Miyazaki Hayao
Arriva ora sugli schermi italiani, sull'onda della successiva fama mondiale di Miyazaki Hayao, “Il mio vicino Totoro”, realizzato nel 1988; al pari del meraviglioso “Kiki's Delivery Service”, questo lungometraggio a cartoni animati appartiene, a parere di chi scrive, al periodo più alto dell'arte di Miyazaki, quello del massimo incanto e semplicità.
Non v'è altro aggettivo che “incantevole” per definire ogni singolo minuto de “Il mio vicino Totoro”, sia per la storia sia semplicemente per il disegno. Risalta particolarmente in questo cartoon quella distesa nettezza del quadro paesaggistico che è tipica dei film di Miyazaki (ma non dobbiamo scordar di menzionare l'apporto del grandissimo background artist e art director di tanta produzione dello Studio Ghibli, Oga Kazuo). Guardate i campi verdi nel fulgore del sole o nella malinconia del crepuscolo oppure ancora sotto la pioggia; guardate la bellezza delle gocce di pioggia che cadono tra le piante di riso: neppure Disney (e parliamo di un grande pittore della natura) ha mai ottenuto qualcosa di simile. Aleggia una vibrazione diversa su questi campi a seconda dei momenti della giornata; il disegno di Miyazaki e Oga non è grande solo nella dimensione pittorica spaziale ma nella sua determinazione atmosferica: quel cambiamento della luce che scandisce le ore, non le ore nel senso borghese dell'orologio ma in quello contadino dei lenti stadi del giorno. Forse la sua realizzazione più bella, ritornante nel cinema di Miyazaki, è quando scende la dolcezza un po' triste della sera.
Dopo che Satsuki ha scritto la lettera alla madre raccontando dei semi magici ricevuti in regalo, il film presenta tre brevi inquadrature “vuote” dell'esterno della casa: le vivifica in modo “musicale” il movimento opposto delle nuvole in cielo - prima da destra a sinistra, poi da sinistra a destra, poi ancora da destra a sinistra con la luna piena che brilla dietro - quietamente amplificando il senso di magia. Miyazaki porta nel cartoon quella profonda “risonanza” della natura ch'è sottesa alla cultura giapponese. I grandi alberi mossi dal vento che li fa risonare (visti prima della scena incantevole del padre con le figlie nel bagno) non trasmettono una sensazione di alterità e di minaccia, come potrebbe essere in Occidente, quanto di arcana potenza - la sensazione che ci si aspetta da una cultura che riconosce i Kami, gli spiriti della natura, dove il confine tra i due mondi è labile e impreciso. Oppure in un'altra scena un'inquadratura vastissima mostra la piccola Mei che corre nella campagna, e di lì lo sguardo del film si alza su su fino alle nuvole immobili, manifestazione di una natura possente e presente.
E' una storia semplice, dove il contenuto drammatico è ridotto al minimo. Due sorelline, Satsuki e Mei, vanno ad abitare col padre - il tipo di padre che ogni bambino vorrebbe avere - in una vecchia casa in campagna. La madre è malata all'ospedale e i medici dilazionano il suo ritorno (questo è un appunto autobiografico di Miyazaki). Ma intanto il mondo è uno scrigno di meraviglie. In casa trovano gli spiritelli della polvere, fuori gli spiriti del bosco, invisibili agli adulti; fanno amicizia col grande “spirito guardiano” Totoro, che resta affascinato dall'ombrello che gli regalano e che le porta in volo con sé (“Siamo il vento!”, un'altra incarnazione di quell'amore del volo che caratterizza Miyazaki); fanno la conoscenza del gattobus, un gatto a forma di autobus dalle molte zampe e dal sogghigno un po' inquietante, il mezzo di trasporto degli spiriti della foresta. Il loro rapporto con queste creature riporta a quell'unione uomo-natura ch'è la grande nostalgia che attraversa tutti i film di Miyazaki.
L'ovvio riferimento al Gatto del Cheshire di “Alice nel paese delle meraviglie” è esplicitato alla fine, quando il gattobus scompare lentamente; “Alice” è altresì presente nel modo in cui Mei segue uno spiritello bianco e cade in una buca fino alla tana di Totoro. Bisogna però osservare la differenza: “Alice” è onirico, disturbante, non privo di suggestioni sessuali; “Totoro” è olistico, pacifico, mostra una felice integrazione nella natura. Le preoccupazioni sono legate alle cose della vita quotidiana (la malattia della madre, la paura generale quando Mei si perde), laddove in “Alice” la famiglia normale è messa fra parentesi e l'inquietudine appartiene al mondo del sogno.
Un'identica meraviglia dello sguardo abbraccia le creature del mondo di tutti i giorni, come un gruppo di girini in una pozza, o quello del mondo degli spiriti, come Totoro. Il film è una magnifica descrizione dell'universo infantile, dalla felicità di esplorare la nuova casa-labirinto all'élan delle emozioni gioiose (ma non sempre) dell'immergersi nel vasto spazio esterno. Talmente concentrato sulle due bambine è il film, che i discorsi del padre con la madre all'ospedale sono messi in ellissi (nella prima scena) o si concentrano sulle due figlie (nell'ultima): perché sono loro al centro del racconto.
Alla fine del film i titoli di coda ci raccontano il seguito della storia (sì, la mamma ritorna) con semplici disegni. L'ultimo di questi è il gattobus visto da dietro, da lontano, mentre va via. Ciò anticipa quel momento della vita di Satsuki e di Mei quando saranno cresciute e non lo vedranno più. Non c'è rimpianto in questo, e non solo perché è affidato alla dimensione del disegno entro i credits, che è totalmente enunciativa (cioè ne porta tutta la responsabilità l'istanza narrante). Non c'è rimpianto perché è naturale che sia così. Come tutto il Miyazaki più grande, “Totoro” contiene un senso di quieto fluire dell'esistenza, di inserimento nell'ordine delle cose - in una parola, di pace.
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