domenica 20 settembre 2009

Drag Me to Hell

Sam Raimi

Era il 1981 quando l'esordiente Sam Raimi fece l'elettroshock al cinema horror americano con un film geniale, “The Evil Dead” (“La casa”), cui seguì sei anni dopo uno pseudo sequel che in realtà era un remake, “Evil Dead II” (“La casa 2”), più strutturato ma egualmente folgorante. In seguito Raimi ha avuto una carriera hollywoodiana importante, ma solo adesso con lo splendido “Drag Me to Hell” ritorna in pieno allo spirito di quei due film. Basta la crudeltà assoluta del prologo, col bambino trascinato all'inferno per un piccolo furto (quella luce rossa che erompe da sotto quando si apre la terra l'avevamo già vista in “The Evil Dead”), per dirci che siamo al di fuori di qualsiasi tipo di compiacenza.
Scritto da Sam e Ivan Raimi, il film è la storia di una maledizione. Christine (Alison Lohman), dirigente di banca, mira al posto di vicedirettore. Quando una vecchia zingara malata e d'aspetto sgradevole la implora di concederle una dilazione del mutuo per non perdere la casa, lei gliela rifiuta, allo scopo di mostrarsi determinata agli occhi del boss (avviso per il lettore: di qui in poi questa recensione è riservata a chi ha già visto il film, perché contiene consistenti spoiler). Maledetta dalla donna, che poco dopo muore, Christine ha tre soli giorni di vita, in cui verrà tormentata dalle manifestazione della lamia, il demone che poi la trascinerà all'inferno.
La protagonista è una yuppie in ritardo, una piccola creatura egoista che si trova sbalestrata quando, in nome del suo “particulare”, ha messo in moto forze molto più grandi di lei (in tutto il suo cinema Raimi ama i protagonisti “al di sotto del racconto”). Inutile osservare che l'argomento tocca un nervo vivo nel presente americano: oggi negli States in crisi economica le banche non sono esattamente popolari, e l'antipatia nei loro confronti (che era un punto fisso già nei film sulla Grande Depressione) assume in “Drag Me to Hell” i tratti di una lucida allegoria.
Naturalmente la regia di Raimi non ha più l'irruenza anarchica del 1981. Accanto al senso cinetico che lo ha sempre caratterizzato, c'è una tecnica raffinata, che a tratti riprende stilemi dell'horror classico, dall'uso delle ombre (ma non c'entra Jacques Tourneur, come ha sostenuto qualcuno) alle inquadrature oblique, nella sequenza dentro la fossa, che rimandano all'horror para-espressionista della Universal degli anni '30. Però dei due “Evil Dead” Raimi recupera in pieno lo spirito radicale, la fisicità che si esprime nelle forme di eccesso più spudorato, e naturalmente l'incrocio di orrore e buffoneria. Prendiamo la levitazione dell'uomo posseduto dalla lamia (scena che richiama immediatamente due manifestazioni demoniache di quei due film): l'indemoniato balla sospeso a mezz'aria, e la score fornisce una musichetta allegra - è puro orrore ed è l'elemento buffonesco raimiano: i demoni di Raimi adorano prenderci in giro.
Per Raimi l'irruzione del male nelle cose significa la perdita del loro ordine naturale: non solo il morto diventa vivo (una perversa parodia del vivente), ma anche l'inorganico, l'oggetto. L'illustrazione migliore ne è la famosa scena della “casa che ride” in “Evil Dead II”, quando accanto al protagonista ferito e disperato una testa di cervo imbalsamata si muove e comincia a sghignazzare, ad essa si unisce una lampada da tavolo, e poi un'intera libreria, coi volumi che si sfogliano cachinnando - finché anche l'uomo non inizia a ridere istericamente. Questa vivificazione delle cose viene, come tanta parte dell'horror di Raimi, direttamente dal cartone animato. “Drag Me to Hell” riprende da “Evil Dead” la gag del colpo in testa al mostro che gli fa schizzar fuori un occhio che vola in bocca al personaggio: il tipico trasferimento horror della logica dei cartoni animati. Ma se lo slapstick da cartoon sta alla base dell'horror raimiano, non è nel senso che Raimi incroci l'horror con la sua autoparodia (per quello c'è il Freddy Krueger di Robert Englund) bensì in quello, più inquietante, che Raimi riconduce l'orrore - e per estensione la tragedia - alle sue radici comiche, cioè all'assurdità intrinseca dell'esistenza.
Quel ch'è più ammirevole in “Drag Me to Hell” è la sua lucida crudeltà. Nulla lo esprime meglio della scena del sacrificio di un bellissimo gattino, contro tutti i tabù hollywoodiani. Al suggerimento di placare la lamia sacrificando un animale, per esempio un pollo, Christine, la vegetariana, aveva protestato: “Non se ne parla!” Ma dopo un'altra scena di paura, senza neanche sciogliersi in lacrime prende un coltello e comincia ad andare in cerca del suo gatto (anche in “Evil Dead” i personaggi avevano una forte tendenza a muoversi sulla base del “ciascuno per sé”). Da notare come Raimi realizza la scena, con il gattino nel suo cesto e la classica “ombra del mostro” che si staglia su di lui: solo che qui il mostro è Christine - e questo rovesciamento in cui la vittima coincide con il mostro non si limita al singolo episodio ma determina tutto il film.
Rientra in questa spietatezza narrativa un finale che è puro genio di logicità e crudeltà. Ci fa pensare che, a parte l'horror grafico e ovviamente la dilatazione temporale, “Drag Me to Hell” potrebbe essere un episodio della vecchia serie tv “Ai confini della realtà”: una serie memorabile per la sua logica “mathesoniana” (il grande Richard Matheson fu uno dei principali autori), che ancora oggi resta un modello di perizia narrativa.

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