La prima cosa a
imprimersi nella memoria sono i colori, nell'ottima fotografia di
Daniele Ciprì: lividi, grigi, mortuari – tanto nell'Italia del
fascismo nell'estrema fase totalitaria quanto nel Vittoriale, dove il
vecchio D'Annunzio è diventato un oppositore del regime, ma che
sembra nondimeno una tomba.
“D'Annunzio
è come un dente guasto. O lo si ricopre d'oro o lo si estirpa”. La
famosa battuta di Mussolini è citata da Starace (Fausto Russo
Alesi), segretario del partito: del quale giustamente il film
recupera l'aspetto inquietante,
in contrasto con una certa tendenza odierna a considerarlo quasi una
macchietta. Starace convoca il giovane federale di Brescia Giovanni
Comini (il bravo e sobrio Francesco Patanè) per un incarico
speciale: verrà mandato al Vittoriale, ufficialmente come
collegamento con Gabriele D'Annunzio, ma in realtà per spiarlo
(compresi, precisa Starace, gli aneddoti piccanti). D'Annunzio è
sempre più ostile al fascismo e all'alleanza con Hitler che aborre –
voluta, dice, da “un pugno di ruffiani”. Il cattivo
poeta segue nell'arco di due
anni, dal 1936 al 1938, il cupo progredire dell'alleanza: è un
precipitare dell'Italia e dell'Europa verso la tragedia, che il
Comandante, come lo chiamano i suoi, preconizza (“E tu sarai
testimone della mia veggenza infallibile!”); ma è anche un
precipitare del poeta verso la fine.
Il film si articolo su
un doppio ritratto psicologico, in una partita dove da un lato della
scacchiera c'è Giovanni, giovane illuso, tormentato, spia e
testimone via via preso nella disperazione lucida del poeta – e
dall'altro D'Annunzio, isolato nel semi-esilio dorato del Vittoriale,
monumento autocelebrativo, bric-à-brac di ricordi, quasi una
piccolissima Isola d'Elba dove tenderlo confinato.
Il film contiene un bell'esempio di enunciazione ritardata del personaggio. Prima evocato
nei dialoghi e in una vecchia foto, D'Annunzio compare dal vivo
durante il gioco sessuale con una delle sue amanti, ma di scorcio; il
viso, quella che Dario Tomasi (Il personaggio, 1988) ha
battezzato “l'immagine propria” in analogia col nome proprio,
viene posposta a una successiva apparizione fra gli applausi; e ciò
ne amplifica la risonanza. Sergio Castellitto offre quella che
potrebbe essere l'interpretazione della sua vita, molto intensa e
umana al di là della banale somiglianza. Grande Castellitto anche
nel rendere i due aspetti compresenti nella figura di D'Annunzio, la
franchezza concreta (“L'Italia di oggi non mi ama”) e
contemporaneamente l'atteggiamento recitativo, ovvero la tendenza
insopprimibile a porsi in posa – aspetti compresenti perché in
D'Annunzio come in altri grandi sconfitti della politica la persona e
il personaggio sono così intimamente uniti da venire a coincidere
nell'unità.
Nella sconfitta
D'Annunzio – ed è allo stesso tempo una palinodia e un
contrappasso – misura la differenza radicale fra gli ideali e la
realtà politica, nonché fra l'ispirazione e le realizzazione
poetica. Il film traccia anche, per bocca di una delle sue amanti, un
quadro pessimistico degli italiani. “Ci sono buoni attori e cattivi
attori... Agli italiani piacciono soltanto le cattive
rappresentazioni”. Infatti il momento in cui D'Annunzio riconosce
la sconfitta è nel vedere dal balcone a Verona le acclamazioni della
folla a Mussolini che lo ha ignorato.
