tag:blogger.com,1999:blog-74116116806288105682024-03-24T02:21:39.540-07:00Giorgio Placereani Lost in TranslationIl blog di Giorgio Placereani (Centro Espressioni Cinematografiche di Udine),
insegnante per diletto, critico cinematografico per difetto.giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.comBlogger987125tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-70115859349105935982024-03-22T14:29:00.000-07:002024-03-22T14:38:35.478-07:00Another End<p><b>Piero Messina</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Dietro
l'intelligente film di fantascienza filosofica/psicologica Another
End, diretto da Piero Messina (è un film italiano. parlato in
inglese e spagnolo) si intravede l’ombra di Philip K. Dick e della
fantascienza cyberpunk – nonché, a livello immediato, la
suggestione di quel cinema fantastico orientale che tratta della
<i>possessione</i>. Ma andando più in là, non possiamo non riconoscere il
mito di Orfeo ed Euridice: riportare la persona amata dall'oltretomba
e vedersela sfuggire dopo uno sguardo.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif">In
un futuro prossimo, la società Aeterna vende una sorta di ritorno
dei defunti a tempo. I morti si possono far rivivere per un breve
periodo innestando la loro memoria nel corpo di “ospiti”
volontari anonimi (il testo italiano li chiama in modo suggestivo
locatori/locatrici, quello inglese ha un più semplice <i>host</i>). Così
queste memorie viventi dentro un corpo estraneo possono frequentare
brevemente i loro cari, in modo che questi ultimi possano elaborare
il lutto e dare loro un addio; ma è importante che non venga loro
rivelato che sono morti. I locatori non mantengono alcun ricordo dei
periodi in cui “sono un altro” (tanto che un personaggio, Ava,
paragona la possessione al suicidio). Alla fine di un numero
d’incontri prefissato, quando il locatore si addormenta la memoria
del morto svanisce per sempre.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Sul
piano strettamente logico, il presupposto è evidentemente fragile;
ma questo non affligge la costruzione narrativa del film, che vuol
essere un <i>conte philosophique</i> e insieme un dramma sentimentale. Il
protagonista Sal, che da poco ha perso la moglie in un incidente, è
fratello di un’impiegata di alto livello della Aeterna, Ebe, la
quale (non senza alcune violazioni delle regole) gli fa incontrare la
moglie morta Zoe nel corpo della prostituta Ava. Ma Sal non si
rassegna alla futura perdita di Zoe resuscitata, riesce a rompere la
barriera dell’anonimato e incontra Ava nella sua vita vera. Qual è
il rapporto tra corpo e anima? Tra l'apparenza fisica e l’identità?
Cosa significa il <i>soma</i> in rapporto alla mente? E inoltre: è giusto,
è saggio, richiamare indietro i morti? Chi ama veramente Sal? Se
dapprima è perso dietro Zoe ritornata, comincia ad amare Ava –
oppure si è creato un incrocio fra le due donne (nota che Ava,
inusualmente, ha dei frammenti di ricordo di Zoe)? Peraltro, senza
fare spoiler a questo punto, una sorpresa finale ridefinirà il
quadro.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Questo
è il primo problema sotteso alla vicenda, ed evidentemente è solo
uno dei temi sui quali questo film stimola la riflessione. Un altro,
che il film esprime in particolare in un personaggio secondario, è
quello della <i>miseria della perdita</i>: per cui chi ha perso uno o più
esseri amati (il marito e la figlia in questo caso) si rassegna,
<i>faute de mieux</i>, a ritrovarli per breve tempo in un corpo diverso. Un
altro, non trattato, riguarda questa vita umbratile dei morti dal
loro punto di vista. Ancora un altro tema sotteso è lo sfruttamento
dei corpi dei locatori e delle locatrici – notevoli le scene quasi
horror nell’enorme deposito della Aeterna – in un’interessante
prosecuzione futuristica di quell'affitto dei corpi (femminili: il
cosiddetto utero in affitto) che è finora il massimo cui sia
arrivata la vampirizzazione contemporanea, ma che – ci insegna
anche questo film – trova certamente nuove frontiere.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Se
il protagonista Gael Garcia Bernal (Sal) ha una sola espressione
mesta (benché giustificata) in tutto il film, Bérénice Bejo (Ebe)
e Renate Reinsve (Ava) sono eccellenti. Il film delinea una visione
del futuro (ottimo il lavoro della scenografa Eugenia Di Napoli)
tanto più inquietante in quanto disegnata quietamente, <i>matter of
fact</i>, senza toni urlati.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Vale la pena di soffermarci un attimo sul simbolismo di alcuni nomi.
