domenica 31 agosto 2014

Il trash


Domanda ad un’amica: che cos’è il trash? “Il trash è quello che piace agli imbecilli come te”. L’amica ha colto. Basicamente, trash è tutto quello che viene considerato tale. Il trash non è un’estetica, è, come dice Giuseppe Salza, uno state of mind.
Si può non essere d’accordo con la concezione di Tommaso Labranca del trash come (riassumo indecorosamente) imitazione imperfetta. Tuttavia un elemento di imitazione è certamente presente nel trash, in base al suo postulato dell’assoluta riconoscibilità. Il trash dev’essere immediatamente fruibile, non ammette mediazioni tra sé e il consumo. Per questo costa poco. E qui bisogna intenderci: non si intendono per forza bassi costi di produzione: Raffaella Carrà, che è un esempio archetipico del trash tv, si compra i telespettatori a un miliardo a puntata, regalato in diretta a chi telefona. Il costar poco va inteso nel senso della facilità della fruizione. Raffaella Carrà non ha bisogno di essere né intelligente né divertente né desiderabile: basta che faccia piangere e regali miliardi. La facilità di comprensione è una condizione irrinunciabile. Il trash è trasparente.
Così, il trash cinematografico è fondamentalmente il panorama dei registi che per qualche motivo vi sono stati catalogati. Sarà utile prima di tutto espungerne quelli che chiamerei i registi dell’equivoco: degli autori - anzi, degli auteurs - che ci sono stati inseriti in passato (ma succede anche oggi...) solo per il contenuto “maledetto” della propria opera (Tod Browning!) o magari perché genî del basso costo.
Ma anche per gli altri... quelli che noi appassionati collezioniamo in videocassetta (felici quando becchiamo una videoteca in chiusura, e ci portiamo a casa, non dico il bel Il plenilunio delle vergini di Paolo Solvay, ma perfino Provocazione fatale di Ninì Grassia)... il punto è che non è possibile mescolare Andy Milligan o Al Adamson con Fred Olen Ray, o, ancora più su, Robert Lee Frost. Bisogna distinguere fra una dimensione estetica, rispondente a proprie leggi, ed una di puro divertimento.
In primo luogo, i grandi, quelli che entrano nella storia del cinema al di là dell’aneddotica degli incredibly strange movies. I registi del trash assunto consciamente o polemicamente come forma (Russ Meyer, John Waters, Paul Bartel). I registi che presentano una propria scintillante autorialità, nel senso dell’estetismo del grandissimo Jesus Franco o del manierismo di Leon Klimowski o della genialità marginale, sombre e deviata di José Mojica Marins o anche del primitivismo naïf e sanguigno (è il caso di dirlo) di Herschell Gordon Lewis. O i maestri di quel genere - da situare, credo, molto in alto nel cinema italiano dell’epoca - che è la “commediaccia” alla Banfi & Vitali: la grande e pigra bravura di Mariano Laurenti! la pura genialità di Nando Cicero! O il molto interessante R.L. Frost: che per esempio ci ha dato quel bellissimo western erotico che è The Scavengers. Anche se purtroppo il suo film più facile da vedere è il peggiore, Love Camp 7 (Camp 7 Lager femminile)... Vuoi mettere, per la loro delirante radicalità che sfiora l’autoparodia, i film di Dyanne Thorne? E aggiungiamoci pure, per la folle tensione di un sogno espressivo che riesce ad attingere una specie di surreale dimensione eroica del brutto, Ed Wood.
Ne usciamo solo se ricerchiamo la categoria del “buon trash”, che fanno i geni, i matti e i trucidi; mentre il cattivo trash lo fanno i mediocri irredimibili, come Andy Milligan (Al Adamson, nei suoi giganteschi limiti, è già un gradino più su). Franco e Marins li guardiamo come soggetti; Milligan come oggetto. Lo guardiamo per ridere: The Rats Are Coming! The Werewolves Are Here! (L’invasione degli ultratopi) è uno dei film più divertenti che si possano vedere - ma solo perché tradisce un’incapacità così unica da risultare esilarante.
E’ come il trash televisivo più naïf. Quello che la Gialappa’s Band raccoglieva in Mai dire tv, per intenderci, prima di cadere preda - la Gialappa assieme ai suoi oggetti - della consapevolezza del prodotto. Ecco qui un insegnamento. Il trash è impalpabile. Se lo tocchi, se lo proponi come esempio di sé, assume immediatamente una consapevolezza, diventa autoreferenziale. Diventa un trash di secondo grado. Per questo motivo oggi il cinema (quasi) non fa più trash. Fa del meta-trash. La Troma ne è l’esempio più evidente (ma anche Fred Olen Ray, a un livello indubbiamente più basso). Si può chiamare ancora trash un capolavoro Troma quale Tromeo & Juliet di Lloyd Kaufman?
Un esempio italiano di questa ambigua autoconsapevolezza sono i pornofumetti degli anni ottanta, spesso assolutamente geniali, come Zora, Cimiteria, Lucifera (un po’ sotto stava Sukia, più sotto ancora Belzeba, e via dicendo) o, fuori dalla categoria horror, Pig o Il Bordello. Questi un giorno o l’altro li ristamperà su carta patinata la Taschen, come fa con Tom of Finland (qui è d’obbligo menzionare, in Italia, il meritorio lavoro della Glittering Images). E costeranno molto più cari. Dunque il passaggio di categoria dal trash originario al trash filologicamente nobilitato può essere descritto anche in termini marxiani ($! $! $!).
Gli è che nel passare del tempo, attraverso la dimensione-limbo del modernariato, il trash si ossifica nelle nozioni intercambiabili del trash d’annata e del trash d’autore. Risultato, un’uscita dalla categoria stessa del trash: la storicizazzione, come avanguardia artistica - sui rapporti fra avanguardia e trash, quanto ci sarebbe da dire! - o almeno come arti minori (le figurine dei detersivi, le Images d’Epinal, le cartoline di bordello). Ma allora il trash esiste per dissolversi appena se ne parla? Oh beh, niente di male. E’ stato creato per il consumo.

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