venerdì 27 dicembre 2024

Conclave

Edward Berger

Mi sembra di essere a una convention politica americana”, dice il protagonista Ralph Fiennes preso tra le manovre del Conclave del piacevole film di Edward Berger. Il Papa è morto e il Cardinal Decano (Fiennes) deve presiedere al conclave che eleggerà il successore: un conclave difficile, pieno d’insidie e di sorprese (salta fuori anche un nuovo cardinale sconosciuto a tutti, che era stato nominato in pectore dal Papa defunto). Decisamente, intrufolarsi come spettatori in questo conclave è affascinante, grazie alla grande suggestione di una ritualità secolare, che viene rafforzata dall'uso del latino. 
Il film, che offre della Chiesa un quadro poco edificante, racconta il conclave come un thriller (non per nulla ha toni thriller anche il commento musicale), mantenendo tuttavia un approccio realistico fin quasi alla fine. All’attenzione ai maneggi tra i cardinali, che rendono Conclave appassionante, non corrisponde però un eguale approfondimento psicologico. Sceneggiato da Peter Straughan dal romanzo di Robert Harris, il film divide rigorosamente i personaggi fra buoni (i “liberali”) e cattivi (i conservatori): le caratterizzazioni sono un po’ tagliate con l’accetta. Il super-nemico è il cardinale conservatore Goffredo Tedesco (che peraltro, a parere di chi scrive, dice le cose più di buon senso), tratteggiato da un bravo Sergio Castellitto come una figura detestabile ictu oculi, a prima vista, e un po’ macchiettistica. Il personaggio con maggiore profondità e consistenza psicologica è il tormentato protagonista Ralph Fiennes.
Parlando di conclavi immaginari, il vecchio film The Shoes of the Fisherman (L’uomo venuto dal Kremlino, 1968) di Michael Anderson o il bellissimo fanta-romanzo del 1904 Adriano Settimo di Frederick Rolfe Baron Corvo erano altrettanto consci delle rivalità di politica ecclesiastica e delle brucianti ambizioni personali, ma ne davano una descrizione meno banale.
Questa sceneggiatura di mano un po’ pesante viene redenta (le mot juste) da una regia efficace e convincente, che integra le eleganti inquadrature della fotografia di Stéphane Fontaine, un montaggio abile e un’ottima direzione degli attori. È quindi un peccato che alla fine, seguendo fedelmente il romanzo di Harris, il film spari una serie di sorprese (ma una si indovinava sin dall’inizio) passabilmente implausibili, fino alla bomba atomica del finale, che incrinano il realismo e avvicinano Conclave allo stravagante The Young Pope televisivo di Paolo Sorrentino.

domenica 15 dicembre 2024

Piccole cose come queste

Tim Mielants

A un certo punto di Piccole cose come queste un bambino povero, disperato perché non ha ricevuto il regalo di Natale che desiderava, sfonda con un pugno la crosta di ghiaccio in un secchio immergendo la mano nell’acqua gelata. Una sensazione simile la provoca il film di Tim Mielants sui soprusi delle suore irlandesi (non diciamo nell’Ottocento ma nel secolo scorso) nelle case-convento per ragazze orfane o “immorali”, le case Magdalene. Gli amanti del cinema ricorderanno un film di Peter Mullan del 2002 con quel titolo.
1985: il carbonaio Bill, che soffre per antiche ferite interiori, incontra nel convento del suo villaggio una ragazza incinta sottoposta a crudeli maltrattamenti, chiusa di notte nella legnaia gelida. Lei si chiama Sarah come la madre di Bill, una ragazza madre salvatasi da un nero destino grazie a una ricca benefattrice. Nella coscienza di Bill si scontrano da un lato l’omertà del paese (dove le suore sono una potenza), approvata da sua moglie, dall’altro la compassione e l’onestà. Non a caso, l’atto di lavarsi le mani sporche – giustificato dal racconto perché Bill fa il carbonaio – ricorre più volte, con significato simbolico. La fotografia di Frank van den Eeden che tiene il primo piano a fuoco e il resto fuori fuoco, come nei vecchi film, serve all’atmosfera di claustrofobia (non fisica ma morale).
Il film si impernia su due notevoli interpretazioni. Quella molto sfumata di Cillian Murphy (Bill) rende bene l’autentica paura che lui prova in presenza della madre superiora suor Mary. Dal canto suo Emily Watson crea con suor Mary un memorabile ritratto di perfidia nascosta. La scena in cui, a colloquio con Bill, fa un discorso di ipocrita bontà e di larvata minaccia, concluso con una bustarella travestita da regalo di Natale, è la scena madre del film.