Ebe è la coppiera degli dei, dispensatrice del nettare e
dell’ambrosia, ossia il cibo dell’immortalità; e qui, come
funzionario della Aeterna, offre una (imitazione di) immortalità
resuscitando i morti. Zoe significa vita: è un paradosso, perché
Zoe è morta, ma certamente rappresenta l’unica possibilità di
vita per il protagonista, il quale si aggrappa ciecamente a lei
(all’inizio del film tentava il suicidio). Ma non sembra gratuita
la posizione di Ava e Zoe ai due estremi dell’alfabeto. Ava, pur
essendo disperata della sua vita misera, rappresenta un principio di
concretezza vitale (nota il suo discorso </span><span face="Verdana, sans-serif" style="color: black;"><span lang="it-IT">sprezzante</span></span><span face="Verdana, sans-serif">
su quei “deficienti”, <i>morons</i>, che vogliono reincontrare i loro
morti). L'ipotesi, qui accennata, che Sal possa amare Ava <i>per sé</i>,
“superando” Zoe, abbandonerebbe la sequenza rovesciata Z-A per
rimettere la serie (la vita) sulle sue gambe ripartendo da A.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">A
questo punto però – attenzione, lettore! Arriva uno spoiler
radicale, per cui il consiglio è che continui a leggere solo chi ha
già visto <i>Another End</i> – si rivela il <i>trick</i> del film. Scopriamo che
anche Sal è morto insieme a Zoe nell’incidente; l’uomo che
abbiamo visto in tutto il film è solo il contenitore di una memoria,
a opera di sua sorella Ebe.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: medium;">Alla
fine del film, accanto ad Ava già libera dalla possessione, anche
quest'uomo si addormenta – e così, Sal svanisce. Lo sguardo che i
due si scambiano al loro risveglio alla fine del film, in un bel campo/controcampo sul letto, è uno sguardo <i>vergine</i>. Potrebbe essere
un inizio, o una fine.</span><br /></span><br /></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-12650692842013499462024-03-18T11:01:00.000-07:002024-03-18T11:28:47.513-07:00Drive-Away Dolls<p><b>Ethan Coen</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Nella
deliziosa commedia lesbica a base pseudo-thriller <i>Drive-Away Dolls</i> di
Ethan Coen, Jamie (volitiva, promiscua, sboccata, un po’
incosciente) è in viaggio verso Tallahassee, Florida, insieme alla
sua amica Marian (seria, severa, lettrice di Henry James, un po’
repressa), per andare a trovare la zia di quest’ultima. Il guaio è
che la Dodge che hanno noleggiato è stata data loro per equivoco:
era destinata a un trio di gangster che dovevano portare a
Tallahassee una valigetta nascosta nella macchina. <br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif">Quando
la coppia Coen si separa in due entità individuali, la bravura
registica rimane, ma sembra perdersi, almeno in parte, quella qualità
imperscrutabile che evidentemente nasceva dall’amalgama dei due. Se
dovessimo provare a separare le influenze dei fratelli Coen sul loro
cinema (agli inizi solo Joel firmava la regia, ma le opere sono
sempre state frutto di entrambi) alla luce dei due film che hanno
diretto dopo una speriamo provvisoria separazione, verrebbe voglia di
pensare che in Joel prevalga l’elemento tragico-filosofico (da solo
ha diretto un <i>Macbeth</i> in b/n, buono ma molto debitore a Welles) e in
Ethan l’elemento colorato e farsesco. Chiariamoci, sicuramente non
c’è una distinzione così netta, ma va detto che nel <i>Macbeth</i> di
Joel non c’è la “follia” coeniana mentre nell'adorabile
<i>Drive-Away Dolls</i> di Ethan la follia non raggiunge il livello di
nichilismo cosmico dei film della coppia.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Perché
dietro le opere dei Coen come coppia c’è la consapevolezza di un
immenso mondo buio, dominato nella forma tragica dalla violenza e dal
fallimento, nella forma comica dalla stupidità. Anche le commedie
più esilaranti, come <i>Burn After Reading</i>, hanno un sapore di fondo
drammatico e nichilista che rappresenta l’assoluta disperazione
razionale sull'universo e sull’uomo. <i>Totus mundus stultus</i>. In
questo buio brillano a volte alcune fiammelle, i “giusti”, come
la poliziotta incinta di <i>Fargo</i> – che non servono a sollevare la
situazione generale ma vi portano la loro piccola luce, equilibrando
moralmente la presenza del male. Forse, secondo la leggenda ebraica,
sono il motivo per cui Dio lascia esistere il mondo.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Drive-Away
Dolls</i> non si può dire che rientri appieno in questo schema. Questo
non vuol dire che il film – scritto da Ethan con Trisha Cooke – non
sia notevole: è bello ed è estremamente divertente. Aperto da
titoli coloratissimi al neon, che sono puro Coen, cui segue una scena
di folle crudeltà esilarante (idem), è un <i>road movie</i> a lieto fine.
