sabato 23 novembre 2024

Giornate del Cinema Muto 2024


Non precisamente una recensione, per pesanti motivi di lavoro; devo limitarmi a riportare qui sul blog alcune impressioni (già pubblicate su Facebook o sul “Messaggero Veneto”) circa Le Giornate del Cinema Muto 2024.

Il filmone di sabato 5 ottobre a Le Giornate del Cinema Muto è – d’obbligo – “Three Bad Men” (1926) di John Ford, già passato a Pordenone nel 2017: superbo western epico e pudicamente lirico, fra dramma nel racconto, che cita Griffith, e “comedy” nei tre indimenticabili personaggi eponimi. Lo ha accompagnato l’Orchestra da Camera di Pordenone diretta da Timothy Brock su sua partitura. Però non posso non menzionare anche i magnifici dodici minuti del cortometraggio su un terremoto “El desastre en Oaxaca”, diretto da Ejzenštejn, da lui montato con Aleksandrov, fotografato da Tissé – come dire, il Gotha del cinema ejzenštejniano. Confesso che neppure sapevo dell’esistenza di questo breve film. Lo abbiamo visto nel pomeriggio all'interno della rassegna latinoamericana (e forse avrebbe trovato miglior collocazione, per un pubblico più vasto, aprendo la serata d'apertura del festival al posto di un simpatico ma non memorabile Baby Peggy).

In realtà domenica 6 son potuto passare a Le Giornate del Cinema Muto solo il pomeriggio, perdendo “La Boheme” di King Vidor. Ma il filmone l’ho visto lo stesso, perché “Trilby” di Maurice Tourneur (la ragione del mio viaggio) si è rivelato il capolavoro che mi aspettavo. La grande maestria di Maurice Tourneur (che per inciso è il padre di Jacques) emerge “come un grido” dalla superba costruzione dell’inquadratura con magnifiche partizioni dello spazio. Si vorrebbe parlare a lungo di trovate come il mascherino che “racchiude” i viaggi di Trilby o della gestione abilissima dell’immagine del malefico dipinto nel finale. In questa versione (1915) del dramma sull’ipnotismo di George Du Maurier – il cui personaggio di Svengali è un cavallo di battaglia di molti attori – emerge la bellissima interpretazione, variata e incisiva, di Clara Kimball Young nel ruolo di Trilby, la sua vittima. Aggiungo che, poiché il personaggio è una modella per pittori e scultori, il ruolo le consente un paio di inquadrature di nudo audaci per l’epoca.

Tutti gli appassionati di cinema conoscono Anny Ondra, la bella e brava attrice cecoslovacca che compare in due grandi film muti di Hitchcock, “The Manxman” e “Blackmail” (di quest’ultimo c’è anche una versione sonora, con Anny Ondra doppiata). Però sono due parti drammatiche. Incontrare Anny Ondra in chiave di “comedy”, anche se di commedie ne girò moltissime, è stata una sorpresa per gli spettatori delle Giornate del Cinema Muto lunedì 7. Il film era l’esilarante “Saxophon-Susi” (Germania 1928), diretto da Karel Lamač, che era anche il marito dell’attrice.
Saxophon-Susi” si apre dietro le quinte di un teatro tedesco su alcune belle ragazze con le gambe nude; le gambe generosamente esposte sono quasi un filo conduttore visuale di questo film teneramente libertino che si premura di metterle in mostra ogni volta che può. È un po’ la storia di Cenerentola a rovescio: Anni (Ondra) è figlia di un ricco barone ma invidia la sua amica Susi, ballerina di fila a teatro. A Susi invece sarebbe piaciuto tanto studiare. Così, quando partono per l’Inghilterra – la prima per studiare al college, la seconda per perfezionarsi in una scuola di ballerine – Anni convince Susi a scambiare nomi e identità. La scena in cui si scambiano i vestiti del bagaglio tirandoseli da una cabina all’altra ha una freschezza da Nouvelle Vague. Il valletto del lord che corteggia Susi, passando nel corridoio in quel momento, se ne ritrova coperto («Mi sembra di essere la Zia di Carlo», famosa commedia su un uomo che si traveste da donna); se ne libera ma nella distrazione gliene ‘ rimasto addosso uno, con cui cerca di ripulire la faccia del lord sporca di rossetto – e naturalmente, altro tocco di humour leggermente libertino, è un indumento intimo. “Saxophon-Susi” è una spensierata epopea dello scambio di identità, che diventa bollente quando la falsa Susi torna in patria per ballare in una rivista e deve nascondere l’inghippo al barone suo padre (il quale dal canto suo è un vecchio ganimede corteggiatore di ballerine). Questa commedia estremamente divertente, grazie anche all’apporto di alcuni caratteristi formidabili, è attraversata da una “joie de vivre” che viene dall’operetta ma con qualcosa in più. La musica vi gioca un ruolo importante fin dal titolo: la scena centrale si articola su uno sfrenato numero di danza di Susi sul testo in didascalia della canzone dui Rudolf Nelson “Susie suona il sassofono”. Naturalmente fornire il sonoro era cura dell'accompagnamento, e a Pordenone il pubblico ha avuto la fortuna di godere di un formidabile accompagnamento a tre di Neil Brand, Frank Bockius e Francesco Bearzatti. Lo scatenato numero di danza di Susi è stato accolto da un grande applauso alla fine: sullo schermo, dai personaggi del film, fuori dallo schermo, dal pubblico delle Giornate.  