Il cattivo poeta
è un ritratto della fragilità del poeta al declino, fra cocaina,
sbocchi paranoici (la caccia ai topi), disperata preveggenza e
nascosto sentimento della sconfitta. Di questa fa parte l'illusoria
confidenza di D'Annunzio nella propria parola, espressa nel suo
tentativo di “parlare con Mussolini”, che si dimostrerà un
fallimento completo. Sotto l'ultima battaglia, persa in partenza,
contro le “camicie sordide” serpeggia la considerazione della
propria impotenza. In una scena importante, il Comandante sofferente
incontra un gruppo di reduci di Fiume ai quali pronuncia, in divisa
dal podio, uno sconsolato discorso. Ma il discorso che vediamo dal
punto di vista degli ascoltatori è un controcampo: il film ci ha già
mostrato la realtà del poeta di spalle, che il podio rende
invisibile agli altri: sotto la giacca dell'uniforme le gambe sono in
mutandoni e i piedi in ciabatte – un'immagine plastica e dolorosa
del declino sotto la facciata.
L'atmosfera del film è
plumbea. Bene la esprime l'architettura gelida e astratta, costruita
su un'idea di grandezza come vastità, dei palazzi del regime.
Quest'Italia, dove si arresta e si tortura, è avvolta da un “aere
perso” di sospetto e delazione; tutti spiano tutti, come nella
Russia di Stalin e nella Germania di Hitler. Quando Giovanni fa
visita ai genitori, questi denunciano un loro amico da quarant'anni;
poi il padre si accorge che i cerchi di vino del bicchiere posato sul
giornale hanno deturpato la fotografia di Mussolini e ha un moto di
spavento guardando il figlio – il quale, fra stupito e offeso:
“Papà! Sono io, stai tranquillo”. Questa cappa di sorveglianza e
d'incertezza è onnipresente – come onnipresente è la presenza
ossessiva del faccione di Mussolini sui muri, in manifesti e pitture
a matrice; lo vediamo anche nell'inquadratura del bacio fra Giovanni
e Lina, come un segno di sventura. Mentre al Vittoriale la “corte”
che gravita intorno a D'Annunzio è una memorabile sfilata di volti
invecchiati, segnati, misteriosi, ansiosi o subdoli, quasi
espressionisti. Con la sola eccezione del Comandante rabbioso e
impotente, si parla per cenni e per silenzi, tutto sotto la
sensazione malata di preoccupazione e di forze ineluttabili. Come
dice D'Annunzio nel suo discorso ai reduci, “Sono tempi dal cielo
chiuso”.
Il
film, scritto e diretto da Gianluca Jodice, è prodotto da Andrea
Paris e Matteo Rovere, nel 2019 rispettivamente produttore e regista
del notevole Il primo re –
e c'è in effetti una riconoscibilità. Ma cosa
accomuna il Vittoriale dell'era fascista e le selve del Lazio di
Romolo e Remo? La risposta è: non soltanto una particolarissima
accuratezza di messa in scena ma un robusto massimalismo narrativo,
che indica la via migliore al cinema italiano.
sabato 29 maggio 2021
Il cattivo poeta
sabato 22 maggio 2021
Maternal
Maura Delpero
Attorno al concetto di
maternità ruotano molte vite nel film italo-argentino Maternal
di Maura Delpero, che in originale è Hogar: ossia la
casa-rifugio gestita da suore dove vivono varie ragazze madri degli
strati sociali bassi di Buenos Aires. In astratto la contrapposizione
che il film osserva è tra queste donne incinte o con figli piccoli e
le suore quasi tutte anziane. Nel concreto s'incarna nelle figure in
contrasto di Luciana, una giovanissima che è madre di una bambina
piccola ma non è realmente capace di esserlo, e suor Paola, una
giovane italiana che sta per prendere i voti finali, e quindi non può
essere madre se non nella forma, come dice la superiora, dell'“amore
di madri spirituali”. Assiste al contrasto un'altra delle ragazze,
Fati (Fatima), in attesa del suo secondo figlio, compagna di stanza
di Luciana. Tanto Fati è riflessiva quanto Luciana è egocentrica e
sciocca (va detto che il personaggio è un po' troppo programmatico).
