domenica 3 gennaio 2016

Il ponte delle spie

Steven Spielberg

Vi sono luci e ombre ne Il ponte delle spie di Spielberg, e ciò non dipende dal suo modo di ripetere accuratamente modelli cinematografici del passato. Il limite non è questo classicismo un po' programmatico – altrimenti bisognerebbe criticare altre opere ammirevoli quali Lontano dal Paradiso di Todd Haynes o (diversamente) Revolutionary Road di Sam Mendes o, inedito in Italia, lo splendido giapponese “hitchcockiano” Zero Focus di Inudo Isshin. E' peraltro vero che in quei film si tratta di una riscrittura (postmoderna, per usare un aggettivo abusato) mentre quella di Spielberg - non citazione ma adesione – si potrebbe definire serenità.
Il punto è che Il ponte delle spie viola il principio estetico fondamentale che il tutto è più della somma delle parti. Così il film si fa ricordare più per le singole sezioni, di valore diseguale, che per l'insieme.
Infatti il film drammatizza una storia vera della Guerra Fredda - siamo nel 1957 - in tre parti. La prima - la migliore, un piccolo gioiello “hitchcockiano” di concentrazione e intensità - è un mini-film di spionaggio, narrato in maniera interamente oggettiva, ovvero non focalizzato, che racconta l'attività spionistica e l'arresto di Rudolf Abel (Mark Rylance). Secco, freddo (e ben servito in questo dalla tavolozza quasi stinta della bellissima fotografia di Janusz Kaminski), rende meravigliosamente l'elemento antieroico, triste e disincantato dello spionaggio/controspionaggio: quello vero, non James Bond; ricorda piuttosto i romanzi di Le Carré. Fino al grottesco “coeniano” della spia arrestata in mutande nella camera d'albergo, che chiede che gli lascino mettere la dentiera. Dico coeniano perché la sceneggiatura di Matt Charman è stata rivista dai fratelli Coen, e sembra giusto attribuire loro certe irruzioni di bizzarria nel film.
La prima inquadratura è una splendida materializzazione visiva dello spionaggio come condizione interiore: il pittore dilettante e spia sovietica Abel sta dipingendo un autoritratto, e vediamo una triplicazione del suo viso, fra lui, lo specchio in cui si guarda e il suo volto riprodotto sulla tela. Cos'è una spia se non qualcuno che si è moltiplicato la vita creando una realtà fittizia? Però l'umanista Spielberg si pone sempre la domanda: dov'è l'uomo?
E', questa parte, una descrizione oggettiva, procedural, che trova il suo oggetto-simbolo nella falsa moneta: un oggetto che vediamo sia in questa situazione sia in quella analoga e parallela della spia americana Gary Powers che sorvola in aereo l'Unione Sovietica con l'U-2. Giacché il film si costruisce su un montaggio alternato tanto materiale quanto ideale: “noi” e “loro”, impegnati a spiarsi a vicenda. Arrestato Abel, la sua difesa viene affidata all'avvocato Donovan (un meraviglioso Tom Hanks: la sua scena di presentazione è un altro gioiello). Direbbe il Woody Allen di Irrational Man che Donovan segue un'etica giuridica kantiana laddove tutti si aspettavano un'etica circostanziale. Sulla base che la perquisizione che l'ha incastrato era illegale (c'era il mandato di arresto ma non quello di perquisizione della stanza d'albergo), Donovan difende grintosamente Abel fino ad appellarsi alla Corte Suprema. Ciò gli costa una diffusa impopolarità.
Il ponte delle spie si è così trasformato in un courtroom drama - dove Tom Hanks si delizia a rifare Spencer Tracy, nella tradizione di una linea di rocciosi avvocati idealisti del cinema americano. Qui però il film mostra un limite: diventa didattico, un difetto non ignoto a Spielberg. Sia a livello della storia, amplificando le manifestazioni di ostilità rispetto alla realtà storica (gli spari alla finestra) o con la scena “telegrafata” del poliziotto che inveisce contro Donovan; sembra che Spielberg e gli sceneggiatori temessero che l'ostilità degli sguardi non fosse abbastanza chiara; sia (peggio) a livello del discorso: Spielberg è sempre stato un regista enfatico, prendere o lasciare, ma qui esagera in inquadrature dal basso e in sottolineature iper-marcate della musica di Thomas Newman. Recupera anche la fisiognomica morale: l'agente della CIA Hoffmann porta la sua condanna scritta sul volto (non per niente ci impressionerà di più col suo bel viso “aperto” un'altra figura negativa del film, l'avvocato Vogel, rappresentante della Germania Est). Convincente è comunque il quadro d'insieme, che descrive una società americana terrorizzata dalla prospettiva della guerra atomica (in una scena dei bambini assistono terrorizzati a un documentario sulla Bomba). Il film usa molto, nella prima parte, il falso raccordo; ed è un bellissimo tocco di montaggio il passaggio dall'“In piedi!” intimato nel processo quando entra la corte e la classe di bambini che in piedi giura fedeltà agli Stati Uniti.
