domenica 24 novembre 2024

Giurato numero 2

Clint Eastwood

Fa male a vedersi”, lo splendido e terribile Giurato numero 2 di Clint Eastwood – per la potenza con cui ci parla del dolore umano e di scelte che sono comunque perdenti; e per il modo in cui (contro le antiche e onorate regole hollywoodiane) lascia il giudizio morale interamente a noi spettatori. Non è un film testamentario (semmai lo era Cry Macho), è un dramma morale basato su un’ipotesi, che pone un problema, impone una riflessione.
Si tratta di un courtroom drama, un dramma giudiziario, su un processo magnificato dal bellissimo montaggio di di David S. Cox e Joel Cox: nota come vengono alternate velocemente, contro l’ordine temporale oggettivo, le arringhe finali dell’accusa e della difesa, mettendole in parallelo come se fosse un dialogo. Per l’omicidio di una donna, trovata morta in un burrone mesi prima, viene processato il suo fidanzato, un pregiudicato che era stato visto litigare furiosamente con lei. Un courtroom drama e non un thriller ma una tensione da thriller lo attraversa. Bisogna aggiungere che tale tensione dapprima è legata allo sviluppo narrativo (cosa accadrà?); poi, senza abbandonare questo, si allarga al piano morale (cosa è giusto fare?).
La prima votazione vede undici giurati contro uno, come nel famoso Twelve Angry Men (La parola ai giurati) di Sidney Lumet (1957). In quel film l’unico innocentista, Henry Fonda, si batteva per rovesciare il verdetto in una tesa memorabile discussione. Ma Henry Fonda serviva imparzialmente la verità. Qui – attenzione, seguono spoiler: la lettura è per chi ha già visto il film – il giurato numero 2 (Nicholas Hoult), Justin, ex alcoolizzato guarito, la cui moglie aspetta un bambino, ha un motivo personale. Eastwood (su sceneggiatura di Jonathan Abrams) mette le carte in tavola già all’inizio. All’inizio del processo, nell’illustrazione preliminare del caso da parte dell’accusa, gli ossessivi primissimi piani di Justin (laddove ordinariamente ci si aspetterebbero i controcampi dell’imputato) sono un modo abile per dirci senza bisogno di dialogo che il vero imputato è lui, non davanti alla legge ma alla coscienza, e alla sua paura. Infatti, per un perfido gioco del destino, Justin è moralmente innocente ma tecnicamente colpevole proprio della morte della ragazza. L’aveva investita lui in quella lontana notte di pioggia battente, e credeva di aver colpito un cervo poi fuggito; in realtà la donna era stata scagliata nel burrone oltre il parapetto. Ma se Justin lo dicesse adesso, nessuno crederebbe a un ex bevitore (che per di più quella notte aveva ordinato al bar un whisky senza poi berlo), e lo aspetterebbero molti anni di carcere. Di qui il suo tentativo di far sì che l’imputato sia assolto, giocando sulla tenuità delle prove, però senza autodenunciarsi – ma anche il suo doppio gioco quando un altro giurato, un ex poliziotto (J.K. Simmons), si avvicina troppo alla verità.
Il film si apre con l’immagine della moglie di Justin con una benda sugli occhi: è per farle trovare una sorpresa in casa, ma anticipa in modo geniale e impressionante il grande tema del film, che è la giustizia. Il che fare della giustizia quando ogni scelta a disposizione è distruttiva – e, in una parola, ingiusta. Il protagonista è innocente come l’imputato; confessare salverebbe l’accusato dall’ergastolo ma distruggerebbe, oltre che lui stesso, la sua famiglia. Il dilemma si duplica nell’ambiziosa, ma onesta, pubblica accusatrice Faith (una Toni Collette da Oscar), che ha investito molto su questo processo per la sua carriera, e viene a scoprire con orrore la verità.
Con un finale aperto (non è detto che Faith sia venuta per arrestare Justin, benché questa sia l’interpretazione più probabile) che si chiude sul campo/controcampo dei due, Eastwood e Abrams rinunciano a ogni sorta di soluzione che metta un punto fermo in positivo o in negativo (esempi immaginari, l’imputato muore in cella, Justin si consegna con nobili parole, Justin si uccide, Faith decide di lasciarlo andare, salta fuori un testimone deus ex machina, un pazzo confessa di avere ucciso lui la donna anche se non è vero). Siamo lasciati soli a decidere.
Se ci prendiamo la responsabilità di rispondere che Justin deve cadere, tutto diventa un Fiat Iustitia, pereat mundus inumano. Ma se ci prendiamo la responsabilità di rispondere – come chi scrive queste righe – che è giusto che Justin si salvi a spese dell’imputato (che è stato uno spacciatore), in una sorta di bilancia dei mali… non solo il concetto base del giusto processo è tradito, ma non possiamo chiudere gli occhi davanti al fatto che Justin se la cava personalmente assai bene (nessuno è innocente!), e ci torna in mente il rassegnato cinismo di Martin Landau alla fine di Crimini e misfatti di Woody Allen, altro capolavoro sulla questione morale.
Non è un quiz. Eastwood in questo film ci pone di fronte all’essenza della tragedia, dove non c’è soluzione rispetto alle forze contrastanti che lacerano la vita del protagonista. Non c’è composizione, non c’è possibilità di battersi come Richard Jewell, altro protagonista di una situazione kafkiana; c’è solo il male dell’esistenza, con la spietatezza di un Cornell Woolrich. In tutta la sua carriera, prima nelle forme del cinema di genere, poi andando oltre il cinema di genere senza rinnegarlo, Clint Eastwood ha dibattuto gli stessi temi: la responsabilità, il pentimento, la scelta, la giustizia sostanziale, il destino, cosa significa essere un uomo. Ora novantaquattrenne, con una perfetta regia di sobrietà classica
riprende la sua riflessione in questo film non solo profondamente ma anche dolorosamente umano.