(
Messaggero Veneto)

domenica 8 dicembre 2024

Grand Tour

Miguel Gomes

Edward, un funzionario inglese nell’Asia ancora coloniale del 1918, è fidanzato con Molly, rimasta a Londra, che non vede da sette anni. Quando Molly alfine lo raggiunge in Asia per sposarlo, Edward ha un attacco di terrore del matrimonio e fugge, in preda alla depressione, realizzando un vero “Grand Tour” asiatico, inseguito da telegrammi della fidanzata – un viaggio segnato dalla logica della fuga o dai giochi del destino. Birmania! Thailandia! Filippine! Giappone! Cina! Innamorata e testarda, prepotente e ironica, Molly segue la traccia di Edward con inflessibile determinazione. Potrebbe essere un contrasto della viltà e del coraggio (“Ogni uomo ha il terrore del matrimonio”, dice il buffo cugino Singleton, peraltro convinto che Edward sia una spia). Su questa trama un po’ alla Conrad, il portoghese Miguel Gomes costruisce un film complesso e geniale. Grand Tour è un film bivalve, diviso in due parti come il suo precedente Tabu: la prima metà segue Edward, la seconda Molly (Crista Alfaiate, eccezionale. La sua risata soffiando a labbra chiuse è un tratto distintivo memorabile del film). La malattia di Molly introduce un elemento personale tragico.
Nell’impasto linguistico del film, la lingua inglese parlata dai personaggi è rappresentata dal portoghese, ma le varie voci narranti – che integrano un racconto ellittico – parlano nelle lingue dei paesi visitati. La cosa spiazzante è che, mentre tutta la trama si svolge nel 1918, l’Asia in cui si muovono i personaggi è quella odierna, con i cellulari e i motorini. In questo modo Gomes utilizza tranquillamente materiale documentario da lui ripreso. Il passato e il presente si toccano e si fondono, con un effetto di straniamento.
Nel bianco e nero del film, poi, sprizzano improvvisi momenti di colore, per lo più dedicati a spettacoli di burattini asiatici di vari paesi, a rappresentare una profonda persistenza culturale. Che sfiora il metafisico: i fantasmi giapponesi sentiti da Edward nel tempio, che (dice la voce narrante) “gli raccontavano orrori in una lingua che non conosceva”; le benevole “piccole anime” dei morti indicate a Molly dall’ancella Ngoc nella casa vietnamita (vediamo bolle di sapone che sciamano sulle tombe).
Grand Tour presenta una realtà enigmatica – che è indubbiamente quella di Gomes, grande e criptico rimodellatore dell’immaginario, ma in verità è quella della vita. In ogni episodio se ne aprono altri impliciti e possibili, ogni piega del racconto nasconde altre innumerevoli pieghe. Jorge Luis Borges avrebbe capito e apprezzato.
C’è un bellissimo uso del sonoro in tutto il film (una delle cui caratteristiche è l’anticipazione sonora, prolungata più del normale). A un certo punto, sull’immagine del barcone che porta Edward febbricitante a Saigon, entra Sul bel Danubio blu, che continua su uno stacco al traffico della città vietnamita, con un ralenti leggero per cui la musica lo trasforma in una danza di motorini. Inevitabile a questo punto pensare a 2001. Il brano è stato usato molte volte, ma una così perfetta giunzione fra la musica di Strauss e le immagini non la vedevamo dai tempi di Kubrick.
Grand Tour è un affascinante mix di melodramma, film esotico ironicamente rivisto, commedia amara e apologo filosofico. Un giro dell’Asia attraversato da accenni al dominio coloniale che sta per crollare. Una riflessione sull’incomprensione reciproca fra Oriente e Occidente, e in particolare sulla presunzione conoscitiva dell’uomo occidentale (nota che né Edward né Molly comprendono la presenza dei morti fra i vivi). Un pamphlet pessimistico sull’esistenza, non disgiunto da quella bizzarra vena di umorismo che spesso posseggono i pessimisti. È una delle grandi esperienze cinematografiche del 2024 – che non nasconde di essere cinematografica, come mostra  – non senza un filo di ambiguità – il finale.