Sembra anzi all'inizio che nel film si debba instaurare una lotta tra
Paola e Luciana per l'anima di Fati; ma non è così e lo sviluppo
prende una via diversa. Quando Luciana fugge dallo hogar vi
abbandona la bambina, Nina, che entra in crisi. Suor Paola comincia a
prenderla a dormire con sé per consolarla, e da questo inizia a
rivelarsi in lei un sentimento materno che il suo abito non le
consente.
I capelli di suor Paola
e il velo che dovrebbe coprirli diventano l'elemento simbolico
principale. Infatti nella scena dove Luciana per dispetto le strappa
il velo, suor Paola appare più sconvolta di quanto meriti l'offesa:
senza rendersene conto quell'atto è la materializzazione di un
dubbio e una tentazione inespressi. Infatti non si rimette il velo,
la vediamo senza di esso in cappella, e poco dopo fugge con Nina.
Migliore nella sua
seconda parte che nella prima, il film (fortemente penalizzato dal
doppiaggio) culmina in una conclusione aperta per entrambe le donne,
accomunate da un'analoga scena di rientro all'istituto; il drammatico
primissimo piano di Luciana che conclude il film indica forse una
maturazione (che può essere arrivata troppo tardi), ma anche suor
Paola deve rivedere le sue scelte (bella la sua uscita sotto gli
occhi delle suore scandalizzate o stupite). V'è chi ha parlato anche
di sacro e profano; ma si ha l'impressione che in realtà nel film
manchi la dimensione del sacro, almeno in senso cattolico (c'è
beneficenza e catechismo, e un pizzico appena di ritualità), e
questo può essere un limite. Il film è però capace in cambio di
far intravedere quell'elemento di sacro che c'è nella maternità.
Se nella Sacra
Famiglia, proposta dalle suore come modello, San Giuseppe, “padre
adottivo”, rappresenta il principio maschile (però è interessante
il suo carattere putativo), Hogar è un film interamente al
femminile, una riflessione sulla donna e la madre, in cui gli uomini
sono è solo un'assenza – ed è commovente nella sua inanità il
tentativo del figlio piccolo di Fati di rassicurarla proponendosi
come elemento protettivo maschile. Sul piano del racconto, se le
psicologie appaiono talvolta elementari (con l'eccezione del bel
personaggio di suor Paola, una bella interpretazione assai sobria di
Lidiya Liberman), l'aspetto migliore del film è il valore dei gesti
muti, gli sguardi, la fisicità, l'immediatezza delle cose, le corse
furtive di suor Paola per l'istituto di notte o di prima mattina per
nascondere un amore (per la bambina) considerato improprio. La regia
molto attenta della documentarista Maura Delpero, alla sua prima
opera di fiction,insiste su collegamenti significativi puntuali –
come il raccordo che unisce/contrappone la menzione della Sacra
Famiglia come modello e la favola del brutto anatroccolo – che
aprono spazi alla riflessione.
sabato 15 maggio 2021
Rifkin's Festival
Woody Allen
Woody
Allen ci ha abituato negli anni all'alternanza tra film con un
contenuto più impegnativo (anche senza abbandonare la forma
commedia) e opere più leggere: come Rifkin's Festival,
che è un aereo, amabilissimo divertissement –
anche se in filigrana emergono i classici temi alleniani.
Come
spesso nel cinema di Allen, un elemento “catastrofico” (una
magia, un incidente, una visita) manda in crisi un equilibro
rivelandone la fragilità. Qui si tratta di un viaggio al Festival di
San Sebastian, dove l'intellettuale newyorkese Mort Rifkin (Wallace
Shawn) accompagna la moglie Sue (Gina Gershon), più giovane di lui.