sabato 23 novembre 2024

Giornate del Cinema Muto 2024


Non precisamente una recensione, per pesanti motivi di lavoro; devo limitarmi a riportare qui sul blog alcune impressioni (già pubblicate su Facebook o sul “Messaggero Veneto”) circa Le Giornate del Cinema Muto 2024.

Il filmone di sabato 5 ottobre a Le Giornate del Cinema Muto è – d’obbligo – “Three Bad Men” (1926) di John Ford, già passato a Pordenone nel 2017: superbo western epico e pudicamente lirico, fra dramma nel racconto, che cita Griffith, e “comedy” nei tre indimenticabili personaggi eponimi. Lo ha accompagnato l’Orchestra da Camera di Pordenone diretta da Timothy Brock su sua partitura. Però non posso non menzionare anche i magnifici dodici minuti del cortometraggio su un terremoto “El desastre en Oaxaca”, diretto da Ejzenštejn, da lui montato con Aleksandrov, fotografato da Tissé – come dire, il Gotha del cinema ejzenštejniano. Confesso che neppure sapevo dell’esistenza di questo breve film. Lo abbiamo visto nel pomeriggio all'interno della rassegna latinoamericana (e forse avrebbe trovato miglior collocazione, per un pubblico più vasto, aprendo la serata d'apertura del festival al posto di un simpatico ma non memorabile Baby Peggy).

In realtà domenica 6 son potuto passare a Le Giornate del Cinema Muto solo il pomeriggio, perdendo “La Boheme” di King Vidor. Ma il filmone l’ho visto lo stesso, perché “Trilby” di Maurice Tourneur (la ragione del mio viaggio) si è rivelato il capolavoro che mi aspettavo. La grande maestria di Maurice Tourneur (che per inciso è il padre di Jacques) emerge “come un grido” dalla superba costruzione dell’inquadratura con magnifiche partizioni dello spazio. Si vorrebbe parlare a lungo di trovate come il mascherino che “racchiude” i viaggi di Trilby o della gestione abilissima dell’immagine del malefico dipinto nel finale. In questa versione (1915) del dramma sull’ipnotismo di George Du Maurier – il cui personaggio di Svengali è un cavallo di battaglia di molti attori – emerge la bellissima interpretazione, variata e incisiva, di Clara Kimball Young nel ruolo di Trilby, la sua vittima. Aggiungo che, poiché il personaggio è una modella per pittori e scultori, il ruolo le consente un paio di inquadrature di nudo audaci per l’epoca.