Mentre nel cinema dei Coen coppia il contenuto è l'assurdo e il
punto fermo è la morte, qui il contenuto è l’assurdo (il
MacGuffin è un dildo) ma il punto fermo è il matrimonio. Fra le due
donne, naturalmente.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Bisogna
segnalare per prima cosa la bellezza del dialogo: è una<i> screwball
comedy</i> dei giorni nostri, lesbica e sboccatissima. I dialoghi fra
Jamie e Marian, con la prima che cerca di far uscire la seconda dal suo
guscio, sono umoristicamente raddoppiati da quelli fra i gangster
Arliss e Flint (che voltano la stessa intenzione di didassi
esistenziale in chiave puramente comica). Divertenti i
riferimenti a Henry James, a Steinbeck, e non dimentichiamo l’accenno
alla steiniana Alice B. Toklas nel nome di una cagnetta. Il montaggio
(anche quello firmato da Ethan Coen e Trisha Cooke) è perfetto: non
solo nell’interpunzione (grande una tendina trasversale che sembra
“crollare” sull'immagine) ma anche e soprattutto per la logica e
l’umorismo dei raccordi.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Tutto
diventa una corsa in montaggio parallelo verso Tallahassee: le due
ragazze, i gangster, più la durissima e rancorosa poliziotta ex
fidanzata di Jamie, che vuole sbolognarle la cagnetta. Trattandosi di
un <i>road movie</i>, è inevitabile che il racconto si strutturi in
episodi, o tappe; ma per evitare che diventi una serie di vignette la
sceneggiatura “recupera” i nuclei passati inserendo dei<i> richiami</i>
(la ex poliziotta passa all'agenzia dove giace il gerente in precedenza pestato dai
gangster, i due gangster interrogano la squadra di calcio femminile
con cui le nostre hanno fatto un’orgia, e si fanno imbrogliare).<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Il
film contiene sequenze flashback/oniriche su due diversi livelli
narrativi. Il primo (in realtà abbastanza forzato e inutile) è
relativo alla giovinezza drogata del <i>villain</i> in capo, come sapremo
alla fine. Il secondo invece è indovinato: è una rievocazione
dell’adolescenza di Marian coi suoi trucchi per spiare la vicina
nuda al bordo della piscina di là della staccionata. Per inciso,
l’immagine della bella donna nuda che, chiamata in casa dal marito
panzone, si infila gli stivali ha una misteriosa carica di erotismo
<i>fetish</i>, che giustifica l’espressione della giovane Marian in
primissimo piano.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: medium;">Il
film, naturalmente, deve moltissimo alle interpretazioni strepitose
di Margaret Qualley (Jamie), con la sua sfrenata loquela texana, e
Geraldine Viswanathan (Marian), con il suo gioco di occhi. Ma anche
di tutti i personaggio secondari, nessuno escluso, anche se per
ragioni di spazio vorrei menzionare solo Joey Slotnick (il pedante
gangster Arliss). L’eccellente uso degli attori è una delle
caratteristiche dello “stile Coen” – e questo né Joel né
Ethan l’hanno perso nella separazione.</span><br /><br /></span></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;"><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: 12pt;"></span></span></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-90728909974076101242024-03-17T13:27:00.000-07:002024-03-17T13:28:42.773-07:00La sala professori<p><b><span style="color: black; font-size: 14pt;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;">Ilker
</span></span><span style="color: black; font-size: 14pt;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;">Ç</span></span><span style="color: black; font-size: 14pt;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;">atak</span></span></b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Se
basta un granello di sabbia per inceppare una macchina perfetta,
figuriamoci cosa può succedere in
una scuola, che è un
delicato esercizio di equilibrio instabile fra amministrazione
dell'istituzione, insegnamento della materie e psicologia applicata.
