Il
Macbeth è forse l'opera di Shakespeare che con più forza e
convinzione gioca sulla figura retorica dell'ossimoro. Solo dalle
prime tre scene: “Quando la battaglia sarà vinta e perduta”, “Un
giorno così bello e così brutto non l'avevo mai visto”, e il
famoso “Fair is foul, and foul is fair”. Sembra appropriato che
il (fallito) Macbeth di Justin Kurzel provochi un'analoga
sensazione di contraddizione. Dire “Un film così bello e così
brutto non l'avevo mai visto” sarebbe esagerato, in ambo i sensi,
ma certamente questo Macbeth è un altalenare da montagne
russe fra tocchi intelligenti e cadute di stile. E nemmeno in egual
misura: un passo avanti e due passi indietro, come diceva un Macbeth
del XX secolo.
Col
testo, come dire, si va sul sicuro; ma il film è fondamentalmente
illustrativo, basato sul concetto un po' ovvio che gli scozzesi erano
barbari, e infatti la Scozia del film (girato on location) è
barbarica da rivaleggiare con quella del capolavoro di Orson Welles.
Fra grandi paesaggi aspri di brughiere e montagne, questi scozzesi
combattono - col volto dipinto come antenati di Braveheart -
battaglie che sono sanguinose risse, di cui restano grandi sfregi e
cicatrici. Anche cicatrici dell'anima: e lo shock negato del
guerriero viene richiamato da uno dei tratti interessanti del film,
l'uso dei morti come messaggeri delle streghe. Possiamo menzionare
anche quest'ultime (quattro e non tre, con l'aggiunta di una
strega-bambina) fra i punti efficaci del film, coi loro volti
quotidiani (non sono le orride creature malate di Roman Polanski) e la bella invenzione delle cicatrici rituali sulla faccia.
E'
originale quel miserrimo villaggio di tende e capanne, anziché il
solito castello, in cui si consumano la visita e l'assassinio di
Duncan. E' anche un dettaglio grazioso il coro di bambini del
villaggio che canta per il re. Va detto che la povertà degli
ambienti crea qualche problema sul piano drammatico: la scena in cui
Macduff scopre il cadavere di Duncan ne soffre per la mera questione
del tempo disponibile per le battute (il discorso del vecchio) che
appare irrealistico. Peraltro ciò si nota di più perché tutta la
realizzazione è discutibile, con questi scozzesi così calmi che
sembrano pieni di Valium.
Troviamo
un accenno interessante di linea di lettura dell'opera in una sorta
di riabilitazione in itinere di Lady Macbeth.
All'inizio costei è debitamente ritratta come spietata tentatrice; la sua invocazione blasfema, “Venite, spiriti che
presiedete ai pensieri di morte”, è pronunciata addirittura
davanti alla croce (anche se più tardi il “Genera solo maschi”
di Macbeth è tagliato, forse per paura di suonare antifemministi).
In seguito però Macbeth, via via che è preso dalla logica crudele
della tirannide (“Il tempo anticipa i miei tremendi disegni”),
sorpassa in malvagità sua moglie e la lascia indietro: talché lei
piange mentre assiste all'uccisione della moglie e dei figli di
Macduff (che vengono bruciati vivi).
Da
ciò deriva in modo lineare la scena del sonnambulismo – solo che
non c'è sonnambulismo. La regina pronuncia il suo monologo sulle
mani (“Tutti i profumi d'Arabia...”) in chiesa, accasciata,
guardando in macchina in primissimo piano. La scena ha senso, anche
se è molto audace eliminare una delle invenzioni più famose, e
drammaturgicamente efficaci, di tutta l'opera shakespeariana.
Conseguentemente la scena della morte, ricostruita manipolando un po'
l'ordine delle battute di Macbeth e del medico, consente di escludere
il tradizionale suicidio; vediamo solo la regina distesa cerea sul
letto e possiamo pensare a una morte naturale; questo congedo
ellittico non è privo di un freddo pathos.