Tutti gli appassionati di cinema conoscono Anny Ondra, la bella e brava attrice cecoslovacca che compare in due grandi film muti di Hitchcock, “The Manxman” e “Blackmail” (di quest’ultimo c’è anche una versione sonora, con Anny Ondra doppiata). Però sono due parti drammatiche. Incontrare Anny Ondra in chiave di “comedy”, anche se di commedie ne girò moltissime, è stata una sorpresa per gli spettatori delle Giornate del Cinema Muto lunedì 7. Il film era l’esilarante “Saxophon-Susi” (Germania 1928), diretto da Karel Lamač, che era anche il marito dell’attrice.
Saxophon-Susi” si apre dietro le quinte di un teatro tedesco su alcune belle ragazze con le gambe nude; le gambe generosamente esposte sono quasi un filo conduttore visuale di questo film teneramente libertino che si premura di metterle in mostra ogni volta che può. È un po’ la storia di Cenerentola a rovescio: Anni (Ondra) è figlia di un ricco barone ma invidia la sua amica Susi, ballerina di fila a teatro. A Susi invece sarebbe piaciuto tanto studiare. Così, quando partono per l’Inghilterra – la prima per studiare al college, la seconda per perfezionarsi in una scuola di ballerine – Anni convince Susi a scambiare nomi e identità. La scena in cui si scambiano i vestiti del bagaglio tirandoseli da una cabina all’altra ha una freschezza da Nouvelle Vague. Il valletto del lord che corteggia Susi, passando nel corridoio in quel momento, se ne ritrova coperto («Mi sembra di essere la Zia di Carlo», famosa commedia su un uomo che si traveste da donna); se ne libera ma nella distrazione gliene ‘ rimasto addosso uno, con cui cerca di ripulire la faccia del lord sporca di rossetto – e naturalmente, altro tocco di humour leggermente libertino, è un indumento intimo. “Saxophon-Susi” è una spensierata epopea dello scambio di identità, che diventa bollente quando la falsa Susi torna in patria per ballare in una rivista e deve nascondere l’inghippo al barone suo padre (il quale dal canto suo è un vecchio ganimede corteggiatore di ballerine). Questa commedia estremamente divertente, grazie anche all’apporto di alcuni caratteristi formidabili, è attraversata da una “joie de vivre” che viene dall’operetta ma con qualcosa in più. La musica vi gioca un ruolo importante fin dal titolo: la scena centrale si articola su uno sfrenato numero di danza di Susi sul testo in didascalia della canzone dui Rudolf Nelson “Susie suona il sassofono”. Naturalmente fornire il sonoro era cura dell'accompagnamento, e a Pordenone il pubblico ha avuto la fortuna di godere di un formidabile accompagnamento a tre di Neil Brand, Frank Bockius e Francesco Bearzatti. Lo scatenato numero di danza di Susi è stato accolto da un grande applauso alla fine: sullo schermo, dai personaggi del film, fuori dallo schermo, dal pubblico delle Giornate.  

(Messaggero Veneto

Il filmone di martedì 8, a Le Giornate del Cinema Muto, era senza dubbio "The Pride of the Clan" del grande Maurice Tourneur, dove Mary Pickford interpreta con molta verve il ruolo di una capo-clan donna in un'isola sperduta della Scozia contemporanea. La scena in cui manda gli abitanti in chiesa a frustate è divertentissima, anche se il film non è affatto una commedia. La grandezza multiforme di Tourneur qui si vede specialmente negli esterni del paese, dove si fanno notare le inquadrature di animali in giro per le strade, e con le sue evocative scene di massa.

Basta, diranno gli amici, è la terza volta che il tuo “filmone del giorno” a Le Giornate del Cinema Muto 2024 è di Maurice Tourneur! Ma cosa posso farci se è un grandissimo? In “The Blue Bird” (mercoledì 9 mattina, e l’avevamo già visto alle Giornate anni fa) Tourneur mette in scena il dramma simbolista di Maurice Maeterlinck con fantasia visuale e sensibilità. Sfido chiunque a non commuoversi su pagine come la visita ai nonni morti o la zona dei bambini in attesa di nascere. (Sfida persa, ci sono anche alle Giornate degli imbecilli pronti a ridacchiare per ogni cosa). Come sempre, l’uso dello spazio in Tourneur è magistrale; inoltre qui il carattere fantastico del racconto gli consente di spingersi molto avanti sul piano dell’astrazione.
Ma se volete un altro filmone, non di Tourneur: “Vanina” di Arthur von Gerlach, con Asta Nielsen, è un dramma post-espressionista del 1922, lo stesso anno del “Nosferatu” di Murnau, col quale ha molto in comune (fatta salva ovviamente la superiorità di “Nosferatu”): il trasferimento di valore simbolico dagli sfondi espressionisti alle architetture reali, la tipizzazione grottesca e la recitazione estremizzata (per entrambe le cose qui Paul Wegener è memorabile), e naturalmente i grandi temi tedeschi dell’amore, del destino e della morte in attesa.