Ne fa fede
il film tedesco “La sala professori” di Ilker
Çatak,
ambientato in una scuola
dove si verificano vari furti. Una giovane professoressa (Leonie
Benesch) scopre
che mancano dei soldi dal
giubbotto lasciato in
sala professori. Ma ha lasciata aperta la sua webcam, e vi appare
la camicia (non
il volto)
di chi frugava.
Dal disegno della camicia individua la presunta colpevole e l’accusa,
prima in un confronto personale senza esito, poi con la preside. Da
ciò
procede una serie di avvenimenti concatenati che significano rovina.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif">Q</span><span face="Verdana, sans-serif">uesta
storia di caduta su </span><span face="Verdana, sans-serif">due</span><span face="Verdana, sans-serif">
livell</span><span face="Verdana, sans-serif">i</span><span face="Verdana, sans-serif">
(l’insegnante in sala professori e l'insegnante in classe) </span><span face="Verdana, sans-serif">è
la parte interessante del film: possiede una logicità e una sorta di
suspense del dolore, che brillano per contrasto in una drammaturgia
per altri aspetti grezza e meccanica. In effetti bisognerebbe esser
grati alla (possibile) ladra per averla messa in moto, giacché prima
di quest</span><span face="Verdana, sans-serif">o </span><span face="Verdana, sans-serif">avvenimento
il film è </span><span face="Verdana, sans-serif">puerile</span><span face="Verdana, sans-serif">,
con un comportamento degli altri insegnanti e della preside
</span><span face="Verdana, sans-serif">completamente i</span><span face="Verdana, sans-serif">rrazionale:
un bambino di origine turca </span><span face="Verdana, sans-serif">viene
</span><span face="Verdana, sans-serif">accusa</span><span face="Verdana, sans-serif">to</span><span face="Verdana, sans-serif">
</span><span face="Verdana, sans-serif">di furto su </span><span face="Verdana, sans-serif">bas</span><span face="Verdana, sans-serif">i</span><span face="Verdana, sans-serif">
debolissim</span><span face="Verdana, sans-serif">e. </span><span face="Verdana, sans-serif">In
</span><span face="Verdana, sans-serif">realtà la sceneggiatura vuol
</span><span face="Verdana, sans-serif">solo </span><span face="Verdana, sans-serif">dirci
che le autorità scolastiche </span><span face="Verdana, sans-serif">sono
senza cuore, </span><span face="Verdana, sans-serif">tant’è vero
che l’</span><span face="Verdana, sans-serif">istituto proclama di
</span><span face="Verdana, sans-serif">avere una politica di
“tolleranza zero”. Ma quando abbandona l</span><span face="Verdana, sans-serif">e</span><span face="Verdana, sans-serif">
banalità “politically correct”, il film è convincente nel
descrivere l’odissea della professoressa – </span><span face="Verdana, sans-serif">che
</span><span face="Verdana, sans-serif">si rispecchia in quella del
figlio dell’accusata – </span><span face="Verdana, sans-serif">e
riesce ad abbozzare </span><span face="Verdana, sans-serif">alla
grossa </span><span face="Verdana, sans-serif">uno sguardo sulla
scuola e </span><span face="Verdana, sans-serif">su</span><span face="Verdana, sans-serif">l
ruolo dell’insegnante.<br /><br /></span></span></p><p>
</p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span face="Verdana, sans-serif"><span><span style="font-size: medium;">(<i>Messaggero
Veneto</i>)</span><br /><br /></span></span></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-52291701458443985632024-03-15T09:02:00.000-07:002024-03-17T13:29:23.550-07:00Dune - Parte due<p><b>Denis Villeneuve</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Costa
un po’ di fatica – e d’incertezza – commentare <i>Dune: Part Two</i>
come un film a sé stante, perché… come si esprimerebbero i Fremen…
è la parte mediana del verme: è il secondo atto in una trilogia che
è una monumentale opera compatta. <i>Dune: Part Two</i> è grande
spettacolo, indubbiamente entusiasmante; e come rozzamente si suol
