lunedì 28 settembre 2009

Il mio vicino Totoro

Miyazaki Hayao

Arriva ora sugli schermi italiani, sull'onda della successiva fama mondiale di Miyazaki Hayao, “Il mio vicino Totoro”, realizzato nel 1988; al pari del meraviglioso “Kiki's Delivery Service”, questo lungometraggio a cartoni animati appartiene, a parere di chi scrive, al periodo più alto dell'arte di Miyazaki, quello del massimo incanto e semplicità.
Non v'è altro aggettivo che “incantevole” per definire ogni singolo minuto de “Il mio vicino Totoro”, sia per la storia sia semplicemente per il disegno. Risalta particolarmente in questo cartoon quella distesa nettezza del quadro paesaggistico che è tipica dei film di Miyazaki (ma non dobbiamo scordar di menzionare l'apporto del grandissimo background artist e art director di tanta produzione dello Studio Ghibli, Oga Kazuo). Guardate i campi verdi nel fulgore del sole o nella malinconia del crepuscolo oppure ancora sotto la pioggia; guardate la bellezza delle gocce di pioggia che cadono tra le piante di riso: neppure Disney (e parliamo di un grande pittore della natura) ha mai ottenuto qualcosa di simile. Aleggia una vibrazione diversa su questi campi a seconda dei momenti della giornata; il disegno di Miyazaki e Oga non è grande solo nella dimensione pittorica spaziale ma nella sua determinazione atmosferica: quel cambiamento della luce che scandisce le ore, non le ore nel senso borghese dell'orologio ma in quello contadino dei lenti stadi del giorno. Forse la sua realizzazione più bella, ritornante nel cinema di Miyazaki, è quando scende la dolcezza un po' triste della sera.
Dopo che Satsuki ha scritto la lettera alla madre raccontando dei semi magici ricevuti in regalo, il film presenta tre brevi inquadrature “vuote” dell'esterno della casa: le vivifica in modo “musicale” il movimento opposto delle nuvole in cielo - prima da destra a sinistra, poi da sinistra a destra, poi ancora da destra a sinistra con la luna piena che brilla dietro - quietamente amplificando il senso di magia. Miyazaki porta nel cartoon quella profonda “risonanza” della natura ch'è sottesa alla cultura giapponese. I grandi alberi mossi dal vento che li fa risonare (visti prima della scena incantevole del padre con le figlie nel bagno) non trasmettono una sensazione di alterità e di minaccia, come potrebbe essere in Occidente, quanto di arcana potenza - la sensazione che ci si aspetta da una cultura che riconosce i Kami, gli spiriti della natura, dove il confine tra i due mondi è labile e impreciso. Oppure in un'altra scena un'inquadratura vastissima mostra la piccola Mei che corre nella campagna, e di lì lo sguardo del film si alza su su fino alle nuvole immobili, manifestazione di una natura possente e presente.
