Alex Garland
L’energia
e la freschezza del cinema orientale (potremmo citare, nel campo del
cinema che racconta scontri politici, il recentissimo coreano 12.12:
The Day di Kim Sung-soo) trovano una controprova, a contrariis, nella
vacuità dell’americano Civil War di Alex Garland.
Siamo
nel mondo dei corrispondenti di guerra, con un road movie minaccioso
negli USA in piena guerra civile, con
tutti i suoi orrori, per
raggiungere Wahington assediata e raccogliere le ultime parole del
Presidente – il quale peraltro, apprendiamo, ai giornalisti gli fa
sparare. Psicologicamente vacuo, drammaturgicamente nullo, il film si
serve di personaggi scontati e banali (la giornalista affermata col cuore al posto giusto, la giovane rookie ambiziosa, il vecchio
saggio, il giornalista pseudo-cinico che è il peggiore) per mettere
in scena una rappresentazione di buonismo, con l’esperta che
prende, in modo burbero, l'ultima arrivata sotto la propria ala.
Laddove (ripensando alla scena della fotografie scattate da terra
nella parte finale), se il cinema americano avesse ancora la
cattiveria di una volta, era l’occasione per realizzare un Eva
contro Eva bellico.
Mentre
la tensione del lungo viaggio verso Washington non
differisce molto da quella dei film di zombi (buona la sequenza della
cittadina dove sembra che non sia successo nulla), le scene di
battaglia – in pratica due, una all’esterno e una all’interno –
non sono male: ma è perché siamo a Washington e poi all’interno
della Casa Bianca che ci colpiscono; se fossimo, diciamo, a Beirut
non sarebbero niente di che. Anche perché, nella scena madre della
battaglia di Washington, la messa in scena sfiora il ridicolo con
questa giovane fotografa fanatica che si ficca tra i piedi dei soldati in
combattimento a tal punto che nella realtà le avrebbero sparato alle
gambe. E per arrivare all’unica battuta che resta nella memoria,
quella finale del presidente, bisogna vedere tutto il film.
Certamente
è una contraddizione del film il fatto che non siano resi chiari i
motivi del contendere: si parla solo di un
esercito secessionista
contro un Presidente al terzo mandato che ha sciolto l’FBI e ha
fatto bombardare cittadini americani. Qui però bisogna ammettere che,
in un’America politicamente spaccata in due come oggi, prendere una
posizione più precisa avrebbe voluto dire rinunciare in partenza a
metà degli incassi. E’ una trovata intelligente da questo punto di
vista che gli stati secessionisti (le Forze Occidentali. dalla
bandiera a stelle e strisce ma con solo due grandi stelle) siano il
Texas e la California, nella percezione di oggi uno Stato di destra e
uno di sinistra: in questo modo si offuscano eventuali proiezioni
della realtà odierna sulle forze in campo. Una
nebbia sulle motivazioni è
l’unico modo di costruire
una distopia bipartisan –
benché la retorica del Presidente del film, che all’inizio del
film parla di vittoria storica e definitiva mentre sta perdendo la
guerra civile, ricorda (o è un'impressione personale?) la boria di
Donald Trump. Come che sia, la prossima volta sarà meglio chiamare i coreani.
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