dire, avercene di film così. Anche al di là del racconto e delle
sue psicologie, anche al di là della costruzione del mito e dei suoi
problemi, basterebbe a nobilitare questa epopea del deserto il valore
“grafico” dell’immagine, ossia l’azione in relazione al
paesaggio (i Sardaukar che ascendono in volo sulla roccia, oppure
Paul e Chani che si muovono all’unisono sulle dune di sabbia come
in un balletto). Inutile menzionare la potenza dei grandi vermi che
scorrono nella sabbia. Già lo sappiamo, Denis Villeneuve è un
grande paesaggista, e i suoi esterni immaginari sono autentici
dipinti. <br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif">Peraltro,
comparando il presente film col precedente, è difficile sottrarsi
all’impressione che la <i>Part One</i> fosse in qualche modo più affascinante. Non è solo questione di una distribuzione imperfetta dei
tempi: l’attacco finale, che dovrebbe avere la portata catastrofica
di un <i>Götterdämmerung</i>, appare un po’ accelerato rispetto alla
tragica ampiezza (minuziosamente preparata dal racconto) dell’attacco
degli Harkonnen nel primo film; e il duello finale fra Paul Atreides
e Feyd-Rautha è addirittura “tirato via” (nel romanzo di Frank
Herbert è più solenne ed emozionante, col cupo silenzio di Paul
mentre si batte che destabilizza l'avversario).<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Come
che sia, la differenza fra i due film non è una questione di
realizzazione del plot. I film di <i>Dune</i> sono la cronaca di un
conflitto, idea centrale alla quale sono subordinati tutti gli
aspetti. Nel primo film, il conflitto è esterno: il gioco di guerra
tra le famiglie Atreides e Harkonnen (con la complicità nascosta
dell'Imperatore) e la preparazione, non priva d’angoscia, della
famiglia Atreides allo scontro. Così il tema base si
allarga con violenza, “fugge” da tutte le parti: sul piano
paesaggistico si allarga a più pianeti, sul piano interpersonale si
allarga a più personaggi, ivi compresi i diversi membri di Casa
Atreides. Nel secondo film, il conflitto è interno a una singola
persona, è tutto giocato dentro Paul Muad'Dib, che non vuole essere il
Mahdi, il messia dei Fremen, e non vuole andare a sud, dove la
sua apparizione fra i “fondamentalisti” sarà il segnale della
guerra santa che sterminerà miliardi di persone in tutta la
galassia. Verso tale destinazione lo spinge la madre, Lady Jessica,
contro di essa lo avvertono le sue visioni; ma Paul non può
sottrarsi alla logica delle cose. È quindi corretto dire che in <i>Part
One</i> la narrazione era centrifuga, mentre in <i>Part</i> <i>Two</i> è centripeta.
Tutto tende a precipitare precipita dentro la soggettività di Paul,
come in un buco nero: anche l'elemento avventuroso (gli attacchi agli
Harkonnen), l’elemento “esotico” (gli Harkonnen, l’Impero), e
perfino la storia d’amore con Chani, tutto è attratto e finisce
subordinato al suo dramma: la lotta e poi la resa alla profezia.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Il
più consistente degli sforzi del film per sfuggire a questa forza
centripeta si ha nella grande pagina del mondo sotto il sole nero
dove Feyd-Rautha festeggia il suo compleanno (bellissima la trovata
dei fuochi artificiali “a macchia d’inchiostro”). Leni
Riefenstahl, che nella prima parte era tenuemente nascosta dietro
l’ombra di George Lucas, ora emerge in pieno, culminando nella
parata sotto il sole nero: ora – in relazione all'esercizio del
potere puro per il quale vivono gli Harkonnen – è apertamente
esplicitata. Da notare che l’invenzione di questo sole con la sua
luce particolare permette un lavoro sull’immagine che ha anche il
vantaggio di rendere la CGI meno evidente.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Lo
scontro di volontà fra Paul e la madre pone, in prosecuzione e
sviluppo della Part One, il grande tema del rapporto fra il piano e
il destino. Quella del Mahdi è una profezia che si autoavvera.