E' una storia semplice, dove il contenuto drammatico è ridotto al minimo. Due sorelline, Satsuki e Mei, vanno ad abitare col padre - il tipo di padre che ogni bambino vorrebbe avere - in una vecchia casa in campagna. La madre è malata all'ospedale e i medici dilazionano il suo ritorno (questo è un appunto autobiografico di Miyazaki). Ma intanto il mondo è uno scrigno di meraviglie. In casa trovano gli spiritelli della polvere, fuori gli spiriti del bosco, invisibili agli adulti; fanno amicizia col grande “spirito guardiano” Totoro, che resta affascinato dall'ombrello che gli regalano e che le porta in volo con sé (“Siamo il vento!”, un'altra incarnazione di quell'amore del volo che caratterizza Miyazaki); fanno la conoscenza del gattobus, un gatto a forma di autobus dalle molte zampe e dal sogghigno un po' inquietante, il mezzo di trasporto degli spiriti della foresta. Il loro rapporto con queste creature riporta a quell'unione uomo-natura ch'è la grande nostalgia che attraversa tutti i film di Miyazaki.
L'ovvio riferimento al Gatto del Cheshire di “Alice nel paese delle meraviglie” è esplicitato alla fine, quando il gattobus scompare lentamente; “Alice” è altresì presente nel modo in cui Mei segue uno spiritello bianco e cade in una buca fino alla tana di Totoro. Bisogna però osservare la differenza: “Alice” è onirico, disturbante, non privo di suggestioni sessuali; “Totoro” è olistico, pacifico, mostra una felice integrazione nella natura. Le preoccupazioni sono legate alle cose della vita quotidiana (la malattia della madre, la paura generale quando Mei si perde), laddove in “Alice” la famiglia normale è messa fra parentesi e l'inquietudine appartiene al mondo del sogno.
Un'identica meraviglia dello sguardo abbraccia le creature del mondo di tutti i giorni, come un gruppo di girini in una pozza, o quello del mondo degli spiriti, come Totoro. Il film è una magnifica descrizione dell'universo infantile, dalla felicità di esplorare la nuova casa-labirinto all'élan delle emozioni gioiose (ma non sempre) dell'immergersi nel vasto spazio esterno. Talmente concentrato sulle due bambine è il film, che i discorsi del padre con la madre all'ospedale sono messi in ellissi (nella prima scena) o si concentrano sulle due figlie (nell'ultima): perché sono loro al centro del racconto.
Alla fine del film i titoli di coda ci raccontano il seguito della storia (sì, la mamma ritorna) con semplici disegni. L'ultimo di questi è il gattobus visto da dietro, da lontano, mentre va via. Ciò anticipa quel momento della vita di Satsuki e di Mei quando saranno cresciute e non lo vedranno più. Non c'è rimpianto in questo, e non solo perché è affidato alla dimensione del disegno entro i credits, che è totalmente enunciativa (cioè ne porta tutta la responsabilità l'istanza narrante). Non c'è rimpianto perché è naturale che sia così. Come tutto il Miyazaki più grande, “Totoro” contiene un senso di quieto fluire dell'esistenza, di inserimento nell'ordine delle cose - in una parola, di pace.

