sabato 15 maggio 2021

Rifkin's Festival

Woody Allen

Woody Allen ci ha abituato negli anni all'alternanza tra film con un contenuto più impegnativo (anche senza abbandonare la forma commedia) e opere più leggere: come Rifkin's Festival, che è un aereo, amabilissimo divertissement – anche se in filigrana emergono i classici temi alleniani.
Come spesso nel cinema di Allen, un elemento “catastrofico” (una magia, un incidente, una visita) manda in crisi un equilibro rivelandone la fragilità. Qui si tratta di un viaggio al Festival di San Sebastian, dove l'intellettuale newyorkese Mort Rifkin (Wallace Shawn) accompagna la moglie Sue (Gina Gershon), più giovane di lui. Il loro è un matrimonio che si va lentamente sfaldando. Sue – attenzione, a partire da qui piovono spoiler – fa l'addetta stampa ed è fin troppo attratta dal giovane regista di culto Philippe Germain (Louis Garrel). Mort insegnava cinema in passato (“cinema come arte”) e ora sta cercando di scrivere un romanzo, col dubbio ricorrente di essere troppo ampolloso (turgid); scrive e strappa, scrive e strappa, perché, dice, o sarà nella stessa squadra di Joyce e Dostoevskij o niente. Ecco un altro familiare tratto alleniano: l'ironia sull'artista ambizioso e inadeguato; tenendo conto che per Allen chi è fasullo sul piano artistico lo è anche sul piano morale (basta leggere la sua autobiografia per vedere quanto Woody, autocritico all'eccesso, abbia il terrore di finire entro la categoria).
Il cinema di Woody Allen è popolato dei suoi alter ego, giovani (Jason Biggs, Will Ferrell, Timothée Chalamet) o anziani (Larry David) – sempre non semplici copie ma proiezioni possibili. Qui abbiamo Wallace Shawn, pesce fuor d'acqua al Festival e distributore geloso di battute sarcastiche su Philippe. Il film di Allen – che famosamente preferisce suonare il clarinetto piuttosto che andare a a ritirare un Oscar – è feroce sia col cinema d'oggi, a partire dallo sbandieramento dell'impegno. Mort ama solo i grandi film europei e i classici americani sono troppo ottimistici per lui; non gli piacciono nemmeno le migliori commedie americane come Susanna di Hawks. Questo pare contrapporsi alla concezione storica di Allen (cfr. Crimini e misfatti), ma non bisogna sovrapporre del tutto il personaggio e l'autore; del resto Mort è dichiaratamente una caricatura del Pedante, e alla fine del film ammette di essere stato troppo rigido nell'approccio.
Il destino vuole che Mort faccia la conoscenza di una giovane dottoressa spagnola, anche lei con dispiaceri coniugali, Joana detta Jo (Elena Anaya): la sua anima gemella come gusti cinematografici, e innamorata di New York dove ha studiato. Per Mort è amore a prima vista, e inizia un silenzioso corteggiamento. E' stata rilevata la (voluta) mancanza di physique du rôle del bravissimo Wallace Shawn nella parte del maturo innamorato; non tanto per l'età in sé (in fin dei conti anche Woody ha sposato una donna assai più giovane) quanto per l'aspetto che ricorda una vecchia tartaruga saggia. Direi che in questo è da vedersi un'ironia un po' malinconica sulla forma mentis maschile, èer la quale la possibilità di una storia con una donna giovane appare sempre come una possibilità concreta: gli uomini si vedono “da dentro”. Peraltro, come sentiamo in questo film, “Da quando le relazioni sono razionali?”; e Woody Allen in tutto il suo cinema ci ha ricordato come sia capricciosa La dea dell'amore (Mighty Aphrodite).