Il loro è un matrimonio che si va lentamente sfaldando. Sue –
attenzione, a partire da qui piovono spoiler – fa l'addetta stampa
ed è fin troppo attratta dal giovane regista di culto Philippe
Germain (Louis Garrel). Mort insegnava cinema in passato (“cinema
come arte”) e ora sta cercando di scrivere un romanzo, col dubbio
ricorrente di essere troppo ampolloso (turgid);
scrive e strappa, scrive e strappa, perché, dice, o sarà nella
stessa squadra di Joyce e Dostoevskij o niente. Ecco un altro
familiare tratto alleniano: l'ironia sull'artista ambizioso e
inadeguato; tenendo conto che per Allen chi è fasullo sul piano
artistico lo è anche sul piano morale (basta leggere la sua
autobiografia per vedere quanto Woody, autocritico all'eccesso, abbia
il terrore di finire entro la categoria).
Il
cinema di Woody Allen è popolato dei suoi alter ego,
giovani (Jason Biggs, Will Ferrell, Timothée Chalamet) o anziani
(Larry David) – sempre non semplici copie ma proiezioni possibili.
Qui abbiamo Wallace Shawn, pesce fuor d'acqua al Festival e
distributore geloso di battute sarcastiche su Philippe. Il film di
Allen – che famosamente preferisce suonare il clarinetto piuttosto
che andare a a ritirare un Oscar – è feroce sia col cinema d'oggi,
a partire dallo sbandieramento dell'impegno. Mort ama solo i grandi
film europei e i classici americani sono troppo ottimistici per lui;
non gli piacciono nemmeno le migliori commedie americane come Susanna
di Hawks. Questo pare contrapporsi alla concezione storica di Allen
(cfr. Crimini e misfatti),
ma non bisogna sovrapporre del tutto il personaggio e l'autore; del
resto Mort è dichiaratamente una caricatura del Pedante, e alla fine
del film ammette di essere stato troppo rigido nell'approccio.
Il
destino vuole che Mort faccia la conoscenza di una giovane dottoressa
spagnola, anche lei con dispiaceri coniugali, Joana detta Jo (Elena
Anaya): la sua anima gemella come gusti cinematografici, e innamorata
di New York dove ha studiato. Per Mort è amore a prima vista, e
inizia un silenzioso corteggiamento. E' stata rilevata la (voluta)
mancanza di physique du rôle
del bravissimo Wallace Shawn nella parte del maturo innamorato; non
tanto per l'età in sé (in fin dei conti anche Woody ha sposato una
donna assai più giovane) quanto per l'aspetto che ricorda una
vecchia tartaruga saggia. Direi che in questo è da vedersi un'ironia
un po' malinconica sulla forma
mentis maschile, èer
la quale la possibilità di una storia con una donna giovane appare
sempre come una possibilità concreta: gli uomini si vedono “da
dentro”. Peraltro, come sentiamo in questo film, “Da quando le
relazioni sono razionali?”; e Woody Allen in tutto il suo cinema ci
ha ricordato come sia capricciosa La dea dell'amore
(Mighty Aphrodite).
Ricorre
nel cinema alleniano l'idea della fuga: un “Imbarco per Citera”
(o Manhattan!) come negazione della disamata realtà. Rifkin's
Festival si costruisce
su una simmetria:
Joana è un sogno per Mort, ma anche lui, gentile intellettuale
newyorkese fino al midollo, è – in forma meno definita sul piano
dei sentimenti – un sogno per lei. E poi, quale raddoppiamento
parodistico, “copia bassa”, Philippe è un sogno per Sue, sebbene
i progetti di quest'ultima col più giovane tombeur de
femmes non ci sembrino proprio
fondati sulla roccia. E' anche da notare che Joana non è
scandalizzata dai sentimenti inespressi ma chiarissimi di Mort; il
suo “Non credo che sarebbe una buona idea”, al telefono, alla
proposta di rivedersi l'ultimo giorno, non è un educato rifiuto ma
piuttosto la classica “serena rinuncia”; e all'idea di un viaggio
un giorno o l'altro a New York per “un hamburger alla Minetta
Tavern”, la sua risposta un po' triste è “Who knows?” – e la
mdp indugia sul suo primissimo piano, con un grande pezzo di
recitazione muta di Elena Anaya. Siamo in un contesto čechoviano; e
non lo dico per la suggestione di Wallace Shawn che ha interpretato
uno splendido Zio Vanja cinematografico per Louis Malle, ma perché
Čechov è uno dei numi ispiratori di Woody Allen in tutto il suo
cinema. Autunno che arriva, speranze e rinunce, ricordi e sogni.