Paul parla di propaganda delle Bene Gesserit che si è radicata, ma
non può fare niente contro di essa, come mostrano le parole di
Stilgar quando nega di essere il messia promesso: “Il Mahdi è
troppo umile per dire che è il Mahdi”. Nei nostri giorni, in cui
purtroppo abbiamo modo di studiare quotidianamente il pensiero paranoico
e le teorie del complotto, è un meccanismo psicologico di facile
comprensione.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Il
peso che grava su Paul non deriva però solo dalla madre, divenuta
un'inquietante santona dal viso tatuato, che comunica telepaticamente
con la figlia, la futura (almeno in Herbert) Santa Alia del Coltello,
nel suo ventre. Breve digressione: il punto in cui il film non solo
si diparte di più dal libro ma tende al massimo la plausibilità è
il fatto che – mentre in Herbert Alia è bambina al momento della
resa dei conti (grande la sua apparizione in David Lynch!) – qui è
ancora nel ventre della madre. Ciò restringe assurdamente i tempi
della riconquista di Arrakis, a meno di non pensare a una gravidanza
innaturalmente protratta.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: medium;">Tornando
a Paul, la rivelazione della sua discendenza dagli Harkonnen per
parte di madre non è solo un colpo alla sua personalità, è la
scoperta di una identità che scorre nel sangue. “Noi siamo
Harkonnen – e sopravvivremo facendo gli Harkonnen”. Una spietata
logica delle cose (e la visione dell’unica possibilità di
sopravvivenza) lo porta a diventare ciò che non voleva. Così in
<i>Dune: Part Two</i> il dramma di Paul si inscrive in una visione
pessimistica universale, valida per tutta la saga: l’impossibilità
della libera scelta.<br /></span><br /></span></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-54090266061354130582024-03-13T02:55:00.000-07:002024-03-17T13:29:36.606-07:00Estranei<p><b>Andrew Haigh</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Film
non perfetto ma
interessante, “Estranei” di Andrew Haigh presenta Andrew
Scott in un'interpretazione
troppo contratta nel ruolo di
Adam, uno sceneggiatore omosessuale in crisi creativa. Respinge
un’educata
<i>avance</i> del
giovane Harry (Paul Mescal,
migliore)
che si è accorto dei suoi
frequenti sguardi; in seguito
però nasce
una relazione. I due abitano in un nuovo condominio di cui sembrano
essere finora gli unici inquilini. <br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif">I</span><span face="Verdana, sans-serif">n
contrasto col </span><span face="Verdana, sans-serif">realismo un po’
piatto d</span><span face="Verdana, sans-serif">ell'inizio, </span><span face="Verdana, sans-serif">i</span><span face="Verdana, sans-serif">l
film </span><span face="Verdana, sans-serif">agguanta</span><span face="Verdana, sans-serif">
il suo argomento </span><span face="Verdana, sans-serif">q</span><span face="Verdana, sans-serif">uando
Adam suona alla porta di un villino, e la coppia che lo accoglie
</span><span face="Verdana, sans-serif">(Claire Foy e Jamie Bell)
</span><span face="Verdana, sans-serif">sono i suoi genitori;
</span><span face="Verdana, sans-serif">sembrerebbe </span><span face="Verdana, sans-serif">il
</span><span face="Verdana, sans-serif">classic</span><span face="Verdana, sans-serif">o
</span><span face="Verdana, sans-serif">ritorno a casa dopo una lunga
separazione, se non ci fosse il fatto che </span><span face="Verdana, sans-serif">hanno
</span><span face="Verdana, sans-serif">la sua stessa età o poco
più. </span><span face="Verdana, sans-serif">Questa stranezza </span><span face="Verdana, sans-serif">s</span><span face="Verdana, sans-serif">i
spiega </span><span face="Verdana, sans-serif">di lì a poco </span><span face="Verdana, sans-serif">quando
apprendiamo </span><span face="Verdana, sans-serif">(il film procede
per rivelazioni) </span><span face="Verdana, sans-serif">che </span><span face="Verdana, sans-serif">erano</span><span face="Verdana, sans-serif">
</span><span face="Verdana, sans-serif">morti in un incidente 30 anni
