tradizionale dimensione educational. Era molto meglio il criticatissimo reboot al femminile di Paul Feig del 2016e in fondo, anche il fanfilm del 2021 Real! A Ghostbusters Tale aveva più verve.
È vero, un buon inizio a New York nel 1904 fa ben sperare. Il finale con lo scontro col dio-demone in digitale almeno tiene svegli gli spettatori, anche se la CGI è da vecchio videogioco. Ma in mezzo il film è stanco, impersonale, nemmeno capace di elaborare la suspense. Fra numerosi quanto vacui riferimenti alle origini della saga (pure la biblioteca e la vecchietta fantasma del primo film) ricompaiono gli antichi Ghostbusters, più stanchi e invecchiati che in Ghostbusters – Legacy. Bill Murray in particolare qui ha l’aria di un martire cristiano in attesa che vengano liberati i leoni. Così, la familiare sigla “Ghostbusters!” quando risuona alla fine sembra una presa in g
iro.

domenica 14 aprile 2024

I misteri del bar Étoile

Dominique Abel & Fiona Gordon

Eccentrico e clownesco (un aggettivo amato dai due autori), I misteri del bar Étoile di Dominique Abel e Fiona Gordon – interpreti e registi, nonché marito e moglie – si ispira in chiave comico-malinconica ai film thriller, pur non essendo esattamente una parodia. Boris, un ex terrorista, vive nascosto lavorando come barista; una sua vittima che ha perso un braccio in un suo attentato lo scopre e vuole ucciderlo (ma il braccio meccanico va per conto suo come quello dell’ispettore Kemp in Frankenstein Junior). L’amante di Boris, Kayoko, e il loro amico Tim hanno un piano: sostituire a Boris un suo perfetto sosia, l’inconsapevole Dom, in modo che venga ucciso lui. Intanto entra in scena l’ex moglie di Dom, un'investigatrice privata depressa e totalmente kaurismäkiana, di nome Fiona. Bastano i nomi Dom(inique) e Fiona per capire chi li interpreta.
In questo film pieno di dolore universale (e di protesta sociale) il riferimento più immediato è per l’appunto alle semi-commedie di Aki Kaurismäki, di cui il film riprende – ai limiti del derivativo – lo humour freddo e distaccato, i volti impassibili, i colori bizzarri, gli ambienti poveri e tristi. Basta spingere appena un po’ avanti la rotella dell’osservazione della vita reale, ed essa lascia trasparire la sua assurdità; lo sapeva bene anche Jacques Tati (del resto, certi ambienti, come il piccolo bar, sono pura Tativille).
Di diverso rispetto a Kaurismäki c’è un amore degli autori per il movimento meccanico e coordinato, che fa pensare a certe comiche mute, e sfocia in un balletto finale. Fra gli interpreti, tutti bravi, sotto questo punto di vista è la migliore è la giapponese Kaori Ito (Kayoko), che non per nulla nella vita reale è una ballerina famosa. Non ci stupisce: la gestualità comico-meccanica che il film le richiede è ben presente nella commedia giapponese. Il modo da giocoliere – e molto sexy – in cui lei usa il piede nudo in una scena farebbe impazzire Quentin Tarantino.
C’è molto di bello nel film: gag che funzionano, attori in gamba, corretto senso dei tempi; tanto da far passare un’ora e mezza piacevoli… anche se, misteriosamente, l’insieme non fa clic. Almeno fino a due terzi di durata, I misteri del bar Étoile resta nella memoria più come un’antologia di “pezzi unici”. Il meglio sono certi tocchi di poetica bellezza in momenti “laterali” come la prima visita di Fiona al cimitero, davanti alla tomba di una bambina, con quella lacrima buffamente abbondante che scende da sotto gli occhiali neri – lancinante commento a una storia intuibile e non raccontata.

martedì 9 aprile 2024

Il teorema di Margherita

Anna Novion

C’è un aspetto assai positivo nel piacevole Il teorema di Margherita, coproduzione franco-svizzera di Anna Novion, ed è di saper destare l’interesse (non diciamo la comprensione) dello spettatore per l’alta matematica.
Dimostrare la congettura di Goldbach è, apprendiamo, il Santo Graal dei matematici; ed è il sogno di Marguerite, brillantissima dottoranda, non un tipo semplice con cui trattare. Stimolata da un professore opportunista – il film rende con intelligenza il sospetto inconscio di quest’ultimo che la sua allieva sia più brillante di lui – si produce davanti a una platea di giovani matematici come lei in una dimostrazione pubblica che crede incontrovertibile, ma che viene messa in crisi da un’obiezione del collega studente Lucas. Marguerite abbandona rabbiosamente l’aula; il suo professore opportunista la molla; lei molla l’università. Giura di non occuparsi più di matematica, va ad abitare con una ballerina e per sbarcare il lunario diventa una giocatrice professionista di mahjong (delizioso: la matematica, uscita dalla porta, rientra dalla finestra).
Un punto di forza del film è la splendida interpretazione di Ella Rumpf, fenomenale fin dalla scena iniziale dell’intervista (in contrasto, il giovane Lucas, l’attore belga Daniel Frison, sembra un po’ troppo normale – e con una carineria molto francese – per essere del tutto credibile nel suo ruolo di vice-genio della matematica). C’è in questa ragazza occhialuta, chiusa, tetragona, una caratteristica che evidentemente unisce i grandi matematici ai grandi artisti: una sorta di lucida monomania. Marguerite si è chiusa all’esterno – a qualunque stimolo esterno che sia un po’ impegnativo, intendiamo, perché con l’amica Noa, che è il contrario di lei, sta benissimo; già con la madre è più difficile. Se poi parliamo del sesso, poi, non ci sono problemi con un giovane che invero avrebbe dovuto interessarle come specimen, perché potrebbe essere il peggior attore della storia del cinema francese. Ma non quando si ipotizzano legami più profondi, e qui entra in gioco Lucas. In effetti Marguerite è un po’ la valchiria di Wagner, serrata da una barriera di calcoli invece che di fuoco. Siccome poi i film devono avere l’happy end, a differenza della vita, alla fine la barriera cadrà.
Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, è quando il film si allontana dalla matematica che diventa, non diremo banale, ma meno interessante. Tuttavia, per lo più è attratto dalla forza di gravità delle enormi lavagne nere ricoperte di calcoli (grande il modo in cui Marguerite risistema o devasta, dipende dai punti di vista, il suo appartamento in affitto). Lavagne che non sono quelle dei fratelli Coen in A Serious Man, ironica meditazione sull'incomprensibilità del mondo, ma sono il terreno di un percorso di scoperta e autoaffermazione.
La cosa notevole è che questo percorso di autoaffermazione ci appassiona anche se non comprendiamo lo sviluppo del lavoro (quando a un certo punto lei ha un’illuminazione, grazie a un foglio capovolto, la natura di quest’illuminazione ci resta oscura). Dobbiamo fidarci sulla parola, e dire come il sagrestano portinaio in Manzoni: “Basta! lei ne sa più di me”. E quando Marguerite alla fine ottiene un classico trionfo all'americana, tutti noi spettatori siamo felici – anche quelli fra noi che non distinguono una sottrazione da una radice quadrata.