Nel
cinema centripeto di Robert Bresson tutto precipita verso un elemento
centrale. Intorno all’occhio mite dell’asino Balthazar ruota
Au
hasard Balthazar;
se
il
suo raglio è un elemento di sviluppo del racconto, cioè parla
(indica metonimicamente i colpi alle bestie, dichiara la paura alla
vista del padrone), il suo occhio - la sinestesia si impone - è
muto.
E’ un elemento giudicante (non nel senso attivo umano) al quale
l’intero racconto viene riportato. Del pari in Une
femme douce
bruschi stacchi riportano ossessivamente i flashback alla testa
fracassata (brutale evidenza fisica inconsueta in Bresson) di
Dominique Sanda suicida stesa sul letto. La vana liturgia delle
parole di rimpianto/comprensione/autogiustificazione del marito viene
contraddetta dal precipitare dei
flashback contro
questo
testimonio muto che è il cadavere.
L’elemento
del testimonio
muto
è centrale in Bresson (il silenzio scontroso di Mouchette...).
Possiamo legare questo concetto all’importanza del silenzio, e al
correlato svilimento della parola, nel
suo cinema. I
santi tacciono
(come
Balthazar,
dichiarato esplicitamente santo nel film). Giovanna d’Arco
contrappone
alla
propria
dialettica
nel
processo il silenzio nella sua cella. Bresson crede ai suoni, non
alle parole; crede alla risonanza del silenzio (le sue celebri
lacrime).
Insiste
sulla fallacia della parola:
ama mostrare la falsità di vanaglorie,
proponimenti e auguri. Voce
narrante del protagonista
in
Pickpocket:
“Ero pieno di me stesso, mi sentivo il padrone del mondo” -
stacco su lui che s’allontana
e due che lo seguono - “Un minuto dopo venivo prelevato dalla
polizia”. Stesso film: il borseggiatore dice alla madre che
guarirà,
“Io
ne sono sicuro” - stacco sul funerale della donna. In Au
hasard Balthazar
la moglie prega Dio di non portarle via il marito malato -
l’inquadratura seguente
le reca
la
notizia della sua morte. E si potrebbe continuare
(in Une
femme douce
è un’autentica gag
l’episodio della frenata).
Questa
risposta
negativa
ritornante nel cinema
di
Bresson
ricorda
per
ironica
immediatezza (non sembri irriverente l’accostamento) le famose
correzioni
di Lubitsch. Ecco
l’ironia
di
cui Jean Sémolué - in una delle relazioni più stimolanti del
convegno udinese su Robert Bresson di dicembre - ha segnalato la
presenza nella cinematografia di quest’autore severo: negli scherzi
del destino, nei rovesciamenti, nella “demolizione di qualsiasi
sicurezza e volontà” (e qui va menzionata la carica di antipatia
che nei film di Bresson spetta ai vari consiglieri),
in questo
immediato
rispondere
del racconto
ai personaggi.
Ma
la risposta delle cose è la risposta di Dio; ciò che in Au
hasard Balthazar
è ancor più evidente perché risponde a una preghiera. Potremmo
parafrasare così: “Chiedete e non vi sarà dato”. Dunque
quest’automatica,
costante assicurazione della sventura si lega alla questione del male
nell’opera di Bresson,
dove diviene
sempre più forte e
pervasivo,
fino a incarnarsi nell’agente per eccellenza dello scambio nella
società umana, il denaro, ne L’argent.
Non
è questione del silenzio di Dio - che nei film di Bresson non ha
parlato mai, lascia anche santa
Giovanna
nel dubbio, e affidata all’alea dei consigli umani
(se pure le
ha parlato in precedenza, è fuori del
film).
Non è una sopravvenuta
assenza
del polo positivo,
è l’affermarsi
del polo negativo, la presenza trionfante del male. Parlando di
Bresson, bisogna sempre richiamare il Libro
di Giobbe:
“La terra è data in mano a chi fa il male / La faccia dei suoi
giudici è coperta”;
“Le tende dei distruttori sono in pace”;
“[Dio]
tiene gli occhi su di loro [i
malvagi]
/ Fa che si appoggino in lui sicuri” (trad. Guido Ceronetti, che
chiosa: “Non si tratta di equidistanza. E’ vero amore per il
male”).
Forse
l’eroe
di Dio
in Au
hasard Balthazar
non è la vittima Balthazar ma il carnefice Gérard, imperscrutabile
incarnazione del male (il cui volto impassibile ritorna in quello
tranquillo dei due liceali de L’argent).
Questa
variante demoniaca della scommessa pascaliana è la forma più
radicale dell’ironia nel cinema di Bresson. Supponiamo che Dio non
esista affatto o (per noi
è
lo stesso) che ami il male. Il destino più profondamente ironico non
sarebbe quello
dei
santi, che hanno
fatto tutto per niente?
I
personaggi di
Bresson, creature
imprigionate,
cercano
la liberazione, la fuga fisica e metafisica (Un
condamné
à mort s’est échappé);
dalla prigione della vita la liberazione è
nella
morte (i “suicidi dolci” di Une
femme douce e
Mouchette).
Ma non dimentichiamo che sinonimo di liberazione
è salvezza:
la
grazia. Certo,
sotto
l’ironia tragica dell’ipotesi negativa
la
liberazione offusca
la
salvezza. Ma dovremmo
negare
la salvezza solo perché è ambigua e nascosta?
Al
centro del cinema di Bresson sta la sventura: non descrizione
naturalistica di uno stato esistenziale - neppure nell’inferno
zoliano di Mouchette
- ma processo per stazioni, Via Crucis. Ebbene, la grazia non è nei
cieli,
che non rispondono a nessuno. Come
sa il curato del Journal
d’un curé de campagne,
la
grazia è nella Via Crucis stessa.
Bresson
si rispecchia in Dostoevskij. Non lo testimoniano solo i due
adattamenti ufficiali (Une
femme douce
e Quatre
nuits d’un rêveur).
Anche
Pickpocket
è una specie di parafrasi di Delitto
e castigo;
ne fanno
fede non solo il fatto ovvio che la morale superomistica di
Raskol’nikov modella
i
discorsi del pickpocket
ma
la stessa conclusione,
nonché il fatto che nel commissario del film ritroviamo il
poliziotto
Porfirij
Petrovic del romanzo (fino
alla citazione:
“Ma
voi...”). Riandiamo ora al grande discorso di Marmeladov nello
stesso romanzo sulla salvezza degli abietti. E a Yvon, vittima e
assassino de L’argent.
Se è difficile parlare di martirio e di Via Crucis per gli umbratili
protagonisti de Le
diable probablement
(il più negativo, ma anche il meno riuscito dei film bressoniani),
possiamo ritrovare nel
film
che cronologicamente lo segue la figura dostoevskiana del
colpevole/innocente. Incosciente come l’asino Balthazar, il
sonnambulistico Yvon ha una sorta di innocenza nel male.
Se
questo è vero, e dunque il suo quieto consegnarsi alla polizia dopo
l’ultimo delitto contiene la salvezza,
allora L’argent,
che rappresenta il massimo di pervasività del male, è tuttavia
anche il film di una risalita. Teste di curiosi guardano la vuota
porta illuminata nell’ultima inquadratura: per quella porta stretta
è passata la grazia.
Come ha messo Bresson per sottotitolo al paradigmatico Un
condamné
à mort s’est échappé,
“il vento soffia dove vuole”.
(Nickelodeon,
febbraio 1999)