domenica 31 agosto 2014

Cinema e sogno


Se andiamo a chiederci qual è la più famosa sequenza di sogno del cinema americano classico, è sicuramente il sogno narrato da Gregory Peck, sospetto assassino in fuga, agli psicoanalisti che lo proteggono in Io ti salverò di Alfred J. Hitchcock (1945). Sequenza concepita da Salvador Dalì, annunciano non senza fierezza i titoli di testa - e c’è un motivo. L’“enciclopedia” - come direbbe Eco - dello spettatore medio americano, a) conosce Dalì come rappresentante illustre di quel mondo misterioso che è l’Arte, b) è in grado di connettere vagamente il pittore al surrealismo e quest’ultimo al sogno. Così Dalì è garante per il pubblico dei due aspetti correlati: quello artistico e quello onirico.
In realtà, la sequenza sembra molto di più un quadro di Dalì che un autentico sogno, di cui tutti abbiamo esperienza. Questo però non è un caso o una contraddizione. In base all’esigenza razionalizzatrice del cinema classico, che è un cinema trasparente, basato sulla spinta alla leggibilità assoluta, i diversi statuti del racconto non possono essere confusi. Così, ad esempio, vanno ben distinti il presente e il passato (la memoria/antefatto), ossia il flashback: esistono convenzioni linguistiche per “incapsulare” il flashback entro la narrazione. Simile sorte tocca al sogno. Nella visione cinematografica non solo esso va dichiarato esplicitamente - laddove nella vita entra senza avvertire, come sa chiunque cui sia capitato di appisolarsi in treno - ma viene reso attraverso una serie di segni quasi convenzionali, che paradossalmente non hanno una pertinenza necessaria col fenomeno reale. Suonerà cacofonico, ma possiamo dire che il cinema classico per rendere l’esperienza onirica usa una serie di “segni del sogno”, più che tentare direttamente una mimesi del fenomeno (per trovare quest’ultima all’epoca dobbiamo andare ad esempi divergenti da questo cinema, come il grande Luis Buñuel del periodo messicano: basti pensare alla stupefacente sequenza onirica de Los olvidados).
Come esprime la “qualità di sogno” la sequenza hitchcockiana? Sul piano della forma, usa caratteristiche che in realtà al sogno non appartengono, quali la deformazione percettiva ottenuta attraverso il grandangolo e l’astrazione visuale, nella parte “all’aperto” con dichiaratissimi fondali pittorici. Sul piano del contenuto, la sceneggiatura - alla quale danno corpo fisico i due psicoanalisti, che sono Ingrid Bergman e il caratterista hitchcockiano Michael Cekhov - “legge” il sogno in termini di simbolismo totale. Ciò che non è Freud, come potrebbe parere, bensì una volgarizzazione per le platee americane del freudismo americano - ch’è già, absit iniuria verbis, una volgarizzazione di suo.
Che poi tali esigenze non siano solo hollywoodiane, lo mostra un’altra famosissima sequenza, europea questa: il sogno di Victor Sjöström all’inizio de Il posto delle fragole di Ingmar Bergman, 1957. Anch’esso è fortemente segnalato (nonostante ci sia la voce off di Sjöström a narrarlo, Bergman sente il bisogno di chiuderlo in mezzo a due inquadrature del personaggio addormentato); inoltre, anche se Bergman è più credibilmente onirico, non usa l’astrazione in modo ingenuo, situa il sogno in una realtà urbana autentica, un elemento accomuna fortemente il sogno di Victor Sjöström a quello di Gregory Peck, ed è la sua riduzione a un simbolismo totalizzante, a un collage di messaggi. Un freudismo un po’ più raffinato, ma pur sempre deterministico.
Qui si parla, naturalmente, di un dato periodo storico. A partire - grosso modo - dagli anni sessanta il cinema sarà molto più libero nel rapporto fra sogno, fantasia, allucinazione e realtà; per fare un solo esempio, vedi di Bergman L’ora del lupo (1968); col che, la storia del cinema si ricollega sia al cinema pre-classico che al grande esempio anticipatore buñueliano. Come s’è avuta nel cinema una “liberazione” del flashback, così si è avuta una liberazione del sogno. Il cui concetto base è: non modellare il sogno su un simbolismo convenzionale ma recuperare le sue caratteristiche autentiche: il disorientamento spazio-temporale, la vertigine logica, la diversa attribuzione di affettività rispetto allo stato di veglia.