domenica 20 settembre 2009

Drag Me to Hell

Sam Raimi

Era il 1981 quando l'esordiente Sam Raimi fece l'elettroshock al cinema horror americano con un film geniale, “The Evil Dead” (“La casa”), cui seguì sei anni dopo uno pseudo sequel che in realtà era un remake, “Evil Dead II” (“La casa 2”), più strutturato ma egualmente folgorante. In seguito Raimi ha avuto una carriera hollywoodiana importante, ma solo adesso con lo splendido “Drag Me to Hell” ritorna in pieno allo spirito di quei due film. Basta la crudeltà assoluta del prologo, col bambino trascinato all'inferno per un piccolo furto (quella luce rossa che erompe da sotto quando si apre la terra l'avevamo già vista in “The Evil Dead”), per dirci che siamo al di fuori di qualsiasi tipo di compiacenza.
Scritto da Sam e Ivan Raimi, il film è la storia di una maledizione. Christine (Alison Lohman), dirigente di banca, mira al posto di vicedirettore. Quando una vecchia zingara malata e d'aspetto sgradevole la implora di concederle una dilazione del mutuo per non perdere la casa, lei gliela rifiuta, allo scopo di mostrarsi determinata agli occhi del boss (avviso per il lettore: di qui in poi questa recensione è riservata a chi ha già visto il film, perché contiene consistenti spoiler). Maledetta dalla donna, che poco dopo muore, Christine ha tre soli giorni di vita, in cui verrà tormentata dalle manifestazione della lamia, il demone che poi la trascinerà all'inferno.
La protagonista è una yuppie in ritardo, una piccola creatura egoista che si trova sbalestrata quando, in nome del suo “particulare”, ha messo in moto forze molto più grandi di lei (in tutto il suo cinema Raimi ama i protagonisti “al di sotto del racconto”). Inutile osservare che l'argomento tocca un nervo vivo nel presente americano: oggi negli States in crisi economica le banche non sono esattamente popolari, e l'antipatia nei loro confronti (che era un punto fisso già nei film sulla Grande Depressione) assume in “Drag Me to Hell” i tratti di una lucida allegoria.
Naturalmente la regia di Raimi non ha più l'irruenza anarchica del 1981. Accanto al senso cinetico che lo ha sempre caratterizzato, c'è una tecnica raffinata, che a tratti riprende stilemi dell'horror classico, dall'uso delle ombre (ma non c'entra Jacques Tourneur, come ha sostenuto qualcuno) alle inquadrature oblique, nella sequenza dentro la fossa, che rimandano all'horror para-espressionista della Universal degli anni '30. Però dei due “Evil Dead” Raimi recupera in pieno lo spirito radicale, la fisicità che si esprime nelle forme di eccesso più spudorato, e naturalmente l'incrocio di orrore e buffoneria. Prendiamo la levitazione dell'uomo posseduto dalla lamia (scena che richiama immediatamente due manifestazioni demoniache di quei due film): l'indemoniato balla sospeso a mezz'aria, e la score fornisce una musichetta allegra - è puro orrore ed è l'elemento buffonesco raimiano: i demoni di Raimi adorano prenderci in giro.
Per Raimi l'irruzione del male nelle cose significa la perdita del loro ordine naturale: non solo il morto diventa vivo (una perversa parodia del vivente), ma anche l'inorganico, l'oggetto. L'illustrazione migliore ne è la famosa scena della “casa che ride” in “Evil Dead II”, quando accanto al protagonista ferito e disperato una testa di cervo imbalsamata si muove e comincia a sghignazzare, ad essa si unisce una lampada da tavolo, e poi un'intera libreria, coi volumi che si sfogliano cachinnando - finché anche l'uomo non inizia a ridere istericamente. Questa vivificazione delle cose viene, come tanta parte dell'horror di Raimi, direttamente dal cartone animato. “Drag Me to Hell” riprende da “Evil Dead” la gag del colpo in testa al mostro che gli fa schizzar fuori un occhio che vola in bocca al personaggio: il tipico trasferimento horror della logica dei cartoni animati. Ma se lo slapstick da cartoon sta alla base dell'horror raimiano, non è nel senso che Raimi incroci l'horror con la sua autoparodia (per quello c'è il Freddy Krueger di Robert Englund) bensì in quello, più inquietante, che Raimi riconduce l'orrore - e per estensione la tragedia - alle sue radici comiche, cioè all'assurdità intrinseca dell'esistenza.
Quel ch'è più ammirevole in “Drag Me to Hell” è la sua lucida crudeltà. Nulla lo esprime meglio della scena del sacrificio di un bellissimo gattino, contro tutti i tabù hollywoodiani. Al suggerimento di placare la lamia sacrificando un animale, per esempio un pollo, Christine, la vegetariana, aveva protestato: “Non se ne parla!” Ma dopo un'altra scena di paura, senza neanche sciogliersi in lacrime prende un coltello e comincia ad andare in cerca del suo gatto (anche in “Evil Dead” i personaggi avevano una forte tendenza a muoversi sulla base del “ciascuno per sé”). Da notare come Raimi realizza la scena, con il gattino nel suo cesto e la classica “ombra del mostro” che si staglia su di lui: solo che qui il mostro è Christine - e questo rovesciamento in cui la vittima coincide con il mostro non si limita al singolo episodio ma determina tutto il film.
Rientra in questa spietatezza narrativa un finale che è puro genio di logicità e crudeltà. Ci fa pensare che, a parte l'horror grafico e ovviamente la dilatazione temporale, “Drag Me to Hell” potrebbe essere un episodio della vecchia serie tv “Ai confini della realtà”: una serie memorabile per la sua logica “mathesoniana” (il grande Richard Matheson fu uno dei principali autori), che ancora oggi resta un modello di perizia narrativa.