È sbagliato credere che il cinema muto fosse in bianco e nero. Molti film erano vivacemente colorati, al “pochoir” (colore applicato manualmente sul fotogramma con pennellini o tamponi) o con tinture. Ne è un esempio il lungometraggio francese “La Sultane de l'amour”, 1919, visto mercoledì 9 sera: una storia esotica in cui le splendide colorazioni al pochoir (e tintura) sono una gioia per gli occhi e forniscono buona parte (noi arriveremmo a dire tre quarti e oltre) del fascino del film. Racconto ispirato alle “Mille e una notte”, per i costumi sfrutta i colori più vivi. Che giubbe porpora o color prugna! Che turbanti rosso vivo o verde erba! Camicie turchese o giallo paglierino! Ma anche un tramonto rosso fuoco in tintura, che la didascalia connette alla sete di sangue del sultano malvagio. Perché il film racconta (con un occhio alla narrazione digressiva delle “Mille e una notte”) del crudele sultano Malik che imprigiona e tormenta una principessa che non vuole sposarlo. France Dhélia porta al ruolo della principessa forza di carattere e anche un tocco di erotismo. Paul Vermoyal, il sultano, conferma la regola che al cinema in genere il cattivo è più interessante dell'eroe. E nel ruolo di uno spietato guerriero al suo servizio (certi freddi sorrisi a bocca chiusa che non raggiungono gli occhi!) rivediamo Gaston Modot, un grande del cinema francese, per lo più caratterista, ma centrale in due massimi capolavori, “L'Age d'or” di Bunuel e “La regola del gioco” di Renoir.
Sultana dell'amore, amore tragico, fu anche Anna May Wong, che scherzava sul fatto di morire in tutti i film. Le Giornate 2024 celebrano questa grande diva cinese (tutti la ricordiamo a fianco di Marlene Dietrich in “Shanghai Express”), unica star cinese a Hollywood, attiva negli Usa e in Europa. Sempre mercoledì 9, abbiamo ammirato la sua bravura di attrice, per non dire della sua bellezza, nel film tedesco-inglese “Song”. Il cupo John salva e protegge la derelitta Song, che si innamora di lui; ma John ama ancora Gloria, che lo ha abbandonato. È un super-melodramma con tutti i crismi e le situazioni del genere, dal passato che ritorna all'amore infelice, dal sacrificio alla cecità, con Song che pietosamente finge di essere “l'altra” per John diventato cieco.
L'attore tedesco Heinrich George disegna bene il ritratto dell'innamorato bestiale e geloso, alla Wallace Beery, ma è Wong che domina il film. Possiede una capacità mimica eccezionale e sebbene reciti una parte drammatica ha la capacità di fare appello allo spettatore con quei tocchi che gli americani chiamano “cute” (sarebbe “grazioso”, ma non rende appieno). Azzardiamo un'ipotesi: che Wong avesse studiato attentamente lo stile interpretativo di Lillian Gish. In ogni modo, vederla sullo schermo è un continuo, ammirato piacere.

(Messaggero Veneto)

Che grande film “Three Women”, Ernst Lubitsch 1924, visto a Le Giornate del Cinema Muto giovedì 10. Lubitsch è “il regista delle porte” (copyright Mary Pickford). È il regista delle entrate e delle uscite di scena. È il regista dello scambio di sguardi e dei campo/controcampo geniali. È il regista che riporta sullo schermo nel modo più snello e intelligente possibile l'interazione umana. Questo è il “Lubitsch touch”. Tutto è così incredibilmente fluido nel suo cinema; se Lubitsch fosse musica, sarebbe Mozart.
È in grazia di questa magica fluidità che il racconto, come in “Three Women”, può passare dalla commedia al dramma al mélo senza mai dare, non dico un'idea di stacco, ma nemmeno una sensazione di cambio volontario di direzione. Sembra essere la vita stessa che si sviluppa sotto i nostri occhi, in questa storia di una madre troppo frivola e di una figlia troppo ingenua.
Nota in margine. Una bella sorpresa: il gioielliere da cui il ragazzo innamorato compra un braccialetto per Jennie, in una breve scena, è Max Davidson.

Raskolnikow”, di Robert Wiene (Germania 1923), il filmone di venerdì 11 Le Giornate del Cinema Muto, è un po' il contrario di “Vanina” di von Gerlach, che è dell'anno prima. Qui, la recitazione è realistico-psicologica (l'isterismo del protagonista ha una giustificazione diegetica) mentre le scenografie mostrano quella deformazione espressionista presente ne “Il gabinetto del dottor Caligari” di Wiene (e anche in “Von Morgen bis Mitternacht” di Karl Heinz Martin). Una contraddizione fra messa in scena e recitazione? (laddove in “Caligari” erano coerenti). Francamente sì. Però, come a volte capita, è una contraddizione feconda. Il film non è indebolito dalla sua scenografia irreale, che anzi in alcuni punti (non sempre) produce una risonanza con lo stato d'animo dei personaggi.
Certamente, la concezione profonda di questo “Delitto e castigo” è affine al concetto espressionista di un universo-macchina che schiaccia gli individui più che al misticismo cristiano di Dostoevskij. Anche la conversione finale di Raskolnikow (lo scrivo alla tedesca come nel film) con i suoi segni di croce tiene più della follia che della serenità ritrovata attraverso l'espiazione, come in Dostoevskij. Ma è una lettura legittima, e il film, assai ben interpretato da attori russi, si fa ricordare. Proprio in questa diversa linea si situa la trasformazione di Porfirij Petrovič, l'amministratore della giustizia, in una figura inquietante, forza del destino più che tramite dell'espiazione. È molto indicativa un'inquadratura che (sfruttando l'assoluta libertà “grafica” del film) lo presenta seduto alla sua scrivania con intorno un disegno di linee nere che formano visibilmente una ragnatela: come un ragno in attesa della vittima, Raskolnikow, di cui ha già intuito la colpevolezza.

Si sono concluse, sabato 12Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone, come sempre emozionanti, tanto che era appena ieri e già il pensiero va all'anno prossimo. Per quanto sia bello “The Winning of Barbara Worth” di Henry King (che sabato sera ha concluso la rassegna con l'accompagnamento dell'Orchestra da Camera di Pordenone diretta da Ben Palmer su partitura di Neil Brand), come ultimo “filmone” di queste brevi corrispondenze da Pordenone scelgo un film del pomeriggio, “Forgotten Faces” (USA 1928) di Victor Schertzinger. Magistralmente interpretato da Clive Brook con una recitazione minimalista, viso rigido e occhi espressivi, è uno splendido giallo che inizia come “comedy” e si sviluppa come film di suspense. Un ladro gentiluomo, soprannominato “Eliotropio” perché ama questo profumo, uccide l'amante della moglie, abbandona lei (che incidentalmente l'aveva denunciato alla polizia per liberarsene) e porta via la figlia neonata. Fa in modo che venga adottata da una famiglia ricca e poi si costituisce.
17 anni dopo, la moglie Lily – una grande Olga Baclanova (“Freaks”) di scatenata malvagità – scopre dov'è la figlia e ha intenzione di rovinare la sua vita per vendetta contro il marito. Rilasciato su parola, “Eliotropio”, che ha giurato al direttore della prigione di non alzare la mano su Lily, la perseguita, facendole crollare i nervi, in un modo indiretto che anticipa certi horror psicologici degli anni Sessanta come “Che fine ha fatto Baby Jane?” – mentre nel finale il racconto sfocia in una grande pagina di suspense in pieno stile anni Venti.
Un film affascinante, anche se entrambi questi esercizi di suspense di natura diversa hanno provocato in sala qualche risata da parte di alcuni ignoranti che non saprebbero distinguere Alfred Hitchcock da Mack Sennett.


sabato 16 novembre 2024

Il gladiatore II

Ridley Scott

Giacché invecchiando Ridley Scott è calato in forza e capacità… “La voce del cantor non è più quella”… è stata per lui una buona idea tornare ad abbeverarsi all’antica fonte (non che funzioni sempre: pensiamo ai ritorni ad Alien); così ci ha dato Il gladiatore II, il suo miglior film da anni (dove, per inciso, già dispongono bene i titoli di testa di Pierluigi Toccafondo). Non è un cupo capolavoro come Il gladiatore del 2000, di cui è il sequel; ma è convincente e suggestivo. Certo, i tratti fondamentali che caratterizzavano il grande cinema di Ridley Scott appaiono solo in forma residuale. Il gladiatore era un dramma di ispirazione quasi shakespeariana e insieme una riflessione sul vedere. Qui siamo a un livello più basso.
Il sistema coloristico del film non ha l’agghiacciante coerenza (con i blu al posto dei rossi) del primo Il gladiatore. Scott però se ne ricorda in alcuni momenti: molto bello il salto di colore fra l’assolata città numidica e il grigiore temporalesco della flotta romana in avvicinamento; la battaglia che segue è una delle pagine migliori. Peccato che il protagonista Paul Mescal non valga Russell Crowe – sicché soffre nella vicinanza con l’ottimo Denzel Washington, che gli ruba invariabilmente la scena. O anche la sperimentata Connie Nielsen.
Arnone (Paul Mescal) è un guerriero della Numidia che vede morire la moglie arciere in battaglia contro i Romani; è logico che li odi, in particolare nella persona del generale Acacio (Pedro Pascal). Dopo la sconfitta diventa schiavo e gladiatore sotto l’ambizioso Macrino (Denzel Washington), che sogna addirittura l’Impero. Ma che qualcosa non torni nella nazionalità di Arnone, lo capiamo già all’inizio, quando in un discorso ai guerrieri numidi saccheggia Tacito ed Epicuro; più tardi, da gladiatore vittorioso, reciterà Virgilio in faccia ai due ignorantissimi imperatori. Infatti sul trono, al posto di Commodo, ora c’è un mostro doppio: la sadica coppia gay degli psicopatici imperatori gemelli Caracalla e Geta (Fred Echinger e Joseph Quinn).
Naturalmente nella realtà non erano neanche gemelli, per non dir del resto; ma la rievocazione storica del film è del tutto immaginaria. Non c’è ragione di preoccuparsene; anche il primo Gladiatore aveva un atteggiamento supremamente sfacciato nei riguardi della storia. Nel presente film, è delizioso vedere il senatore Thraex che aspetta la spia al tavolino di un bar (d’accordo, taberna) leggendo una specie di quotidiano; più tardi, assistiamo a una seduta del Senato storicamente folle, ma divertentissima.
Semmai spiace di più quando Il gladiatore II entra in contraddizione con se stesso. Nel film, perfino un graffito osceno che vediamo di sfuggita su un muro (“Irrumabo”: l’ispirazione non viene da Pompei ma da Catullo) è, giustamente, in latino; quindi è assurdo che sia in inglese l’iscrizione sopra la tomba dell’eroe Massimo Decimo Meridio del primo film.
Con bei tocchi visuali, come una Roma notturna popolata di homeless, con i classici giochi di potere e tradimenti e inevitabili agnizioni, Il gladiatore II ci offre da un lato un tocco di piacevole melodramma in puro stile peplum, dall’altro (ecco il suo pezzo forte) deliranti e spettacolari combattimenti nell’arena – citiamo solo la naumachia (battaglia navale) nel Colosseo allagato, con aggiunta di squali. Sono così belli da farci pensare che è un bene che esista il cinema per offrirceli senza bisogno di averli dal vero. Perché, ammettiamolo, le nostre emozioni guardandoli sono le stesse del pubblico romano sulle gradinate.

