lunedì 29 novembre 2010

Porco Rosso

Miyazaki Hayao

Se per noi occidentali esotico è il Giappone, i ponticelli arcuati sui corsi d'acqua, i tetti a pagoda, i torii, la scarna verità dei giardini di sabbia buddhisti, perché non dovrebbe essere vero il contrario: per il genio dell'animazione giapponese Miyazaki Hayao esotica è un'Europa del sogno, un territorio di cieli azzurri pieni di nuvole bianche come cotone, e città di alte case ottocentesche con viuzze contorte che danno su vaste pazze; e la sua costa dalmata è assolata, il blu profondo del mare che rivaleggia con quello del cielo – un paesaggio immaginario di natura gloriosa, acqua trasparente e gente povera.
Sulla riviera adriatica si svolge l'avventura di “Porco Rosso”, un capolavoro di Miyazaki che esce sugli schermi italiani in leggero ritardo, diciotto anni dopo la sua realizzazione nel 1992. Porco Rosso è l'aviatore Marco Pagot, eroe della Grande Guerra, cui una maledizione imprecisata (forse la guerra stessa?) ha dato il volto di un maiale. E' il 1929; Porco Rosso vive in ritiro su un'isola segreta, dalla quale esce col suo idrovolante per combattere contro i “pirati del cielo” che saccheggiano le navi da crociera e contro il loro campione, l'americano Curtis – il quale dal canto suo sogna una carriera a Hollywood e per il dopo ha ambizioni presidenziali (potrebbe essere un riferimento a Lindbergh).
Porco Rosso è antifascista (“Piuttosto che diventare un fascista è meglio essere un maiale”); quando si reca in una Milano anch'essa immaginaria per far riparare dalla ditta Piccolo il suo aereo danneggiato, dovrà vedersela con la polizia segreta fascista e l'aviazione del regime (c'è una grande pagina di fuga dell'idrovolante sopra un Naviglio fiabesco); ma ci riuscirà, anche grazie all'aiuto dell'amico aviatore Arturo Ferrarin – che è il nome di un autentico asso dell'aviazione italiana. Come del resto il nome Pagot è un omaggio ai fratelli Pagot, padri dell'animazione in Italia; “Porco Rosso” è il film “italiano” del sommo cartoonist giapponese, anche visivamente costellato di cartelli e scritte italiane (con qualche buffo errore, “morto a vivo”, “non si fo credito”). Quando Porco Rosso riparte avventurosamente da Milano, la figlia adolescente dell'amico proprietario della ditta Piccolo, Fio (quindi il nome completo è Fio Piccolo), lo accompagna per lo scontro finale.
Questo film appartiene al periodo più alto dell'arte di Miyazaki, quello in cui l'incanto dello sguardo si sposa alla massima semplicità. “Il mondo è davvero stupendo!”, grida Fio in volo: il rapporto dei personaggi di Miyazaki con la struggente bellezza della natura è di di ammirato rispetto e insieme di fusione con essa (per Porco Rosso con il cielo e le nuvole). Non per nulla “Porco Rosso” è un film di aviatori; è un concetto ritornante in Miyazaki l'amore per il volo, magico o meccanico che sia, che è anche un amore per il paesaggio visto dall'alto: lo sguardo dall'alto del pilota aereo non è anche lo sguardo del disegnatore sulla pagina?