Il cattivo tenente

Werner Herzog

Il problema di qualsiasi remake è che parte in condizioni d'inferiorità. Perché il tempo stende comunque una patina di nobiltà sul film precedente: “La guerra dei mondi” di Spielberg è più bello di quello di Byron Haskin del 1953, ma se pensiamo ai marziani con le loro macchine volanti a forma di manta, la nostalgia premia il primo film. Tanto più ci vuole coraggio per fare il remake di un capolavoro - come “Il cattivo tenente” di Abel Ferrara (1992) con Harvey Keitel.
Per la verità, Werner Herzog ha dichiarato che il suo “Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans”, interpretato da Nicolas Cage, non intende essere il remake dell'altro, e che dargli quel titolo è stata un'idea dei produttori. Ma bisognerebbe chiederlo allo sceneggiatore William Finkelstein. Non solo la concezione del personaggio, un poliziotto drogato, lascia adito a pochi dubbi, ma ci sono dei riscontri inequivocabili: la scena di Nicolas Cage che abusa del suo potere su due giovani beccati con droga in un parcheggio, facendosi la ragazza e obbligando il fidanzato a guardare, equivale esattamente a quella di Harvey Keitel che umilia sessualmente due ragazze trovate a guidare senza patente l'auto del padre. La verità è che Finkelstein ha preso il personaggio e non la storia; ma faceva meglio a prendere anche quella: perché ha trasformato la lancinante ricerca del senso e la mistica del sacrificio di Ferrara in qualcosa che al confronto sembra Biancaneve. Significativamente qui Nicolas Cage diventa drogato in seguito ai dolori alla schiena dovuti a un salvataggio, ciò che ci fa passare dal libero arbitrio di Ferrara a una causalità vagamente giustificazionista; e che si lega a un poeticismo spompato come il cucchiaio d'argento, e a un happy end salvato solo da una certa (banale) ironia.
Anche se stiamo al gioco e dimentichiamo Ferrara, i conti non tornano: Herzog resta un grandissimo nel campo del documentario, ma “Il cattivo tenente” conferma un suo declino nel campo del cinema di fiction che già era annunciato da “Invincibile” del 2001. In quel film deludente, tuttavia, qualcosa lasciava un'impressione residuale herzoghiana: l'immagine allucinata dei i granchi rossi, l'elemento teatrale-circense e il concetto dell'ipnosi riportavano al mondo di Herzog, e anche il personaggio manteneva almeno un'impronta dell'eroe herzoghiano (la più facile) in quanto era un veggente.
E' poco, ma ancor meno ne resta ne “Il cattivo tenente”. Un regista che ha costruito la sua filmografia sull'esigenza della “visione assoluta” e sul suo scacco, popolandola di eroi deliranti autodistruttivi, qui è quasi irriconoscibile. Basta osservare questo: Herzog - che è in tutto e per tutto un romantico tedesco - è un superbo osservatore della natura; qui l'ambientazione è a New Orleans dopo l'uragano Katrina; eppure la natura risulta cospicuamente assente. Solo in qualche passaggio visionario si riconosce la mano immaginifica dell'autore tedesco ma - tocca riprendere il concetto con maggior enfasi - sono tocchi irreparabilmente residuali: il serpente d'acqua all'inizio, l'alligatore investito per strada, l'allucinazione degli iguana, e infine la visione dell'anima di un morente che balla (ma uno finisce per chiedersi se Herzog non stia seguendo male David Lynch).
L'aspetto più interessante del film è la fotografia di Peter Zeitlinger. I suoi colori realistici e quotidiani concretizzano un'America povera (anche dove girano soldi), amara ed estenuata; il film privilegia l'inquadratura dal basso, con un moderato uso del grandangolo, tendente leggermente all'obliquo: le figure sembrano incombere, riempiono lo schermo come se stessero per ribaltarsi verso lo spettatore, con effetto vagamente angoscioso. Ma ciò non basta a redimere “Il cattivo tenente”. Il dispiacere non è per Abel Ferrara, che se fosse morto si rotolerebbe nella tomba, siccome è vivo sul sofà, ma per Herzog - che con questo film entra nella schiera degli ex.