La
cosa migliore dell'intero film è l'inizio muto, che mostra il rogo
funebre del figlio bambino di Macbeth e sua moglie, con loro due
affranti (nella citata scena delle mani la regina rivedrà il bambino
come allucinazione). Perché è importante questo dettaglio? Perché
il Macbeth shakespeariano è attraversato da immagini di
sterilità, collegate alla mancanza di figli della coppia
protagonista (“Io ho allattato...”, “...una sterile corona”,
“Egli non ha figli!”), e sottolineare questo tema è una scelta
molto produttiva. Breve digressione: ricordo una bellissima versione
teatrale di Andrea De Rosa con Giuseppe Battiston e Frédérique
Loliée, tutta imperniata su di esso, con un'intelligenza e una
coerenza ammirevoli. Nel film di Justin Kurzel si rimane a un livello
piuttosto estrinseco, ma è già positivo che l'allusione vi sia; è
ripresa in una scena più tardi, quando Macbeth, sul discorso della
“sterile corona”, punta con rabbia il pugnale verso il ventre
della moglie (naturalmente Welles l'aveva fatto cento volte meglio,
ma era Welles).
Michael
Fassbender non passerà alla storia come il più grande Macbeth della
storia del cinema, ma è abbastanza convincente con quegli occhi
disperati e quella rabbia cieca. Marion Cotillard non è
impressionante come tentatrice spietata (la scena dell'“Ora so quanto vale il tuo amore”
mantiene quella stessa calma da Valium che segnalavo prima), però
trova espressioni di dolorosa umanità nelle scene del pentimento.
Quelli
che ho citato sopra sono aspetti, qual più qual meno, positivi del
film. Che però vengono soverchiati da quelli negativi; in primo
luogo una imprevista goffaggine nella messa in scena di molti
episodi. Per esempio quando Macbeth insegue le streghe e loro
svaniscono, lui è così vicino che la scena appare forzata. Macbeth,
poi, che va al secondo incontro con le streghe in camiciola fa ridere
(ed è un peccato perché le predizioni sono ben realizzate). La
scena del banchetto è addirittura imbarazzante: non per il fantasma
di Banquo ma, primo, per l'assurdo dialogo “sottovoce” fra
Macbeth e il sicario in presenza di tutti (tanto valeva che usassero
un megafono), secondo e peggio, per l'invenzione demenziale di un
gruppo di vescovi silenziosi e immobili in riga alle spalle di
Macbeth e della regina mentre i nobili sono seduti a banchetto: alla
fine, nello scandalo generale per il comportamento del re, questi
vescovi escono in fila zitti zitti – ed ecco che Shakespeare è
diventato una parodia dei Monty Python. Quanto al finale, con lo
scontro fra Macbeth e Macduff, è realizzato in modo troppo sciocco
per descriverlo, e meglio lasciarlo qui.
Nel
tentativo di mostrarsi originale, o forse per un malinteso senso di
realismo, il film toglie un altro evergreen shakespeariano, il
bosco di Birnan che si muove verso Dunsinane. Qui il bosco viene
semplicemente incendiato, per cui “muoversi” è metafora del mare
di fumo e faville; d'accordo, ma non si è pensato che così crolla
quel nocciolo di verità derisoria che la profezia ingannatrice
possiede, e non comprenderlo vuol dire non capire il Macbeth.
Sul
piano del linguaggio cinematografico, il film certamente sa sfruttare
la fotografia di Adam Arkapaw: una Scozia primitiva dove sembra di
sentire sulla pelle il gelo e l'umidità. E' normalmente efficace
nell'illustrare la crudeltà (l'assassinio di Duncan). Però non va
oltre, e il montaggio sembra deciso a distruggere l'effetto della
messa in scena: sono orribili alcuni ralenti da videoclip, alcuni
inutili lampi di flashback, alcuni
veloci pot-pourri di inquadrature, che il regista sembra voler
immettere giusto per dare un tocco di “modernità”.
In
conclusione, vale sempre la considerazione che, prima di misurarsi
con Welles (o anche con Polanski) sul suo terreno, uno dovrebbe
calcolare meglio le proprie forze.