In aggiunta, Miyazaki è intriso di passione cinefila. Alla sua prima apparizione Porco Rosso sta dormendo al sole con sul viso la rivista “Cinema”. I pirati della banda Mamma Aiuto li comanda un sosia di Bluto, il nemico di Braccio di Ferro. A Milano il protagonista va al cinema a vedere un film a cartoni animati, rifatto da Miyazaki fra Disney e Fleischer. Quando Porco Rosso entra all'Hotel Adriano, dove il suo amore segreto, Madame Gina, canta una bellissima canzone francese d'antan, fa il suo ingresso come Humphrey Bogart; e tutto il suo comportamento, tutta la sua figura, tutta l'atmosfera che lo circonda è una nostalgica rievocazione degli eroi cavallereschi hollywoodiani del passato.
E' un film di sole e di volo, di scontri nell'azzurro (gli aerei dalle tinte vivaci volteggiano in cielo come coriandoli colorati), di amicizie e di ricordi, di adolescenza, di malinconica maturità, di amore sottaciuto, di timidezza maschile e di attesa femminile. In “Porco Rosso” lirismo e comicità raggiungono un punto di perfetta fusione, raro forse anche per Miyazaki. Basta pensare al sublime flashback sulla grande guerra – dove persino gli aeroplani che precipitano in fiamme hanno una loro cupa bellezza – quando il capitano Pagot , ancora col suo vero viso, viene inghiottito da una nuvola e vede salire lentamente verso il cielo gli aerei dei compagni e degli avversari caduti, che si radunano in un grande arco scintillante nell'alto del cielo... una pagina degna di Frank Borzage.
Lirismo e comicità. Impagabili questi pirati che vediamo travolti e tormentati da un'orda di bambine che hanno preso come ostaggio (alla domanda se prenderle tutte il capo risponde: “Per chi rimanesse esclusa sarebbe spiacevole, no?”) - bambine per le quali il combattimento aereo che segue è il più bello dei giocattoli. Impagabile lo scontro finale fra Porco Rosso e Curtis: siccome uno ha le mitragliatrici inceppate e l'altro ha finito i colpi, duellano nel cielo tirandosi addosso pezzi di ferro e chiavi inglesi; e poi a terra diventa un match di pugilato spinto all'estremo, come quello fra John Wayne e Victor McLagen al culmine di “Un uomo tranquillo” di Ford (ma con in più una comicità infantile e ribalda alla “Lupin III”).
E' un mondo gentile, dove basta un bonario rimprovero di Gina per far arrossire i terribili pirati e dove (allorché questi vogliono distruggere l'idrovolante di Porco Rosso) basta il grande discorso di Fio sull'onore degli aviatori per renderli convinti e plaudenti. “Porco Rosso” è, per ripescare un vecchio aggettivo desueto, un film rapinoso. Impercettibilmente, certo, ma vederlo cambia la vita.