domenica 6 settembre 2009

L'era glaciale 3 - L'alba dei dinosauri

Carlos Saldanha e Mike Thurmeier

Mosso e divertente, sebbene inferiore agli esempi migliori dell'attuale grande stagione del cartoon americano, “L'era glaciale 3 – L'alba dei dinosauri” riprende un vecchio mito del cinema (e della letteratura popolare a partire almeno da Sir Arthur Conan Doyle): il Mondo Perduto: un luogo segreto dove l'evoluzione si è fermata e sopravvivono i dinosauri. Lo sciocchissimo bradipo Sid cade in una vasta grotta sotterranea e, desiderando una vita familiare, ha la bella idea di appropriarsi di tre grosse uova che ha trovato; ma si tratta di tre uova di dinosauro. Lui prova comunque ad allevare i tre feroci cuccioli (“Sono una mamma single con tre figli, avrò diritto a un po' di comprensione!”). Va detto, un colpo basso della distribuzione è che il trailer ha già fatto conoscere in anticipo agli spettatori le gag più divertenti: come il tentativo, degno di un “American Pie” preistorico, di procurarsi del latte mungendo un bufalo addormentato – per accorgersi troppo tardi che è maschio.
Si capisce che poi arriva furente la vera madre (come nel “Mondo perduto” di Spielberg, che ha solo il titolo in comune con quello di Conan Doyle) e la ricerca di Sid, rapito da mamma dinosaura e portato nel suo mondo, coinvolge tutto il gruppo di protagonisti fissi della serie, il cui tradizionale aspetto di comedy si traduce qui in una versione leggermente più avventurosa.
In tutti i vari racconti, il Mondo Perduto - cosa ancor più chiara quando si trova sotto la superficie, e vale anche per “Viaggio al centro della Terra” di Verne - è un autentico “piano di sotto dell'evoluzione”: il rispuntare di uno stadio che dovrebbe essere morto e superato. E' appropriatissimo dunque che il ponte su cui i nostri eroi si avventurano per raggiungere il mondo sotterraneo sia un immenso scheletro di dinosauro: la morte che non è morta, in quanto serve ancora da tramite; e che nel finale questo scheletro vada a pezzi: il ponte scompare, le ossa si sparpagliano, il passato è sigillato (quindi in realtà non è l'alba dei dinosauri ma il loro tramonto).
Il Mondo Perduto rappresenta il “piano di sotto” anche nel senso della psicologia del profondo (c'è un'interessantissima pagina in merito in Conan Doyle, in cui il suo professor Challenger si rispecchia in uno scimmione). Il luogo dei dinosauri non è tanto un altro luogo quanto un altro tempo. Anche qui; non vale l'obiezione che siamo comunque nella preistoria; non perché pur essa è divisa in stadi evolutivi ma perché i protagonisti della saga de “L'era glaciale” sono americani di oggi sotto il travestimento peloso di mammut, tigre dai denti a sciabola e bradipo. Infatti nel film c'è un 'opposizione fra questi “animali preistorici” umanizzati (il mammut prepara per il suo nascituro una stanza dei giochi) e i dinosauri mostruosi e bestiali: animali-animali che danno la caccia ad animali-uomini. Dove i tre piccoli di dinosauro adottati da Sid non realizzano se non comicamente e ingannevolmente la figura del bambino - che invece è esplicata in tutte le sue connotazioni dalla mammutina (si dice così?) appena nata.
Tuttavia - in questo pare inevitabile vedere un elemento di debolezza della serie - il punto massimo di attenzione, l'eroe non eponimo, il simbolo della saga non sono i tre protagonisti ma un personaggio laterale: il proto-scoiattolo zannuto Scrat, la cui caccia infinita e fanatica (oggettivamente drammatica) a una ghianda che gli sfugge sempre lo ritaglia dal contesto presente per accomunarlo piuttosto a una diversa tradizione del cartoon americano: la Warner Bros. Pur apparendo come una sorta di indipendente controcanto slapstick di queste storie, Scrat ne è il personaggio più riuscito e attraente (la sua esperienza di pre-morte con la visione del paradiso delle ghiande ne “L'era glaciale 2” è destinata a restare la vera pagina indimenticabile di tutto il ciclo).
Con “L'era glaciale 3” Scrat trova una compagna, Scrattina, splendidamente caratterizzata come una foxy lady cinica e sensuale, finché non s'innamora - una Jessica Rabbit pelosa. E davanti al matrimonio Scrat si trova di fronte al grande problema di tutti gli eroi avventurosi seriali. Perché il matrimonio lo fa uscire dalla dimensione atemporale (e sì, il matrimonio fa passare dall'Avventura alla Storia - lo sanno anche gli esseri umani). L'opposizione base della serie dell'“Era glaciale” è quella tra la dimensione vettoriale (da A a B passando per una serie di complicazioni) delle peripezie dei tre protagonisti e la dimensione circolare dell'eterno correre di Scrat, che né conquista definitivamente la ghianda né rinuncia. E' questo che gli dà una sorta di solennità eroica, perché mette in evidenza più il movimento che l'obiettivo sadicamente sfuggente: e questo movimento è di per sé eroico (che cos'è l'eroismo? E' la determinazione). Così ora Scrat deve fare i conti con la grande polarità dell'immaginario maschile: la donna o la ghianda? E' il caso di dire: Scrat, sei tutti noi.

(Il Nuovo FVG)