Sogni...
Eccoci all'aspetto più appariscente di Rifkin's Festival:
la sua intelaiatura metacinematografica. Allen fa sì che Mort riveda
se stesso, le sue donne, i suoi conoscenti, la sua situazione,
le sue paure, in una serie di divertentissime parodie in b/n di
grandi testi cinematografici (occorre ricordare qui che la parodia è
in primo luogo un atto d'amore?) – iniziando con l'Orson Welles di
Citizen Kane, l'unico
autore americano, con un tipico edificio del Bronx dentro la palla di
vetro e con Rose Budnick, amica dei genitori, al posto di Rosebud.
Questi frammenti entrano nel racconto o come sogno o come rêverie
(giustamente la parola francese
è connessa al sogno). Il b/n non è solo per ovvia aderenza al testo
imitato ma per marcare un mondo alternativo in contrapposizione alla
realtà;: nel cinema di Woody Allen la bellezza e l'arte sono la
cosa vera.
Questi
brani offrono un divertimento doppio: per l'immissione incongrua di
Mort e degli altri personaggi, compresi quelli della sua memoria,
nell'universo di Fellini o di Bergman e per l'acribia con cui Allen
riproduce gli stilemi dei maestri. Per fare un solo esempio, vedi i
primissimi piani drammaticamente ravvicinati nella parodia del
bergmaniano Persona (per
inciso, il discorso del “silenzio di Dio” produce la battuta più
spassosa di tutto il film). Se solitamente i frammenti riflettono
deliziosamente le circostanze vissute da Mort (l'idea di un ménage
á trois che a Sue andrebbe
benissimo gli fa vedere la moglie, Philippe e se stesso in una
celebre scena di Jules e Jim),
il più geniale è quello da L'angelo sterminatore di
Buñuel, dove la parodia riflette non solo la situazione ma la sua
realtà più profonda: l'impossibilità di uscire dalla stanza, che
blocca Mort e Joana sulla soglia, è l'ammissione inconscia
dell'impossibilità oggettiva di concretizzare quella “fuga
d'amore” che Mort ha preso in considerazione.
Alla
fine di Rifkin's Festival compare,
senza sorpresa, la partita a scacchi con la Morte de Il
settimo sigillo, con cui Woody
ha a che fare fin dai tempi di Amore e guerra
(1975); e in risposta all'autocritica di Mort sull'essere sempre
stato uno snob pedante, la Morte (Christoph Waltz) offre una ricetta:
lavoro, famiglia, amore – “the usual bullshit”, dice, ma
funziona (qui sale nella memoria, per esempio, Radio Days).
Più qualche consiglio dietetico per vivere più a lungo e rimandare
l'incontro. Tanto, Woody ce l'ha sempre detto nei suoi film, è un
appuntamento inevitabile. Tanto vale trascorrere la vita che ci è
concessa senza snobismi e senza patemi.
venerdì 7 maggio 2021
Due
Filippo Meneghetti
Nell'Ottocento era
stato chiamato “quell'amore che non osa dire il proprio nome”.
Oggi quell'espressione appare un residuo del passato; ma è ancora
vera per le due protagoniste del film francese Due (Deux),
bell'esordio nel lungometraggio dell'italiano Filippo Meneghetti, che
è nuovamente uscito dopo essere stato vittima della chiusura per la
pandemia.
