Se andiamo a chiederci qual è la più famosa sequenza di sogno del
cinema americano classico, è sicuramente il sogno narrato da Gregory
Peck, sospetto assassino in fuga, agli psicoanalisti che lo
proteggono in Io ti
salverò di Alfred J.
Hitchcock (1945). Sequenza concepita da Salvador Dalì, annunciano
non senza fierezza i titoli di testa - e c’è un motivo.
L’“enciclopedia” - come direbbe Eco - dello spettatore medio
americano, a) conosce Dalì come rappresentante illustre di quel
mondo misterioso che è l’Arte, b) è in grado di connettere
vagamente il pittore al surrealismo e quest’ultimo al sogno. Così
Dalì è garante per il pubblico dei due aspetti correlati: quello
artistico e quello onirico.
In
realtà, la sequenza sembra molto di più un quadro di Dalì che un
autentico sogno, di cui tutti abbiamo esperienza. Questo però non è
un caso o una contraddizione. In base all’esigenza
razionalizzatrice del cinema classico, che è un cinema trasparente,
basato sulla spinta alla leggibilità assoluta, i diversi statuti del
racconto non possono essere confusi. Così, ad esempio, vanno ben
distinti il presente e il passato (la memoria/antefatto), ossia il
flashback: esistono convenzioni linguistiche per “incapsulare” il
flashback entro la narrazione. Simile sorte tocca al sogno. Nella
visione cinematografica non solo esso va dichiarato esplicitamente -
laddove nella vita entra senza avvertire, come sa chiunque cui sia
capitato di appisolarsi in treno - ma viene reso attraverso una serie
di segni quasi convenzionali, che paradossalmente non hanno una
pertinenza necessaria col fenomeno reale. Suonerà cacofonico, ma
possiamo dire che il cinema classico per rendere l’esperienza
onirica usa una serie di “segni del sogno”, più che tentare
direttamente una mimesi del fenomeno (per trovare quest’ultima
all’epoca dobbiamo andare ad esempi divergenti da questo cinema,
come il grande Luis Buñuel del periodo messicano: basti pensare alla
stupefacente sequenza onirica de Los
olvidados).
Come
esprime la “qualità di sogno” la sequenza hitchcockiana? Sul
piano della forma, usa caratteristiche che in realtà al sogno non
appartengono, quali la deformazione percettiva ottenuta attraverso il
grandangolo e l’astrazione visuale, nella parte “all’aperto”
con dichiaratissimi fondali pittorici. Sul piano del contenuto, la
sceneggiatura - alla quale danno corpo fisico i due psicoanalisti,
che sono Ingrid Bergman e il caratterista hitchcockiano Michael
Cekhov - “legge” il sogno in termini di simbolismo totale. Ciò
che non è Freud, come potrebbe parere, bensì una volgarizzazione
per le platee americane del freudismo americano - ch’è già, absit
iniuria verbis, una
volgarizzazione di suo.
Che
poi tali esigenze non siano solo hollywoodiane, lo mostra un’altra
famosissima sequenza, europea questa: il sogno di Victor Sjöström
all’inizio de Il
posto delle fragole di
Ingmar Bergman, 1957. Anch’esso è fortemente segnalato (nonostante
ci sia la voce off di Sjöström a narrarlo, Bergman sente il bisogno
di chiuderlo in mezzo a due inquadrature del personaggio
addormentato); inoltre, anche se Bergman è più credibilmente
onirico, non usa l’astrazione in modo ingenuo, situa il sogno in
una realtà urbana autentica, un elemento accomuna fortemente il
sogno di Victor Sjöström a quello di Gregory Peck, ed è la sua
riduzione a un simbolismo totalizzante, a un collage di messaggi. Un
freudismo un po’ più raffinato, ma pur sempre deterministico.
Qui
si parla, naturalmente, di un dato periodo storico. A partire -
grosso modo - dagli anni sessanta il cinema sarà molto più libero
nel rapporto fra sogno, fantasia, allucinazione e realtà; per fare
un solo esempio, vedi di Bergman L’ora
del lupo (1968); col
che, la storia del cinema si ricollega sia al cinema pre-classico che
al grande esempio anticipatore buñueliano. Come s’è avuta nel
cinema una “liberazione” del flashback, così si è avuta una
liberazione del sogno. Il cui concetto base è: non modellare il
sogno su un simbolismo convenzionale ma recuperare le sue
caratteristiche autentiche: il disorientamento spazio-temporale, la
vertigine logica, la diversa attribuzione di affettività rispetto
allo stato di veglia.
Tutto
ciò evidentemente può essere allargato fino a conferire un
carattere onirico - anche qui ritroviamo Buñuel! - all’intero film.