Ricorre nel cinema alleniano l'idea della fuga: un “Imbarco per Citera” (o Manhattan!) come negazione della disamata realtà. Rifkin's Festival si costruisce su una simmetria: Joana è un sogno per Mort, ma anche lui, gentile intellettuale newyorkese fino al midollo, è – in forma meno definita sul piano dei sentimenti – un sogno per lei. E poi, quale raddoppiamento parodistico, “copia bassa”, Philippe è un sogno per Sue, sebbene i progetti di quest'ultima col più giovane tombeur de femmes non ci sembrino proprio fondati sulla roccia. E' anche da notare che Joana non è scandalizzata dai sentimenti inespressi ma chiarissimi di Mort; il suo “Non credo che sarebbe una buona idea”, al telefono, alla proposta di rivedersi l'ultimo giorno, non è un educato rifiuto ma piuttosto la classica “serena rinuncia”; e all'idea di un viaggio un giorno o l'altro a New York per “un hamburger alla Minetta Tavern”, la sua risposta un po' triste è “Who knows?” – e la mdp indugia sul suo primissimo piano, con un grande pezzo di recitazione muta di Elena Anaya. Siamo in un contesto čechoviano; e non lo dico per la suggestione di Wallace Shawn che ha interpretato uno splendido Zio Vanja cinematografico per Louis Malle, ma perché Čechov è uno dei numi ispiratori di Woody Allen in tutto il suo cinema. Autunno che arriva, speranze e rinunce, ricordi e sogni.
Sogni... Eccoci all'aspetto più appariscente di Rifkin's Festival: la sua intelaiatura metacinematografica. Allen fa sì che Mort riveda se stesso, le sue donne, i suoi conoscenti, la sua situazione, le sue paure, in una serie di divertentissime parodie in b/n di grandi testi cinematografici (occorre ricordare qui che la parodia è in primo luogo un atto d'amore?) – iniziando con l'Orson Welles di Citizen Kane, l'unico autore americano, con un tipico edificio del Bronx dentro la palla di vetro e con Rose Budnick, amica dei genitori, al posto di Rosebud. Questi frammenti entrano nel racconto o come sogno o come rêverie (giustamente la parola francese è connessa al sogno). Il b/n non è solo per ovvia aderenza al testo imitato ma per marcare un mondo alternativo in contrapposizione alla realtà;: nel cinema di Woody Allen la bellezza e l'arte sono la cosa vera.
Questi brani offrono un divertimento doppio: per l'immissione incongrua di Mort e degli altri personaggi, compresi quelli della sua memoria, nell'universo di Fellini o di Bergman e per l'acribia con cui Allen riproduce gli stilemi dei maestri. Per fare un solo esempio, vedi i primissimi piani drammaticamente ravvicinati nella parodia del bergmaniano Persona (per inciso, il discorso del “silenzio di Dio” produce la battuta più spassosa di tutto il film). Se solitamente i frammenti riflettono deliziosamente le circostanze vissute da Mort (l'idea di un ménage á trois che a Sue andrebbe benissimo gli fa vedere la moglie, Philippe e se stesso in una celebre scena di Jules e Jim), il più geniale è quello da L'angelo sterminatore di Buñuel, dove la parodia riflette non solo la situazione ma la sua realtà più profonda: l'impossibilità di uscire dalla stanza, che blocca Mort e Joana sulla soglia, è l'ammissione inconscia dell'impossibilità oggettiva di concretizzare quella “fuga d'amore” che Mort ha preso in considerazione. 
Alla fine di Rifkin's Festival compare, senza sorpresa, la partita a scacchi con la Morte de Il settimo sigillo, con cui Woody ha a che fare fin dai tempi di Amore e guerra (1975); e in risposta all'autocritica di Mort sull'essere sempre stato uno snob pedante, la Morte (Christoph Waltz) offre una ricetta: lavoro, famiglia, amore – “the usual bullshit”, dice, ma funziona (qui sale nella memoria, per esempio, Radio Days). Più qualche consiglio dietetico per vivere più a lungo e rimandare l'incontro. Tanto, Woody ce l'ha sempre detto nei suoi film, è un appuntamento inevitabile. Tanto vale trascorrere la vita che ci è concessa senza snobismi e senza patemi.

Nessun commento: