Non precisamente una recensione, per pesanti motivi di lavoro; devo limitarmi a riportare qui sul blog alcune
impressioni (già
pubblicate su Facebook o sul “Messaggero Veneto”)
circa
Le
Giornate del Cinema Muto 2024.
Il
filmone di sabato 5 ottobre a Le Giornate del Cinema Muto è
– d’obbligo – “Three Bad Men” (1926) di John Ford, già
passato a Pordenone nel 2017: superbo western epico e pudicamente
lirico, fra dramma nel racconto, che cita Griffith, e “comedy”
nei tre indimenticabili personaggi eponimi. Lo ha accompagnato
l’Orchestra da Camera di Pordenone diretta da Timothy Brock su sua
partitura. Però non posso non menzionare anche i magnifici dodici
minuti del cortometraggio su un terremoto “El desastre en Oaxaca”,
diretto da Ejzenštejn, da lui montato con Aleksandrov, fotografato
da Tissé – come dire, il Gotha del cinema ejzenštejniano.
Confesso che neppure sapevo dell’esistenza di questo breve film. Lo
abbiamo visto nel pomeriggio all'interno della rassegna
latinoamericana (e forse avrebbe trovato miglior collocazione, per un
pubblico più vasto, aprendo la serata d'apertura del festival al
posto di un simpatico ma non memorabile Baby Peggy).
In
realtà domenica 6
son
potuto passare a Le Giornate del Cinema Muto solo
il pomeriggio, perdendo “La Boheme” di King Vidor. Ma il filmone
l’ho visto lo stesso, perché “Trilby” di Maurice Tourneur (la
ragione del mio viaggio) si è rivelato il capolavoro che mi
aspettavo. La grande maestria di Maurice Tourneur (che per inciso è
il padre di Jacques) emerge “come un grido” dalla superba
costruzione dell’inquadratura con magnifiche partizioni dello
spazio. Si vorrebbe parlare a lungo di trovate come il mascherino che
“racchiude” i viaggi di Trilby o della gestione abilissima
dell’immagine del malefico dipinto nel finale. In questa versione
(1915) del dramma sull’ipnotismo di George Du Maurier – il cui
personaggio di Svengali è un cavallo di battaglia di molti attori –
emerge la bellissima interpretazione, variata e incisiva, di Clara
Kimball Young nel ruolo di Trilby, la sua vittima. Aggiungo che,
poiché il personaggio è una modella per pittori e scultori, il
ruolo le consente un paio di inquadrature di nudo audaci per l’epoca.
Tutti
gli appassionati di cinema conoscono Anny Ondra, la bella e brava
attrice cecoslovacca
che
compare in due grandi
film muti di Hitchcock, “The Manxman” e “Blackmail” (di
quest’ultimo c’è anche una versione sonora, con
Anny Ondra doppiata). Però
sono due parti drammatiche. Incontrare Anny Ondra in chiave di
“comedy”, anche se di commedie ne girò moltissime, è stata una
sorpresa per gli spettatori delle Giornate del Cinema Muto lunedì 7.
Il film era l’esilarante
“Saxophon-Susi”
(Germania
1928),
diretto da Karel Lamač,
che
era anche il marito
dell’attrice.
“Saxophon-Susi”
si apre dietro le quinte di
un teatro tedesco su
alcune belle ragazze con le gambe nude; le gambe generosamente
esposte sono quasi un filo conduttore visuale di questo film
teneramente libertino che si premura di metterle in mostra ogni volta
che può. È un po’ la
storia di Cenerentola a rovescio: Anni (Ondra) è figlia di un ricco
barone ma invidia la sua amica Susi, ballerina di fila a teatro. A
Susi invece sarebbe piaciuto tanto studiare. Così,
quando partono per l’Inghilterra – la prima per studiare al
college, la seconda per perfezionarsi in
una scuola di ballerine – Anni convince Susi a scambiare
nomi e identità.
La scena in cui si scambiano i vestiti del bagaglio tirandoseli da
una cabina all’altra ha una freschezza da Nouvelle Vague. Il
valletto del lord che
corteggia Susi, passando
nel
corridoio in quel momento, se
ne ritrova coperto («Mi
sembra di essere la Zia di Carlo»,
famosa commedia
su un uomo che si traveste da donna); se
ne libera ma
nella distrazione gliene ‘ rimasto
addosso uno,
con cui cerca di ripulire la faccia del lord sporca di rossetto – e
naturalmente, altro tocco di
humour leggermente libertino,
è un indumento intimo. “Saxophon-Susi”
è una spensierata
epopea
dello scambio di identità,
che diventa bollente quando la falsa Susi torna in patria per ballare
in una rivista e deve nascondere l’inghippo al barone suo padre (il
quale dal canto suo è un vecchio ganimede corteggiatore di
ballerine). Questa commedia estremamente
divertente, grazie anche all’apporto di alcuni caratteristi
formidabili, è attraversata
da una “joie de vivre”
che viene dall’operetta ma
con qualcosa in più. La
musica vi gioca
un ruolo importante fin dal titolo: la scena centrale si articola su
uno sfrenato numero di danza di Susi sul testo in didascalia della
canzone dui Rudolf Nelson “Susie suona il sassofono”.
Naturalmente fornire il sonoro era cura dell'accompagnamento, e a
Pordenone il pubblico ha avuto la fortuna
di godere di un formidabile accompagnamento a tre di Neil Brand,
Frank Bockius e Francesco Bearzatti. Lo scatenato numero di danza di
Susi è stato accolto da un grande applauso alla fine: sullo schermo,
dai personaggi del film, fuori dallo schermo, dal pubblico delle
Giornate.
(Messaggero
Veneto)
Il
filmone di martedì 8,
a Le Giornate del Cinema Muto, era senza dubbio "The Pride of the Clan" del grande Maurice
Tourneur, dove Mary Pickford interpreta con molta verve il ruolo di
una capo-clan donna in un'isola sperduta della Scozia contemporanea.
La scena in cui manda gli abitanti in chiesa a frustate è
divertentissima, anche se il film non è affatto una commedia. La
grandezza multiforme di Tourneur qui si vede specialmente negli
esterni del paese, dove si fanno notare le inquadrature di animali in
giro per le strade, e con le sue evocative scene di massa.
Basta,
diranno gli amici, è la terza volta che il tuo “filmone del
giorno” a Le Giornate del Cinema Muto 2024 è di Maurice Tourneur! Ma cosa posso farci se è un
grandissimo? In “The Blue Bird” (mercoledì 9
mattina,
e l’avevamo già visto alle Giornate anni fa) Tourneur mette in
scena il dramma simbolista di Maurice Maeterlinck con fantasia
visuale e sensibilità. Sfido chiunque a non commuoversi su pagine
come la visita ai nonni morti o la zona dei bambini in attesa di
nascere. (Sfida persa, ci sono anche alle Giornate degli imbecilli
pronti a ridacchiare per ogni cosa). Come sempre, l’uso dello
spazio in Tourneur è magistrale; inoltre qui il carattere fantastico
del racconto gli consente di spingersi molto avanti sul piano
dell’astrazione.
Ma
se volete un altro filmone, non di Tourneur: “Vanina” di Arthur
von Gerlach, con Asta Nielsen, è un dramma post-espressionista del
1922, lo stesso anno del “Nosferatu” di Murnau, col quale ha
molto in comune (fatta salva ovviamente la superiorità di
“Nosferatu”): il trasferimento di valore simbolico dagli sfondi
espressionisti alle architetture reali, la tipizzazione grottesca e
la recitazione estremizzata (per entrambe le cose qui Paul Wegener è
memorabile), e naturalmente i grandi temi tedeschi dell’amore, del
destino e della morte in attesa.
È
sbagliato credere che il cinema muto fosse in bianco e nero. Molti
film erano vivacemente colorati, al “pochoir” (colore applicato
manualmente sul fotogramma con pennellini o tamponi) o con tinture.
Ne è un esempio il lungometraggio francese “La Sultane de
l'amour”, 1919, visto mercoledì 9 sera: una storia esotica in cui
le splendide colorazioni al pochoir (e tintura) sono una gioia per
gli occhi e forniscono buona parte (noi arriveremmo a dire tre quarti
e oltre) del fascino del film. Racconto ispirato alle “Mille e una
notte”, per i costumi sfrutta i colori più vivi. Che giubbe
porpora o color prugna! Che turbanti rosso vivo o verde erba! Camicie
turchese o giallo paglierino! Ma anche un tramonto rosso fuoco in
tintura, che la didascalia connette alla sete di sangue del sultano
malvagio. Perché il film racconta (con un occhio alla narrazione
digressiva delle “Mille e una notte”) del crudele sultano Malik
che imprigiona e tormenta una principessa che non vuole sposarlo.
France Dhélia porta al ruolo della principessa forza di carattere e
anche un tocco di erotismo. Paul Vermoyal, il sultano, conferma la
regola che al cinema in genere il cattivo è più interessante
dell'eroe. E nel ruolo di uno spietato guerriero al suo servizio
(certi freddi sorrisi a bocca chiusa che non raggiungono gli occhi!)
rivediamo Gaston Modot, un grande del cinema francese, per lo più
caratterista, ma centrale in due massimi capolavori, “L'Age d'or”
di Bunuel e “La regola del gioco” di Renoir.
Sultana
dell'amore, amore tragico, fu anche Anna May Wong, che scherzava sul
fatto di morire in tutti i film. Le Giornate 2024 celebrano questa
grande diva cinese (tutti la ricordiamo a fianco di Marlene Dietrich
in “Shanghai Express”), unica star cinese a Hollywood, attiva
negli Usa e in Europa. Sempre mercoledì 9, abbiamo ammirato la sua
bravura di attrice, per non dire della sua bellezza, nel film
tedesco-inglese “Song”. Il cupo John salva e protegge la
derelitta Song, che si innamora di lui; ma John ama ancora Gloria,
che lo ha abbandonato. È un super-melodramma con tutti i crismi e le
situazioni del genere, dal passato che ritorna all'amore infelice,
dal sacrificio alla cecità, con Song che pietosamente finge di
essere “l'altra” per John diventato cieco.
L'attore
tedesco Heinrich George disegna bene il ritratto dell'innamorato
bestiale e geloso, alla Wallace Beery, ma è Wong che domina il film.
Possiede una capacità mimica eccezionale e sebbene reciti una parte
drammatica ha la capacità di fare appello allo spettatore con quei
tocchi che gli americani chiamano “cute” (sarebbe “grazioso”,
ma non rende appieno). Azzardiamo un'ipotesi: che Wong avesse
studiato attentamente lo stile interpretativo di Lillian Gish. In
ogni modo, vederla sullo schermo è un continuo, ammirato piacere.
(Messaggero
Veneto)
Che
grande film “Three Women”, Ernst Lubitsch 1924, visto a Le Giornate del Cinema Muto giovedì 10.
Lubitsch è “il regista delle porte” (copyright Mary Pickford). È
il regista delle entrate e delle uscite di scena. È il regista dello
scambio di sguardi e dei campo/controcampo geniali. È il regista che
riporta sullo schermo nel modo più snello e intelligente possibile
l'interazione umana. Questo è il “Lubitsch touch”. Tutto è così
incredibilmente fluido nel suo cinema; se Lubitsch fosse musica,
sarebbe Mozart.
È
in grazia di questa magica fluidità che il racconto, come in “Three
Women”, può passare dalla commedia al dramma al mélo senza mai
dare, non dico un'idea di stacco, ma nemmeno una sensazione di cambio
volontario di direzione. Sembra essere la vita stessa che si sviluppa
sotto i nostri occhi, in questa storia di una madre troppo frivola e
di una figlia troppo ingenua.