Un esempio calzante fra mille possibili è David Lynch: tutto il suo
cinema è onirico, anche al di là dei suoi sogni “diegetici”
come quelli di Sheryl Lee in Fuoco
cammina con me o di
Bill Pullman in Strade
perdute. Pensiamo a
una scena come il delirante discorso di Jack Nance a proposito del
suo cane, in Cuore
selvaggio: appartiene
sul piano diegetico alla “realtà” effettiva, eppure l’aspetto
è chiaramente quello di un incubo. Breve digressione: il senso
onirico di un film può venire anche da un lavoro sulla location.
Dario Argento lo ha mostrato molto bene con le città immaginarie del
suo cinema: se quella de L’uccello
dalle piume di cristallo
è una città composita
fatta di diverse città italiane, ancora più raffinata è la Roma di
Tenebre,
“creata” selezionando alcuni caratteri architettonici dell’urbe,
in modo da rendere quella che vediamo sullo schermo squilibrata
rispetto alla realtà effettuale.
E’,
questa, la follia narrativa del cinema. Che, in varie gradazioni, può
essere intenzionale oppure può essere un risultato involontario, e
qui bisogna citare almeno l’opera dell’ormai famoso Ed Wood.
Ovvero, i film “deliranti” come risultato dell’incapacità. Il
discorso può allargarsi all’infinito. Il vero cinema onirico è
quello che contiene - che riesce a restituire sullo schermo - quel
senso di “spiazzamento accettato” ch’è proprio del sogno. Si
parla dunque di aggredire il determinismo romanzesco classico:
aggredire (come fa il sogno) la logica della vita. E tanto più la
logica della letteratura; non dobbiamo infatti pensare che i
personaggi letterari/teatrali/cinematografici siano meno logici di
quelli del reale, che siamo noi; al contrario, lo sono di più.
Perché sono macchine narrative, che procedono implacabilmente verso
uno scopo. Otello non potrebbe cedere all’impulso di perdonare
Desdemona: è nato per strangolarla. Amleto dopo il suo esperimento
di teatro-nel-teatro che mette in scena l’assassinio del padre non
potrebbe ritenersi pago e andarsene dicendo a Claudio sconvolto “Just
kidding!”.
Volgendo
alla fine un discorso che ragioni di spazio possono solo costringere
a uno schematismo estremo, conviene però ricordare che (al di là
del problema specifico di rendere il fenomeno onirico) tutto il
cinema è sogno. “Finalmente, per la prima volta, grazie alle
macchine (...) i nostri sogni si sono proiettati e obiettivizzati”,
ha scritto in una frase famosa Edgar Morin. E giacché abbiamo
parlato di spiazzamento spazio-temporale, ricordiamo che la bella
definizione di “chimera spazio-temporale” è applicata da
Dominique Chateau a qualsiasi degli universi che il montaggio
cinematografico crea. A questo punto non servirà insistere sul
rapporto stretto fra la visione partecipante dello spettatore (ch’è
allo stesso tempo perduta emotivamente nella contemplazione del film
e presente a se stessa in quanto lo spettatore non è mai
completamente
assorbito) e il “sogno lucido” - la coscienza di star sognando
all’interno del sogno - oggi argomento di attenti studi.
Qui
vale la pena di introdurre un ultimo ragionamento. Prendiamo in esame
una delle caratteristiche più sottilmente inquietanti del cinema:
l’impotenza dello spettatore, che può solo assistere e non può
intervenire sul film. Essa è simboleggiata in modo definitivo dalla
celebre scena di Kubrick - Alex che cogli occhi tenuti fermi da
graffette non può evitare di vedere il film proiettato - in Arancia
meccanica: è una
metafora del cinema stesso, al pari che di quel singolo film (tutto
basato, come dichiara in apertura il carrello indietro a partire
dall’occhio di Alex, sull’identificazione riluttante fra il
personaggio e lo spettatore). O se preferite c’è una scena analoga
in Dario Argento (Opera)
in cui l’occhio viene tenuto aperto da uno strumento con temibili
spilloni. L’occhio paralizzato, che non può rifiutarsi di vedere:
metafora dell’ineluttabilità della visione cinematografica (sul
masochismo
cinematografico
giocano molti generi, in primo luogo l’horror, ma anche il mélo).
Orbene, questo stato richiama alla mente la paralisi fisica del
sognatore (durante il sogno i nostri muscoli entrano in stato di
paralisi, altrimenti il nostro corpo compirebbe effettivamente i
movimenti che sogniamo di fare). Come lo spettatore si riflette nel
sognatore, così l’impotenza del primo si riflette nell’impotenza
del secondo. E, lo sa chi ha provato l’esperienza di fare degli
sforzi per svegliarsi da un incubo, l’impotenza non è una
condizione del tutto piacevole.
Eppure
è bello andare al cinema; eppure è bello sognare. Unico problema:
in quest’ultimo caso non possiamo scegliere il sogno. Approviamo il
memorabile suggerimento di Linus Van Pelt (Peanuts
di C.M. Schulz): “Magari potrebbero pubblicare delle
recensioni...”.
(L'Ippogrifo, 2000)
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