Tutto ciò evidentemente può essere allargato fino a conferire un carattere onirico - anche qui ritroviamo Buñuel! - all’intero film. Un esempio calzante fra mille possibili è David Lynch: tutto il suo cinema è onirico, anche al di là dei suoi sogni “diegetici” come quelli di Sheryl Lee in Fuoco cammina con me o di Bill Pullman in Strade perdute. Pensiamo a una scena come il delirante discorso di Jack Nance a proposito del suo cane, in Cuore selvaggio: appartiene sul piano diegetico alla “realtà” effettiva, eppure l’aspetto è chiaramente quello di un incubo. Breve digressione: il senso onirico di un film può venire anche da un lavoro sulla location. Dario Argento lo ha mostrato molto bene con le città immaginarie del suo cinema: se quella de L’uccello dalle piume di cristallo è una città composita fatta di diverse città italiane, ancora più raffinata è la Roma di Tenebre, “creata” selezionando alcuni caratteri architettonici dell’urbe, in modo da rendere quella che vediamo sullo schermo squilibrata rispetto alla realtà effettuale.
E’, questa, la follia narrativa del cinema. Che, in varie gradazioni, può essere intenzionale oppure può essere un risultato involontario, e qui bisogna citare almeno l’opera dell’ormai famoso Ed Wood. Ovvero, i film “deliranti” come risultato dell’incapacità. Il discorso può allargarsi all’infinito. Il vero cinema onirico è quello che contiene - che riesce a restituire sullo schermo - quel senso di “spiazzamento accettato” ch’è proprio del sogno. Si parla dunque di aggredire il determinismo romanzesco classico: aggredire (come fa il sogno) la logica della vita. E tanto più la logica della letteratura; non dobbiamo infatti pensare che i personaggi letterari/teatrali/cinematografici siano meno logici di quelli del reale, che siamo noi; al contrario, lo sono di più. Perché sono macchine narrative, che procedono implacabilmente verso uno scopo. Otello non potrebbe cedere all’impulso di perdonare Desdemona: è nato per strangolarla. Amleto dopo il suo esperimento di teatro-nel-teatro che mette in scena l’assassinio del padre non potrebbe ritenersi pago e andarsene dicendo a Claudio sconvolto “Just kidding!”.
Volgendo alla fine un discorso che ragioni di spazio possono solo costringere a uno schematismo estremo, conviene però ricordare che (al di là del problema specifico di rendere il fenomeno onirico) tutto il cinema è sogno. “Finalmente, per la prima volta, grazie alle macchine (...) i nostri sogni si sono proiettati e obiettivizzati”, ha scritto in una frase famosa Edgar Morin. E giacché abbiamo parlato di spiazzamento spazio-temporale, ricordiamo che la bella definizione di “chimera spazio-temporale” è applicata da Dominique Chateau a qualsiasi degli universi che il montaggio cinematografico crea. A questo punto non servirà insistere sul rapporto stretto fra la visione partecipante dello spettatore (ch’è allo stesso tempo perduta emotivamente nella contemplazione del film e presente a se stessa in quanto lo spettatore non è mai completamente assorbito) e il “sogno lucido” - la coscienza di star sognando all’interno del sogno - oggi argomento di attenti studi.
Qui vale la pena di introdurre un ultimo ragionamento. Prendiamo in esame una delle caratteristiche più sottilmente inquietanti del cinema: l’impotenza dello spettatore, che può solo assistere e non può intervenire sul film. Essa è simboleggiata in modo definitivo dalla celebre scena di Kubrick - Alex che cogli occhi tenuti fermi da graffette non può evitare di vedere il film proiettato - in Arancia meccanica: è una metafora del cinema stesso, al pari che di quel singolo film (tutto basato, come dichiara in apertura il carrello indietro a partire dall’occhio di Alex, sull’identificazione riluttante fra il personaggio e lo spettatore). O se preferite c’è una scena analoga in Dario Argento (Opera) in cui l’occhio viene tenuto aperto da uno strumento con temibili spilloni. L’occhio paralizzato, che non può rifiutarsi di vedere: metafora dell’ineluttabilità della visione cinematografica (sul masochismo cinematografico giocano molti generi, in primo luogo l’horror, ma anche il mélo). Orbene, questo stato richiama alla mente la paralisi fisica del sognatore (durante il sogno i nostri muscoli entrano in stato di paralisi, altrimenti il nostro corpo compirebbe effettivamente i movimenti che sogniamo di fare). Come lo spettatore si riflette nel sognatore, così l’impotenza del primo si riflette nell’impotenza del secondo. E, lo sa chi ha provato l’esperienza di fare degli sforzi per svegliarsi da un incubo, l’impotenza non è una condizione del tutto piacevole.
Eppure è bello andare al cinema; eppure è bello sognare. Unico problema: in quest’ultimo caso non possiamo scegliere il sogno. Approviamo il memorabile suggerimento di Linus Van Pelt (Peanuts di C.M. Schulz): “Magari potrebbero pubblicare delle recensioni...”.

(L'Ippogrifo, 2000)

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