sabato 9 novembre 2024

Megalopolis

Francis Ford Coppola

Il 2024 ha visto l'uscita di due film importanti, nonché flop colossali. Il primo è l'“eroico suicidio” di Joker: Folie à Deux di Todd Phillips – che sul piano artistico è più bello del precedente Joker, ma sul piano commerciale era a tal punto destinato al fallimento che sembra impossibile non sia stato fatto apposta. Il secondo ovviamente è Megalopolis: A Fable di Francis Ford Coppola.
Se muoio, tu finirai questo film – e se muori anche tu, lo farà Lucas”. Questa ingiunzione da patriarca biblico, o da eroe di John Huston, che Coppola rivolge a John Milius sul set di Apocalypse Now, dice tutto. È addirittura offensivo pensare a Megalopolis come a un film riassuntivo di fine carriera. A parte che Megalopolis è un suo vecchio progetto di sempre, la tendenza di Coppola al gigantismo, la sua volontà di sorpassare il cinema della propria epoca (le “citazioni” in Megalopolis più che omaggi sono cannibalizzazioni), la sua sperimentazione continua, tutto ciò non è un frutto della vecchiaia ma l'anima coppoliana di sempre. Parlando, anni fa, proprio di Apocalypse Now Massimo Caprara definiva Coppola come l'ultimo dei grandi registi visionari di Hollywood (Griffith, von Stroheim, Welles). E sui suoi progetti Coppola è disposto a scommettere la camicia: la sua storia produttiva è una storia di trionfi e rovinose cadute, come Un sogno lungo un giorno – che con Megalopolis ha qualcosa in comune. Coppola è genio solitario, costruttore/distruttore, profeta. La sua figura, il Grande Artefice visionario, si rispecchia nell'architetto Cesare Catilina, che vuole costruire la città del sogno per tutti; ed è (quasi) inutile ripetere che alla base c'è l'architetto de La fonte meravigliosa, sorto prima che nel cinema di King Vidor dalla fantasia anarchica di Ayn Rand.

Megalopolis – il cui sottotitolo A Fable riporta la passione di Coppola per la favola e il mito – si articola su due linee base. La prima è la grande metafora con cui l’America d’oggi si fonde con l’antica Roma (un’idea che nella sua semplicità spettacolare ha qualcosa di cormaniano, se ci va di evocare gli esordi del regista). Nel film, quel concetto di crisi e caduta della civiltà occidentale che ha sempre ossessionato Coppola si pettina con la frangetta dei romani. C’è un vero divertimento del Coppola sceneggiatore nel tracciare corrispondenze (Clodio, il travestimento e lo scandalo della Bona Dea). I nomi/personaggi sono scelti con accuratezza, confermando “l’intrinseca letterarietà che regola l’opera di Coppola nell’insieme” (Franco La Polla). Soprattutto è importante notare che il protagonista, interpretato da Adam Driver, non si chiama Catilina ma Cesare Catilina: non semplicemente l'aspirante eversore della (corrottissima) Repubblica romana, l'uomo contro il quale Cicerone pronunciò le Catilinarie (qui puntualmente citate), ma anche l'autentico eversore di quella Repubblica, colui che passò il Rubicone – e fece bene (del resto, se leggiamo Sallustio, vediamo che i rapporti fra Cesare e Catilina erano tutt’altro che indifferenti, benché abilmente nascosti).
Lo scontro fra il costruttore Cesare Catilina e il sindaco Cicerone è lo scontro fra l'amministratore della quotidianità e l'artista geniale e incontrollabile. Coppola nella sua opera ama ragionato per opposizioni. L’oggi in lotta contro il domani, il buon senso quotidiano contro l'utopia – ma, direbbe Coppola, in un momento di crisi in cui l’oggi sta crollando, solo l'utopia del domani indica la salvezza.

La seconda linea base di Megalopolis, che corre all’interno della prima, quasi nascosta nelle sue pieghe, è un discorso vagamente metafisico sul tempo. Coppola ha sempre nutrito una fascinazione verso il tempo e il futuro. “Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti”, dice famosamente Dracula a Mina, entro un concetto di reincarnazione; nel tempo viaggia materialmente la protagonista di Peggy Sue si è sposata; un viaggio simbolico nel fiume del tempo, non solo sul piano geografico, è quello di Apocalypse Now Redux; il tempo corre e uccide in Jack; ma pensiamo anche alla complessa tessitura temporale de Il padrino – Parte II. È quasi disperata la domanda, che risuona in Megalopolis, di “costruire un futuro per noi”. Ora, l’architettura e la politica sono precisamente due modi di modellare il tempo costruendo il futuro. Questo è il nodo dello scontro fra Cicerone e Catilina. Su questo Coppola innesta un’idea sorprendente (ma discutibile): Catilina possiede una sorta di superpotere, quello di fermare il tempo a piacimento in segreto.