(Messaggero Veneto

Il filmone di martedì 8, a Le Giornate del Cinema Muto, era senza dubbio "The Pride of the Clan" del grande Maurice Tourneur, dove Mary Pickford interpreta con molta verve il ruolo di una capo-clan donna in un'isola sperduta della Scozia contemporanea. La scena in cui manda gli abitanti in chiesa a frustate è divertentissima, anche se il film non è affatto una commedia. La grandezza multiforme di Tourneur qui si vede specialmente negli esterni del paese, dove si fanno notare le inquadrature di animali in giro per le strade, e con le sue evocative scene di massa.

Basta, diranno gli amici, è la terza volta che il tuo “filmone del giorno” a Le Giornate del Cinema Muto 2024 è di Maurice Tourneur! Ma cosa posso farci se è un grandissimo? In “The Blue Bird” (mercoledì 9 mattina, e l’avevamo già visto alle Giornate anni fa) Tourneur mette in scena il dramma simbolista di Maurice Maeterlinck con fantasia visuale e sensibilità. Sfido chiunque a non commuoversi su pagine come la visita ai nonni morti o la zona dei bambini in attesa di nascere. (Sfida persa, ci sono anche alle Giornate degli imbecilli pronti a ridacchiare per ogni cosa). Come sempre, l’uso dello spazio in Tourneur è magistrale; inoltre qui il carattere fantastico del racconto gli consente di spingersi molto avanti sul piano dell’astrazione.
Ma se volete un altro filmone, non di Tourneur: “Vanina” di Arthur von Gerlach, con Asta Nielsen, è un dramma post-espressionista del 1922, lo stesso anno del “Nosferatu” di Murnau, col quale ha molto in comune (fatta salva ovviamente la superiorità di “Nosferatu”): il trasferimento di valore simbolico dagli sfondi espressionisti alle architetture reali, la tipizzazione grottesca e la recitazione estremizzata (per entrambe le cose qui Paul Wegener è memorabile), e naturalmente i grandi temi tedeschi dell’amore, del destino e della morte in attesa.

È sbagliato credere che il cinema muto fosse in bianco e nero. Molti film erano vivacemente colorati, al “pochoir” (colore applicato manualmente sul fotogramma con pennellini o tamponi) o con tinture. Ne è un esempio il lungometraggio francese “La Sultane de l'amour”, 1919, visto mercoledì 9 sera: una storia esotica in cui le splendide colorazioni al pochoir (e tintura) sono una gioia per gli occhi e forniscono buona parte (noi arriveremmo a dire tre quarti e oltre) del fascino del film. Racconto ispirato alle “Mille e una notte”, per i costumi sfrutta i colori più vivi. Che giubbe porpora o color prugna! Che turbanti rosso vivo o verde erba! Camicie turchese o giallo paglierino! Ma anche un tramonto rosso fuoco in tintura, che la didascalia connette alla sete di sangue del sultano malvagio. Perché il film racconta (con un occhio alla narrazione digressiva delle “Mille e una notte”) del crudele sultano Malik che imprigiona e tormenta una principessa che non vuole sposarlo. France Dhélia porta al ruolo della principessa forza di carattere e anche un tocco di erotismo. Paul Vermoyal, il sultano, conferma la regola che al cinema in genere il cattivo è più interessante dell'eroe. E nel ruolo di uno spietato guerriero al suo servizio (certi freddi sorrisi a bocca chiusa che non raggiungono gli occhi!) rivediamo Gaston Modot, un grande del cinema francese, per lo più caratterista, ma centrale in due massimi capolavori, “L'Age d'or” di Bunuel e “La regola del gioco” di Renoir.
Sultana dell'amore, amore tragico, fu anche Anna May Wong, che scherzava sul fatto di morire in tutti i film. Le Giornate 2024 celebrano questa grande diva cinese (tutti la ricordiamo a fianco di Marlene Dietrich in “Shanghai Express”), unica star cinese a Hollywood, attiva negli Usa e in Europa. Sempre mercoledì 9, abbiamo ammirato la sua bravura di attrice, per non dire della sua bellezza, nel film tedesco-inglese “Song”. Il cupo John salva e protegge la derelitta Song, che si innamora di lui; ma John ama ancora Gloria, che lo ha abbandonato. È un super-melodramma con tutti i crismi e le situazioni del genere, dal passato che ritorna all'amore infelice, dal sacrificio alla cecità, con Song che pietosamente finge di essere “l'altra” per John diventato cieco.
L'attore tedesco Heinrich George disegna bene il ritratto dell'innamorato bestiale e geloso, alla Wallace Beery, ma è Wong che domina il film. Possiede una capacità mimica eccezionale e sebbene reciti una parte drammatica ha la capacità di fare appello allo spettatore con quei tocchi che gli americani chiamano “cute” (sarebbe “grazioso”, ma non rende appieno). Azzardiamo un'ipotesi: che Wong avesse studiato attentamente lo stile interpretativo di Lillian Gish. In ogni modo, vederla sullo schermo è un continuo, ammirato piacere.