My Son, My Son, What Have Ye Done

Werner Herzog

Sul masochismo dei distributori italiani rispetto ai titoli, si può sempre contare. Però aver voluto mantenere il titolo originale “My Son, My Son, What Have Ye Done” per l'ultimo (bellissimo) film di Werner Herzog sa di vera pervicacia nel farsi del male. Non che “Figlio mio, figlio mio, che cosa hai fatto” sarebbe stato un titolo da attrarre le folle (almeno nell'originale l'arcaico “Ye” annuncia il riferimento del film alla tragedia greca); nei panni del distributore, chi scrive si sarebbe inventato qualcosa sulla “casa dei fenicotteri”. E' qui che si matura la tragedia del film (un matricidio opera di un folle), raccontata in flashback mentre i poliziotti assediano la casa; quello dei fenicotteri è un motivo ossessivo che informa di sé tutta la casa di madre e figlio, fra statue, disegni, bicchieri, soprammobili, porte dipinte del garage, nonché due animali vivi – è come una versione pop/kitsch della casa di “Psycho”.
“My Son, My Son...” rappresenta il ritorno di Herzog a un cinema di fiction di alto livello dopo i deludenti “Invincibile” e “Il cattivo tenente”. Prodotto da David Lynch, aperto dal castello “David Lynch presents”, è il matrimonio fra l'aspirazione all'assoluto herzoghiana e la sospensione onirica lynchana. Un matrimonio singolarmente riuscito! Invero erano già lynchani ne “Il cattivo tenente” alcuni particolari, come il coccodrillo sulla strada: parente di molte ossessioni figurative herzoghiana, come le rane rosse che invadono il terreno in più di un suo film, ma fotografato in modo “splendente” alla Lynch. Però “My Son, My Son...” è molto di più; è una trasposizione di motivi narrativi e figurativi lynchani nelle vene di Herzog, come una trasfusione di sangue rivivificante. Da un lato si possono distinguere agevolmente nel film “momenti herzoghiani” e “momenti lynchani”; dall'altro essi si amalgamano in un arricchimento reciproco: verrebbe voglia di pensare ai due cineasti come coautori.
Il viso gelato di Brad (Michael Shannon in un'interpretazione monumentale) dà ai suoi deliri durante il viaggio in Perù una sfumatura epica – nota che il film è attraversato da una vena di perverso umorismo – e quando lui parla come un veggente sullo sfondo delle montagne realizza un'ennesima figura della galleria di pazzi di Herzog. Nella sua scena in un mercato peruviano (“Perché tutto il mondo mi sta guardando? Perché le montagne mi stanno guardando?”) la mdp lo abbandona per passare a riprendere con una sorta di fascino i volti rugosi vecchi peruviani sdentati - ma anche a nutrirsi vampirescamente della loro reazione all'essere filmati: ecco che il racconto si è trasformato in un autentico frammento di documentarismo herzoghiano.
Tornato Brad in America, la sua follia si sviluppa nel rapporto con una madre castratrice (non è un caso se nel ruolo della madre è stata scelta Grace Zabriskie), da cui non riesce a distoglierlo la sua ragazza (Chloë Sevigny). A chiusura dell'episodio della gelatina – un momento di grande imbarazzo a tre durante una cena in famiglia - c'è un momento assolutamente lynchano: sul filo dell'inquietante score musicale Brad, la madre e la fidanzata si immobilizzano in una posa classicamente centrata, come l'imitazione umana di un fermo immagine; ed è allo stesso tempo un commento metaforico alla loro situazione bloccata e un tableau astratto che sembra compendiare la scena congelandola nella dimensione dell'assoluto. E' purissimo Lynch la discussione fra i due poliziotti in macchina (Willem Dafoe e Michael Peña) in apertura; lo stesso si può dire della sublime inquadratura, più tardi, degli stessi due che avanzano cautamente verso il garage dove si è barricato Brad con gli “ostaggi”, mentre la mdp passa davanti a loro in un bizzarro carrello laterale.
Ma soprattutto il delirante racconto di un nano montato sul cavallo più piccolo del mondo, sconfitti entrambi da un gallo gigante più grande di loro, esprime appieno la sua natura lynchana quando si accompagna a un'inquadratura di tre personaggi immobili, un altro freeze frame umano; qui la centratura tipica di Lynch è decuplicata dall'incongrua presenza del nano del racconto (un nano è una figura anche herzoghiana, e basta ricordare il suo capolavoro “Anche i nani hanno cominciato da piccoli”; ma qui siamo in vero territorio Lynch). Tuttavia discutere le attribuzioni ideali di una scena o l'altra, benché interessante, non è un voler spartire le spoglie: perché il film rappresenta una felicissima congiunzione di autorialità il cui risultato è sempre unitario.
Questo tuffo in flashback nella follia - impagabile il viaggio all'allevamento di struzzi di zio Ted (Brad Dourif) - comprende il fallito tentativo di Brad come attore dilettante nella messa in scena di una tragedia greca (il regista è Udo Kier): questa naturalmente è un pastiche da Eschilo (“Coefore” ed “Eumenidi”) sull'uccisione di Clitemnestra da parte del figlio Oreste. La risonanza del testo classico instaura uno strano dialogo col carattere delirante e coll'ambientazione pop della tragedia americana; quando la follia di Brad incontra il mito greco si crea una serie di risonanze che, oltre ad ampliare il quadro sul piano diegetico, ne potenziano la drammaticità.
Giustamente l'atto concreto del matricidio che si compie nella villetta californiana delle vicine non è visto “in scena” ma arriva a noi narrato dalla vecchia vicina, esattamente come l'avvenimento sanguinoso avviene sempre fuori scena nella tragedia greca.
Ben servito da una score musicale eccezionale, nella quale ha parte importante la musica mariachi, “My Son, My Son...” è una tragedia della follia - e di un dolore universale e diffuso - che si dipana sullo schermo con allucinata convinzione e sconvolta, temeraria originalità.