La monumentalità formale che contraddistingue Coppola, vero figlio della New Hollywood, è ben riconoscibile in Megalopolis. Coppola come autore ha una concezione totalizzante del cinema, una concezione wagneriana (gesammelte Kunstwerk) che gli viene dall'amato Ejzenštejn. Ma è, la realizzazione, pari alla grandezza del progetto? Si sarebbe, temo, imbarazzati a rispondere di sì. Beninteso, a onta dei molti che si sono affrettati a liquidarlo, Megalopolis è un film fascinoso, una grande esperienza sulla quale spesso torneremo con la memoria. Sarebbe sleale obiettare che è meglio un Coppola disordinato che un Muccino ordinatissimo. Ma certamente Megalopolis è un grande film flawed: un grande film fallato (che non significa fallito). Il titanismo della concezione, del grande disegno, non si rispecchia in un corrispondente titanismo delle singole pagine. Ma la contraddizione principale è un’altra, ed emerge nella dualità delle due linee generatrici del film. Quella capacità che ha Catilina di intervenire sul tempo (“Time, stop!”) a mia opinione rende confusa l'architettura della metafora. La metafora di Megalopolis si realizza attraverso un semi-realismo che male si accorda all'irrealismo fiabesco della dote segreta di Catilina. Il modo in cui essa è esposta è allo stesso tempo (no pun intended) troppo debole per dare sufficiente rilevanza alla seconda linea base del film e troppo forte per non incidere sulla metafora. Si crea una discrasia che danneggia il film – anche se, come vedremo, quella dote misteriosa torna utile a Coppola per un bel finale.


Infatti, Megalopolis è Metropolis. Il capolavoro di Fritz Lang è un modello (inarrivabile) per il film di Coppola. Lo può suggerire anche un dettaglio minimo come le statue allegoriche che si animano – ove Coppola può essersi ricordato delle statue della Cattedrale in una delle pagine meno note del gran film langhiano. Dettagli a parte, però, è il concetto base a unificare i due film.
Metropolis di Lang si fonda sulla contraddizione fra Capitale e Lavoro. Ma alla fine questa contraddizione si risolve in una conciliazione (qui entra in gioco l'ideologia “nazionale” di Thea von Harbou, che per inciso non piaceva a Lang; ma il film è quello). Dalla conciliazione nasce il mondo futuro, l'alleanza delle forze produttive alte e basse, che è simboleggiato dall’unione (desessualizzata) tra Freder e Maria.
Megalopolis di Coppola si articola a sua volta su una contraddizione. I suoi due protagonisti maschili, il sindaco e l'architetto, rappresentano, come già detto, l'Amministrazione e l'Utopia (mi preme dire che – “germanicamente” per Lang, “langhianamente” per Coppola – non si tratta della rappacificazione fra due individui bensì della sintesi dialettica di due concetti ipostatizzati in due individui – anche se Coppola è più americano di Lang nella preoccupazione di vestirli di carne realistica). Non per nulla Cicero ammonisce Catilina che l'utopia facilmente si rovescia in distopia. Ma l'ultima scena rappresenta una conciliazione fra questi opposti, che trova la sua espressione nelle parole del sindaco. In entrambi i casi la riconciliazione avviene dopo un disastro, in Metropolis la rivolta e l'inondazione, in Megalopolis l’esplosione violenta del trumpismo (Coppola è chiarissimo nel connettere le folle agitate da Clodio alla folla trumpiana che invase il Campidoglio nel gennaio 2021).
Chi ha trovato che questo accordo finale – del quale va notata la solennità – entri male nel contesto e indebolisca il film, a mio parere non ha capito il senso dell'opera. In Megalopolis più che in Metropolis (et pour cause, essendo in quel film la visione della sessualità connessa alla “falsa Maria” diabolica), la grande conciliazione viene confermata attraverso il corpo e il sangue: la nascita di una bambina (che calma il dolore di Catilina risarcendo la scomparsa della sua prima moglie): la fondazione di una famiglia che riunisce gli opposti nell’unione fra Cesare Catilina e la figlia di Cicerone, Julia – il cui nome porta in sé la promessa di una dinastia.
Proprio a questo punto torna utile a Coppola quella che continuo però a ritenere una disfunzione del film, la capacità di fermare il tempo. Nel finale, infatti, quando Catilina ferma il tempo l'ultima immagine ci mostra la bambina che si muove; su di lei la dote di Catilina non ha efficacia; che ciò sia importante, Coppola lo sottolinea chiudendo in iride sulla piccola. La centralità finale di questa bambina a sua volta padrona del tempo… una bambina che rappresenta fisicamente la sintesi degli opposti e un’America nuova (“E giustizia per tutti” inscritto nella solennità del marmo)... non fa pensare, più in piccolo, a un altro bambino che rappresentava il futuro – e compariva solennemente alla fine di 2001: Odissea nello spazio?