domenica 1 dicembre 2024

Il corpo

Vincenzo Alfieri

 “Il corpo” è il cadavere di una bella donna cinquantenne, morta d’infarto (fin dall’inizio, non è uno spoiler): è Rebecca (Claudia Gerini), ricchissima e alquanto crudele, che ha sposato (ovvero si è comprata) un marito squattrinato più giovane di lei, Bruno (Andrea Di Luigi). Dalla sua morte quest’ultimo ha tutto da guadagnare. Com’è, come non è, il cadavere scompare dall’obitorio. Un bizzarro ispettore di polizia (Giuseppe Battiston) indaga sul fatto, e convoca all’obitorio il vedovo tutt’altro che inconsolabile.
È un gioco al gatto col topo (l’ispettore non fa mistero di odiare Bruno) in un’interminabile notte piovosa, costellata di flashback. Anche se Il corpo è il remake di un film spagnolo, l’atmosfera di corruzione diffusa e di prepotenza (la beffa iniziale di Rebecca a Bruno) che vediamo squadernata in questi flashback può far pensare agli ambienti malati di Georges Simenon – mentre il fatto che, di fronte a questi strani avvenimenti, il vedovo comincia inevitabilmente a sospettare che la morta non sia proprio morta è suggerito da un vecchio, bellissimo thriller francese, I diabolici, di Henri-Georges Clouzot. Quel ch’è certo, le regole dell’indagine, come le vediamo nel film, non hanno nulla a che fare con la prassi italiana.
Il corpo è un giallo un po’ fatuo ma divertente, con una buona resa delle atmosfere, e fondato su un’implausibilità addirittura monumentale. Alla fine come tutti i gialli, mette in campo una soluzione (di cui com’è ovvio non farò parola), nella quale alcune apparenti falle logiche vengono tappate – ma al prezzo di un’inverosimiglianza ancora più grande di quella precedente. Ovvero, c’è nel film un doppio set di implausibilità, quella dell’indagine e quella della soluzione. Beninteso, la plausibilità nel cinema non è mai stata una legge assoluta. Ci sono autentici capolavori basati su un’improbabilità quasi sfacciata (uno per tutti: Detour di Edgar G. Ulmer). Ma si tratta di un gioco di prestigio che deve illusoriamente dar conto di tutto, come negli assurdi e meravigliosi romanzi di John Dickson Carr. Ne Il corpo, il primo set di assurdità non è interamente sanato dal secondo.
Infatti nel cinema, accanto alle eventuali inverosimiglianze della trama, vi sono delle assurdità pertinenti all’universo diegetico che mettono in crisi la croyance. Per intenderci, se nel presente film, d’un tratto, il corpulento Battiston facesse un balzo verso l’alto di due metri afferrandosi con le mani a una modanatura del soffitto, la nostra sospensione dell’incredulità ne uscirebbe irrimediabilmente compromessa (mentre in altro contesto lo accetteremmo da John Wick).
Non succede questo ne Il corpo, ma – attenzione, seguono spoiler – riguardo all’atteggiamento dell’ispettore e del suo aiutante verso l’ambiguo Bruno, che è sospettato ma convocato come testimone, i conti non tornano. In Italia, un paese in cui (purtroppo!) un poliziotto che spara a un criminale armato che lo minaccia trova il magistrato che lo manda sotto processo, quello che l’ispettore si permette con Bruno integra una serie di autentici reati, non escluso il sequestro di persona – culminando in una delirante scena di confessione al registratore in una cappella davanti a un pubblico di poliziotti-spettatori. La soluzione finale ne dà una spiegazione psicologica – ma non lo rende credibile. Eppure la soluzione c’era: non si capisce perché gli sceneggiatori (Vincenzo Alfieri e Giuseppe Stasi) non abbiano ambientato il film in qualche paese europeo diverso dall’Italia: bastava cambiare i nomi.
Come già detto, Il corpo è il remake di un fortunato film spagnolo del 2012, El cuerpo di Orion Paulo, che ne ha già avuti un paio. Questo regista e sceneggiatore ha girato nel 2016 Contratiempo, altro giallo che pure ha avuto dei remake internazionali, fra cui l’italiano Il testimone invisibile e l’eccellente coreano Confession (Jabaek) di Yoon Jong-seok, visto al Far East Film Festival 2022. Anche in Contratiempo l’intero svolgimento viene ribaltato dalla rivelazione finale di una simulazione che ridefinisce tutto il film; però in questo caso (almeno nel film coreano) il gioco di prestigio era perfettamente riuscito e lo sviluppo appariva del tutto credibile. Se lo menziono, non tanto è per paragonarvi sfavorevolmente Il corpo quanto per far notare la somiglianza strutturale fra le due storie.
Attrice dotata e coraggiosa, Claudia Gerini, che esibisce una splendida nudità sia da viva sia da morta, è la migliore in campo, tratteggiando un ottimo ritratto di dark lady borghese: in fondo non chiede altro che di godersi il marito, al quale ama fare scherzi cattivi (esagerata ma bella la scena della piscina). Giuseppe Battiston è bravo come sempre, sebbene l’implausibilità di cui si è detto pesi molto sul suo personaggio. Altri personaggi o non hanno gran consistenza o escono dal film letteralmente circonfusi da un’aura di incredibilità assoluta. La buona regia di Vincenzo Alfieri, coadiuvato dall’abile montaggio dello stesso e dalla fotografia di Andrea Reitano, è fondamentale nel tener su il film.