Tran Anh Hung
L’Ottocento!
Il secolo
del gusto: la gourmandise.
Nel tardo Ottocento, quando
alle tavole imbandite (quelle
dei ricchi, beninteso)
si mantiene
il ricordo
di Carême e Brillat-Savarin,
mentre
sta salendo
l’astro di Escoffier, si
svolge Il gusto delle cose, film francesissimo
di Tran Anh
Hung,
di cui Brillat-Savarin
con la sua Fisiologia del
gusto è il nume tutelare. Un film che
piacerà molto a chi ama il cibo per
la pura
sensualità con cui lo
tratta. Non solo il cibo: lo stesso gusto sensuale lo troviamo
in due brevi scene di nudità
amorosa che sono rinfrescanti
in questi tempi di neo-puritanesimo (è
solo un accenno, ma il legame fra il cibo e il sesso è chiaro).
Il
famoso gastronomo
Dodin Bouffant
(Benoît
Magimel)
ha per cuoca e abilissima
collaboratrice, nonché amante più volte chiesta in moglie, Eugénie
(Juliette Binoche). Il
loro rapporto di cucina e
d’amore – senza
sorpresa, Binoche e Maginel
sono eccellenti – si dispiega
in
un periodo finale (lei è malata) sontuosamente messo in scena con
rimandi alla pittura post-impressionista. Le stagioni sono descritte
sub specie dei cibi che forniscono (o
fornivano...), ma il riferimento
è naturalmente al ciclo della vita umana. Lo
simboleggia la bellissima
panoramica finale, che compie
360 gradi e poi continua, introducendo nascostamente un flashback che
rappresenta il ricordo, e insieme la continuità del vivere. C’è
una ragazzina (Bonnie
Chagneau-Ravoire, dagli
occhi molto espressivi), nipote di una servante, che mostra
eccezionali capacità. Non è difficile immaginare che dopo la
scomparsa di Eugénie
prenderà
il suo posto come principessa della cucina, all’interno della
festiva compagnia gastronomica che si raccoglie intorno a Dodin
(poche amicizie sono più salde di quelle che si riuniscono
regolarmente a tavola; e anche questo è Brillat-Savarin).
Al
centro di questo film così corporeo sta appunto il cibo, nella
gloria d’antan della preparazione a mani nude con l’acqua versata
dai bacili. Qui
si può notare una cosa
abbastanza strana: la
sensualità
del cibo esplode più
nella preparazione –
sembra di sentirne i profumi!
– che
nella consumazione
(ove il
film si affida soprattutto
ai sospiri soddisfatti
degli attori). Si ha l'impressione che Tran
Ahn Hung
fosse preoccupato di evitare l’“effetto Masterchef”, ovvero
l’esibizione in dettaglio
del piatto finito; eppure
quei golosi dettagli,
quel tuffare la macchina da
presa dentro la
materia fumante e i suoi succhi, nel
momento magico che precede il godimento,
avrebbero arricchito il
film (vedi infatti
Il pranzo di Babette e ancor più il voluttuosissimo
Tampopo del giapponese Itami Juzo). Ecco una lezione da ricordare: la
sensualità è l'ingrandimento.
Nessun commento:
Posta un commento