Nota
in margine. Una bella sorpresa: il gioielliere da cui il ragazzo
innamorato compra un braccialetto per Jennie, in una breve scena, è
Max Davidson.
“Raskolnikow”,
di Robert Wiene (Germania 1923), il filmone di venerdì 11
a Le Giornate del Cinema Muto, è un po' il contrario di “Vanina” di von Gerlach, che è
dell'anno prima. Qui, la recitazione è realistico-psicologica
(l'isterismo del protagonista ha una giustificazione diegetica)
mentre le scenografie mostrano quella deformazione espressionista
presente ne “Il gabinetto del dottor Caligari” di Wiene (e anche
in “Von Morgen bis Mitternacht” di Karl Heinz Martin). Una
contraddizione fra messa in scena e recitazione? (laddove in
“Caligari” erano coerenti). Francamente sì. Però, come a volte
capita, è una contraddizione feconda. Il film non è indebolito
dalla sua scenografia irreale, che anzi in alcuni punti (non sempre)
produce una risonanza con lo stato d'animo dei personaggi.
Certamente,
la concezione profonda di questo “Delitto e castigo” è affine al
concetto espressionista di un universo-macchina che schiaccia gli
individui più che al misticismo cristiano di Dostoevskij. Anche la
conversione finale di Raskolnikow (lo scrivo alla tedesca come nel
film) con i suoi segni di croce tiene più della follia che della
serenità ritrovata attraverso l'espiazione, come in Dostoevskij. Ma
è una lettura legittima, e il film, assai ben interpretato da
attori russi, si fa ricordare. Proprio in questa diversa linea si
situa la trasformazione di Porfirij Petrovič, l'amministratore della
giustizia, in una figura inquietante, forza del destino più che
tramite dell'espiazione. È molto indicativa un'inquadratura che
(sfruttando l'assoluta libertà “grafica” del film) lo presenta
seduto alla sua scrivania con intorno un disegno di linee nere che
formano visibilmente una ragnatela: come un ragno in attesa della
vittima, Raskolnikow, di cui ha già intuito la colpevolezza.
Si
sono concluse, sabato
12, Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone, come sempre emozionanti, tanto che era appena ieri e
già il pensiero va all'anno prossimo. Per quanto sia bello “The
Winning of Barbara Worth” di Henry King (che sabato sera ha
concluso la rassegna con l'accompagnamento dell'Orchestra da Camera
di Pordenone diretta da Ben Palmer su partitura di Neil Brand), come
ultimo “filmone” di queste brevi corrispondenze da Pordenone
scelgo un film del pomeriggio, “Forgotten Faces” (USA 1928) di
Victor Schertzinger. Magistralmente interpretato da Clive Brook con
una recitazione minimalista, viso rigido e occhi espressivi, è uno
splendido giallo che inizia come “comedy” e si sviluppa come film
di suspense. Un ladro gentiluomo, soprannominato “Eliotropio”
perché ama questo profumo, uccide l'amante della moglie, abbandona
lei (che incidentalmente l'aveva denunciato alla polizia per
liberarsene) e porta via la figlia neonata. Fa in modo che venga
adottata da una famiglia ricca e poi si costituisce.
17
anni dopo, la moglie Lily – una grande Olga Baclanova (“Freaks”)
di scatenata malvagità – scopre dov'è la figlia e ha intenzione
di rovinare la sua vita per vendetta contro il marito. Rilasciato su
parola, “Eliotropio”, che ha giurato al direttore della prigione
di non alzare la mano su Lily, la perseguita, facendole crollare i
nervi, in un modo indiretto che anticipa certi horror psicologici
degli anni Sessanta come “Che fine ha fatto Baby Jane?” –
mentre nel finale il racconto sfocia in una grande pagina di suspense
in pieno stile anni Venti.
Un
film affascinante, anche se entrambi questi esercizi di suspense di
natura diversa hanno provocato in sala qualche risata da parte di
alcuni ignoranti che non saprebbero distinguere Alfred Hitchcock da
Mack Sennett.