Barbara Sukowa e
Martine Chevallier senza sorpresa sono ottime nei ruoli di Nina e
Madeleine (Mado), due donne anziane, dirimpettaie nel loro
condominio, che sono amanti da molti anni. Nina è quella decisa,
Madeleine quella prudente; Nina è libera, Mado è vedova con due
figli adulti ai quali ha sempre taciuto la propria scelta
omosessuale, ed è prigioniera di un'antica finzione: l'amore per il
marito dispotico, ora morto. Una serie di avvenimenti – attenzione:
seguono spoiler – fa saltare questa situazione: dapprima le due
progettano di vendere gli appartamenti e trasferirsi in Italia, poi
litigano perché Madeleine non osa dirlo ai figli, infine Mado ha un
ictus (bello l'uso del fuoricampo in funzione drammatica in questa
scena); resta paralizzata e poi attraversa un lento recupero, ma è
incapace di comunicare. Nina si trova nella situazione sconvolgente
di essere una metà della coppia che è però tagliata fuori, perché
agli occhi di tutti è solo la vicina amica. Le due donne avevano
usato i due appartamenti come se fossero uno solo, ma ora Nina deve
sfruttare ogni opportunità, scuse e trucchi di tutti i generi, per
introdursi nell'appartamento di Madeleine e stare con lei – a tutto
detrimento della povera badante Muriel, interpretazione memorabile
della comedienne Muriel Benazeraf (e che si possa lodare in
questi termini un'attrice che compare accanto a due grandi come
Barbara Sukowa e Martine Chevallier non è una realizzazione da
poco).
Al centro di Due
sta l'inganno. Madeleine non ha mai detto la verità ai figli, una
scelta di tacere – una menzogna per omissione – che può anche
apparire conveniente (ed è in linea col carattere di lei, come
vediamo dalla bugia che dice a Nina), ma che diventa una trappola per
entrambe quando colpisce la disgrazia. Il regista Meneghetti ha
dichiarato di aver voluto girare questa storia, più che come un
melodramma, come un thriller, ed è vero: in primo luogo, per la
semplice constatazione che una tensione basata sulla suspense
attraversa il film (lo sguardo di Nina dallo spioncino, il suo
trovarsi nascosta in casa di Mado quando arrivano i figli, o la scena
della telefonata segreta di Madeleine, dichiaratamente
hitchcockiana); in secondo luogo, perché è un meccanismo proprio
del thriller (e anche della commedia, ma qui non c'entra) il concetto
che sostanzia il film, un inganno che deve moltiplicarsi in
progressione geometrica per mantenersi; in terzo luogo, ci basta
riferirci alla saggezza di Hitchcock: per sua natura una storia
d'amore contiene in sé la stessa suspense che una storia di delitto.
Inevitabile la
scoperta, con indignazione dei figli. Vien da pensare che in qualche
modo sia l'età lo “scandalo” di Madeleine ai loro occhi, tanto
per la perdita di una concezione asessuata quanto per l'obbligo di
una ridefinizione che rovescia decenni di “conoscenza pigra” (“Vi
ha mentito per 20 anni. Ama me”, grida Nina). Il film affronta con
sicurezza il tema dell'amore tra vecchi – ed anche la sensualità
del corpo vecchio, quale si vede, con pudore, nella prima scena. Vi
sono un paio di asperità di sceneggiatura – la più evidente: la
mancanza di qualsiasi segnale concordato per comunicare quando
Madeleine ricomincia a muovere una mano e in seguito. Ma Meneghetti
narra questa storia d'amore, inganno e disperazione con convinzione.
C'è un elemento fra onirico e metafisico nel viale di platani
popolato di cornacchie, un luogo nella memoria, dove anche si rifugia
Madeleine durante una “fuga” quando ricomincia a muoversi. Da
notare il bel montaggio secco di Ronan Tronchot. Si fanno ricordare
l'ottimo gioco di inquadrature quando inaspettatamente Madeleine si
alza in piedi, o lo “scivolare” della mdp lungo il pavimento
della stanza devastata prima di un finale, questo sì, apertamente
mélo.