Il terzo movimento del film si ha quando a Donovan è richiesto, da Allen Dulles in persona, di trattare a Berlino Est, in forma non ufficiale, lo scambio tra Rudolf Abel e Gary Powers, catturato dopo che il suo aereo è stato abbattuto. Con la complicazione che i tedeschi orientali hanno arrestato uno studente americano ed hanno una propria “agenda”, non coincidente con quella del fratello maggiore russo; l'avvocato intende – contro la CIA che pensa solo a Powers - comprendere nello scambio entrambi. Bel tratto della sceneggiatura, ciò ha un legame sotterraneo con il discorso “olistico” sul tutto e le singole parti che Donovan faceva all'inizio circa una causa di assicurazioni.
Qui Il ponte delle spie diventa un'avventura diplomatico/spionistica, ma soprattutto spionistica (diversa dalla prima perché soggettiva, focalizzata su Tom Hanks), sia perché Donovan si muove senza protezione alcuna, nel rischio continuo dell'infiltrato in un mondo ostile, sia per la nebbia di ambiguità che circonda le trattative e dà loro un aspetto irreale. Il film rende bene il senso di spossatezza e paura in questo gioco d'ombre e di maschere nella cupa Berlino Est ancora piena di macerie e diventa sempre più teso man mano che questa trattativa perigliosa e accidentata prosegue, fino a una memorabile scena di scambio sul ponte. Dove i riflettori “sparati” verso la mdp riprendono (non è la prima volta nel film) il classico topos visivo spielberghiano delle luci dirette verso l'occhio dello spettatore (l'occhio essendo il cuore del cinema di Spielberg, sul che ritorneremo fra poco).
Il ponte delle spie potrebbe finire su questa scena, e un epilogo piuttosto lungo potrebbe esser giudicato inutile - se non ci fosse nel finale un dettaglio che è un altro momento alto del film. Sullo sfondo della storia v'è la descrizione del Muro di Berlino in costruzione, in tutto il suo crudele orrore. In una scena, che Spielberg porge abilmente in modo quasi casuale, Donovan viaggiando di notte sul metrò sopraelevato di Berlino Est vede una famiglia con bambina cercar di valicare il muro ed essere falciata dai mitra delle guardie comuniste. Alla fine del film, tornato a casa in America, sta viaggiando sulla sopraelevata e vede dei ragazzini che per gioco scavalcano la rete di recinzione di un giardino - e ricorda. Il film si chiude sulla sua espressione raggelata.
In tutto il cinema di Spielberg (come in quello di Ridley Scott, per inciso) è un punto centrale l'insostenibile peso della visione. Che può essere una visione di orrore come qui (e ve ne sono esempi classici nel ciclo di Indiana Jones) o anche di disperata bellezza, come in un'altissima pagina de L'impero del sole (il ragazzino inglese prigioniero di guerra che vede la cerimonia di arruolamento dei kamikaze giapponesi – e non può fare a meno di cantare un canto solenne per accompagnarla); ma è sempre una visione da cui l'occhio è colpito come da una lama. 
 

1 commento:

John ha detto...

Caro Giorgio, sono contento soprattutto di una cosa, che il giudizio che dai sulla somma delle parti non riesce a togliere nulla alla bellezza dei singoli frammenti che descrivi. A me il film è piaciuto molto, una bella zampata del migliore Spielberg, che è migliore quando parla di libertà e diritti civili. Il suo capolavoro in questo senso è "Amistad".

Interessante il confronto fra "verità storica" (ammesso che la fonte sia degna di fede) e quel che si racconta nel film. Un grande lavoro anche a partire dalla somiglianza fisica dei protagonisti.

Buon 2016.

http://www.historyvshollywood.com/reelfaces/bridge-of-spies/