Domanda ad un’amica: che cos’è il trash? “Il trash è quello che piace agli imbecilli come te”. L’amica ha colto. Basicamente, trash è tutto quello che viene considerato tale. Il trash non è un’estetica, è, come dice Giuseppe Salza, uno state of mind.
Si
può non essere d’accordo con la concezione di Tommaso Labranca del
trash come (riassumo indecorosamente) imitazione imperfetta. Tuttavia
un elemento di imitazione è certamente presente nel trash, in base
al suo postulato dell’assoluta riconoscibilità. Il trash
dev’essere immediatamente fruibile, non ammette mediazioni tra sé
e il consumo. Per questo costa poco. E qui bisogna intenderci: non si
intendono per forza bassi costi di produzione: Raffaella Carrà, che
è un esempio archetipico del trash tv, si compra i telespettatori a
un miliardo a puntata, regalato in diretta a chi telefona. Il costar
poco va inteso nel senso della facilità della fruizione. Raffaella
Carrà non ha bisogno di essere né intelligente né divertente né
desiderabile: basta che faccia piangere e regali miliardi. La
facilità di comprensione è una condizione irrinunciabile. Il trash
è trasparente.
Così,
il trash cinematografico è fondamentalmente il panorama dei registi
che per qualche motivo vi sono stati catalogati. Sarà utile prima di
tutto espungerne quelli che chiamerei i registi dell’equivoco:
degli autori - anzi, degli auteurs
- che ci sono stati inseriti in passato (ma succede anche oggi...)
solo per il contenuto “maledetto” della propria opera (Tod
Browning!) o magari perché genî del basso costo.
Ma
anche per gli altri... quelli che noi appassionati collezioniamo in
videocassetta (felici quando becchiamo una videoteca in chiusura, e
ci portiamo a casa, non dico il bel Il
plenilunio delle vergini
di Paolo Solvay, ma perfino Provocazione
fatale
di Ninì Grassia)... il punto è che non è possibile mescolare Andy
Milligan o Al Adamson con Fred Olen Ray, o, ancora più su, Robert
Lee Frost. Bisogna distinguere fra una dimensione estetica,
rispondente a proprie leggi, ed una di puro divertimento.
In
primo luogo, i grandi, quelli che entrano nella storia del cinema al
di là dell’aneddotica degli incredibly
strange movies.
I registi del trash assunto consciamente o polemicamente come forma
(Russ Meyer, John Waters, Paul Bartel). I registi che presentano una
propria scintillante autorialità, nel senso dell’estetismo del
grandissimo Jesus Franco o del manierismo di Leon Klimowski o della
genialità marginale, sombre
e deviata di José Mojica Marins o anche del primitivismo naïf e
sanguigno (è il caso di dirlo) di Herschell Gordon Lewis. O i
maestri di quel genere - da situare, credo, molto in alto nel cinema
italiano dell’epoca - che è la “commediaccia” alla Banfi &
Vitali: la grande e pigra bravura di Mariano Laurenti! la pura
genialità di Nando Cicero! O il molto interessante R.L. Frost: che
per esempio ci ha dato quel bellissimo western erotico che è The
Scavengers.
Anche se purtroppo il suo film più facile da vedere è il peggiore,
Love
Camp 7
(Camp
7
Lager
femminile)...
Vuoi mettere, per la loro delirante radicalità che sfiora
l’autoparodia, i film di Dyanne Thorne? E aggiungiamoci pure, per
la folle tensione di un sogno espressivo che riesce ad attingere una
specie di surreale dimensione eroica del brutto, Ed Wood.
Ne
usciamo solo se ricerchiamo la categoria del “buon trash”, che
fanno i geni, i matti e i trucidi; mentre il cattivo trash lo fanno
i mediocri irredimibili, come Andy Milligan (Al Adamson, nei suoi
giganteschi limiti, è già un gradino più su). Franco e Marins li
guardiamo come soggetti; Milligan come oggetto. Lo guardiamo per
ridere: The
Rats
Are Coming! The Werewolves Are Here!
(L’invasione
degli ultratopi)
è uno dei film più divertenti che si possano vedere - ma solo
perché tradisce un’incapacità così unica da risultare
esilarante.
E’
come il trash televisivo più naïf. Quello che la Gialappa’s Band
raccoglieva in Mai
dire tv,
per intenderci, prima di cadere preda - la Gialappa assieme ai suoi
oggetti - della consapevolezza del prodotto. Ecco qui un
insegnamento. Il trash è impalpabile. Se lo tocchi, se lo proponi
come esempio di sé, assume immediatamente una consapevolezza,
diventa autoreferenziale. Diventa un trash di secondo grado. Per
questo motivo oggi il cinema (quasi) non fa più trash. Fa del
meta-trash. La Troma ne è l’esempio più evidente (ma anche Fred
Olen Ray, a un livello indubbiamente più basso). Si può chiamare
ancora trash un capolavoro Troma quale Tromeo
& Juliet
di Lloyd Kaufman?
Un
esempio italiano di questa ambigua autoconsapevolezza sono i
pornofumetti degli anni ottanta, spesso assolutamente geniali, come
Zora,
Cimiteria,
Lucifera
(un po’ sotto stava Sukia,
più sotto ancora Belzeba,
e via dicendo) o, fuori dalla categoria horror, Pig
o Il
Bordello.
Questi un giorno o l’altro li ristamperà su carta patinata la
Taschen, come fa con Tom of Finland (qui è d’obbligo menzionare,
in Italia, il meritorio lavoro della Glittering Images). E costeranno
molto più cari. Dunque il passaggio di categoria dal trash
originario al trash filologicamente nobilitato può essere descritto
anche in termini marxiani ($! $! $!).
Gli
è che nel passare del tempo, attraverso la dimensione-limbo del
modernariato, il trash si ossifica nelle nozioni intercambiabili del
trash d’annata e del trash d’autore. Risultato, un’uscita dalla
categoria stessa del trash: la storicizazzione, come avanguardia
artistica - sui rapporti fra avanguardia e trash, quanto ci sarebbe
da dire! - o almeno come arti minori (le figurine dei detersivi, le
Images d’Epinal, le cartoline di bordello). Ma allora il trash
esiste per dissolversi appena se ne parla? Oh beh, niente di male. E’
stato creato per il consumo.
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