(Messaggero Veneto)

Che grande film “Three Women”, Ernst Lubitsch 1924, visto a Le Giornate del Cinema Muto giovedì 10. Lubitsch è “il regista delle porte” (copyright Mary Pickford). È il regista delle entrate e delle uscite di scena. È il regista dello scambio di sguardi e dei campo/controcampo geniali. È il regista che riporta sullo schermo nel modo più snello e intelligente possibile l'interazione umana. Questo è il “Lubitsch touch”. Tutto è così incredibilmente fluido nel suo cinema; se Lubitsch fosse musica, sarebbe Mozart.
È in grazia di questa magica fluidità che il racconto, come in “Three Women”, può passare dalla commedia al dramma al mélo senza mai dare, non dico un'idea di stacco, ma nemmeno una sensazione di cambio volontario di direzione. Sembra essere la vita stessa che si sviluppa sotto i nostri occhi, in questa storia di una madre troppo frivola e di una figlia troppo ingenua.
Nota in margine. Una bella sorpresa: il gioielliere da cui il ragazzo innamorato compra un braccialetto per Jennie, in una breve scena, è Max Davidson.

Raskolnikow”, di Robert Wiene (Germania 1923), il filmone di venerdì 11 Le Giornate del Cinema Muto, è un po' il contrario di “Vanina” di von Gerlach, che è dell'anno prima. Qui, la recitazione è realistico-psicologica (l'isterismo del protagonista ha una giustificazione diegetica) mentre le scenografie mostrano quella deformazione espressionista presente ne “Il gabinetto del dottor Caligari” di Wiene (e anche in “Von Morgen bis Mitternacht” di Karl Heinz Martin). Una contraddizione fra messa in scena e recitazione? (laddove in “Caligari” erano coerenti). Francamente sì. Però, come a volte capita, è una contraddizione feconda. Il film non è indebolito dalla sua scenografia irreale, che anzi in alcuni punti (non sempre) produce una risonanza con lo stato d'animo dei personaggi.
Certamente, la concezione profonda di questo “Delitto e castigo” è affine al concetto espressionista di un universo-macchina che schiaccia gli individui più che al misticismo cristiano di Dostoevskij. Anche la conversione finale di Raskolnikow (lo scrivo alla tedesca come nel film) con i suoi segni di croce tiene più della follia che della serenità ritrovata attraverso l'espiazione, come in Dostoevskij. Ma è una lettura legittima, e il film, assai ben interpretato da attori russi, si fa ricordare. Proprio in questa diversa linea si situa la trasformazione di Porfirij Petrovič, l'amministratore della giustizia, in una figura inquietante, forza del destino più che tramite dell'espiazione. È molto indicativa un'inquadratura che (sfruttando l'assoluta libertà “grafica” del film) lo presenta seduto alla sua scrivania con intorno un disegno di linee nere che formano visibilmente una ragnatela: come un ragno in attesa della vittima, Raskolnikow, di cui ha già intuito la colpevolezza.

Si sono concluse, sabato 12Le Giornate del Cinema Muto di Pordenone, come sempre emozionanti, tanto che era appena ieri e già il pensiero va all'anno prossimo. Per quanto sia bello “The Winning of Barbara Worth” di Henry King (che sabato sera ha concluso la rassegna con l'accompagnamento dell'Orchestra da Camera di Pordenone diretta da Ben Palmer su partitura di Neil Brand), come ultimo “filmone” di queste brevi corrispondenze da Pordenone scelgo un film del pomeriggio, “Forgotten Faces” (USA 1928) di Victor Schertzinger. Magistralmente interpretato da Clive Brook con una recitazione minimalista, viso rigido e occhi espressivi, è uno splendido giallo che inizia come “comedy” e si sviluppa come film di suspense. Un ladro gentiluomo, soprannominato “Eliotropio” perché ama questo profumo, uccide l'amante della moglie, abbandona lei (che incidentalmente l'aveva denunciato alla polizia per liberarsene) e porta via la figlia neonata. Fa in modo che venga adottata da una famiglia ricca e poi si costituisce.
17 anni dopo, la moglie Lily – una grande Olga Baclanova (“Freaks”) di scatenata malvagità – scopre dov'è la figlia e ha intenzione di rovinare la sua vita per vendetta contro il marito. Rilasciato su parola, “Eliotropio”, che ha giurato al direttore della prigione di non alzare la mano su Lily, la perseguita, facendole crollare i nervi, in un modo indiretto che anticipa certi horror psicologici degli anni Sessanta come “Che fine ha fatto Baby Jane?” – mentre nel finale il racconto sfocia in una grande pagina di suspense in pieno stile anni Venti.
Un film affascinante, anche se entrambi questi esercizi di suspense di natura diversa hanno provocato in sala qualche risata da parte di alcuni ignoranti che non saprebbero distinguere Alfred Hitchcock da Mack Sennett.


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