domenica 20 settembre 2009

Il cattivo tenente

Werner Herzog

Il problema di qualsiasi remake è che parte in condizioni d'inferiorità. Perché il tempo stende comunque una patina di nobiltà sul film precedente: “La guerra dei mondi” di Spielberg è più bello di quello di Byron Haskin del 1953, ma se pensiamo ai marziani con le loro macchine volanti a forma di manta, la nostalgia premia il primo film. Tanto più ci vuole coraggio per fare il remake di un capolavoro - come “Il cattivo tenente” di Abel Ferrara (1992) con Harvey Keitel.
Per la verità, Werner Herzog ha dichiarato che il suo “Il cattivo tenente - Ultima chiamata New Orleans”, interpretato da Nicolas Cage, non intende essere il remake dell'altro, e che dargli quel titolo è stata un'idea dei produttori. Ma bisognerebbe chiederlo allo sceneggiatore William Finkelstein. Non solo la concezione del personaggio, un poliziotto drogato, lascia adito a pochi dubbi, ma ci sono dei riscontri inequivocabili: la scena di Nicolas Cage che abusa del suo potere su due giovani beccati con droga in un parcheggio, facendosi la ragazza e obbligando il fidanzato a guardare, equivale esattamente a quella di Harvey Keitel che umilia sessualmente due ragazze trovate a guidare senza patente l'auto del padre. La verità è che Finkelstein ha preso il personaggio e non la storia; ma faceva meglio a prendere anche quella: perché ha trasformato la lancinante ricerca del senso e la mistica del sacrificio di Ferrara in qualcosa che al confronto sembra Biancaneve. Significativamente qui Nicolas Cage diventa drogato in seguito ai dolori alla schiena dovuti a un salvataggio, ciò che ci fa passare dal libero arbitrio di Ferrara a una causalità vagamente giustificazionista; e che si lega a un poeticismo spompato come il cucchiaio d'argento, e a un happy end salvato solo da una certa (banale) ironia.
Anche se stiamo al gioco e dimentichiamo Ferrara, i conti non tornano: Herzog resta un grandissimo nel campo del documentario, ma “Il cattivo tenente” conferma un suo declino nel campo del cinema di fiction che già era annunciato da “Invincibile” del 2001. In quel film deludente, tuttavia, qualcosa lasciava un'impressione residuale herzoghiana: l'immagine allucinata dei i granchi rossi, l'elemento teatrale-circense e il concetto dell'ipnosi riportavano al mondo di Herzog, e anche il personaggio manteneva almeno un'impronta dell'eroe herzoghiano (la più facile) in quanto era un veggente.
E' poco, ma ancor meno ne resta ne “Il cattivo tenente”. Un regista che ha costruito la sua filmografia sull'esigenza della “visione assoluta” e sul suo scacco, popolandola di eroi deliranti autodistruttivi, qui è quasi irriconoscibile. Basta osservare questo: Herzog - che è in tutto e per tutto un romantico tedesco - è un superbo osservatore della natura; qui l'ambientazione è a New Orleans dopo l'uragano Katrina; eppure la natura risulta cospicuamente assente. Solo in qualche passaggio visionario si riconosce la mano immaginifica dell'autore tedesco ma - tocca riprendere il concetto con maggior enfasi - sono tocchi irreparabilmente residuali: il serpente d'acqua all'inizio, l'alligatore investito per strada, l'allucinazione degli iguana, e infine la visione dell'anima di un morente che balla (ma uno finisce per chiedersi se Herzog non stia seguendo male David Lynch).
L'aspetto più interessante del film è la fotografia di Peter Zeitlinger. I suoi colori realistici e quotidiani concretizzano un'America povera (anche dove girano soldi), amara ed estenuata; il film privilegia l'inquadratura dal basso, con un moderato uso del grandangolo, tendente leggermente all'obliquo: le figure sembrano incombere, riempiono lo schermo come se stessero per ribaltarsi verso lo spettatore, con effetto vagamente angoscioso. Ma ciò non basta a redimere “Il cattivo tenente”. Il dispiacere non è per Abel Ferrara, che se fosse morto si rotolerebbe nella tomba, siccome è vivo sul sofà, ma per Herzog - che con questo film entra nella schiera degli ex.

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