prima, quando </span><span face="Verdana, sans-serif">Adam </span><span face="Verdana, sans-serif">era
</span><span face="Verdana, sans-serif">ragazzino.</span><span face="Verdana, sans-serif">
</span><span face="Verdana, sans-serif">Confidandosi con loro come
mai prima, Adam</span><span face="Verdana, sans-serif"> rivela la sua
omosessualità.<br /></span>“<span face="Verdana, sans-serif"><span>Estranei”
(dal romanzo giapponese omonimo di Yamada Taichi, da cui Obayashi
Nobuhiko trasse nel 1988 il film “The Discarnates”) non è una
vera storia di fantasmi: è piuttosto un tuffo nel ricordo, un esame
del passato fatto da Adam stesso. Infatti il film si tiene sempre sul
filo del paradosso: la cruda realtà che i genitori sono morti è
lasciata, nel rapporto con loro, nel “non detto” (ciò crea
un’atmosfera sognante), venendo esplicitata solo in un commosso
dialogo finale. Bisogna aggiungere (senza spoiler!) che “Estranei”
non si ferma qui e prosegue con un triplo salto carpiato di sfida
alla famosa “sospensione volontaria dell'incredulità”. Ma non è
questo barocchismo il difetto del film, bensì una certa vena
didattica e telegrafata, che emerge in particolare nella parte
iniziale.<br /><br /></span></span></span></p>
<p><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: medium;">(“Messaggero
Veneto”)</span><br /></span><br /></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-86550300042876316322024-03-02T11:53:00.000-08:002024-03-02T11:56:43.431-08:00La zona d'interesse<p><b>Jonathan Glazer</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>La
Shoah ha rappresentato un punto di non ritorno non perché sia stata
il primo genocidio nella storia dell’umanità (già Hitler diceva
che poteva sterminare gli ebrei perché c’era stato il precedente
dei turchi sugli armeni) ma per la sua natura industriale: non la
furia cieca della barbarie scatenata come i turchi, ma la fredda e
razionale organizzazione “ingegneristica” da parte di una civiltà
culturalmente evoluta e tecnicamente all’avanguardia. Esattamente
questo è Rudolf Höss (Christian Friedel), comandante del campo di
sterminio di Auschwitz, nel doloroso e bellissimo <i>La zona d’interesse</i>
di Jonathan Glazer: uno scrupoloso ingegnere del massacro, molto
apprezzato dai superiori e sempre più calato nel ruolo. Verso la
fine del film lo vediamo partecipare a una festa, guardare gli
invitati (tedeschi) da un’alta balconata e calcolare quali
sarebbero i problemi tecnici per gasarli tutti.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif">Sarebbe
meno orribile se fosse un Jack lo Squartatore con la bava alla bocca,
ma è un affettuoso padre di famiglia: famiglia che abita esattamente
di fronte al campo di sterminio, in una villa di cui la moglie Hedwig
(Sandra Hüller di <i>Anatomia di una caduta</i>) cura e abbellisce
l’amatissimo giardino. L’orrore è l’Altra Parte; è nascosto
da un muro che esclude – tanto ai personaggi quanto a noi
spettatori – la vista (salvo le alte ciminiere dei forni che
eruttano fumo e luce rossastra), ma non il suono: urla e colpi d’arma
da fuoco.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Non
è, questa, una tragedia dell’ignoranza ovvero del non voler
vedere: Hedwig, le sue amiche, sua madre, stanno al termine di questa
catena di montaggio del massacro e si spartiscono i beni degli ebrei
assassinati, discutendone placidamente come noi faremmo sulle offerte
al supermercato – o come fanno i russi sui saccheggi in Ucraina.
Quando è irritata per la scomparsa della madre, Hedwig sfoga il suo
malumore sulle polacche costrette a servirla, minacciando di parlare
al marito per fare spargere in terra le loro ceneri.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Il
campo di sterminio nel film è quindi il gigantesco <i>controcampo
negato</i> della serena quotidianità borghese di questa famiglia, dove
l’unico incidente è un litigio coniugale su un trasferimento del
marito (Hedwig si rifiuta di lasciare la casa). Mentre il romanzo di
Martin Amis che ha liberamente ispirato il film contiene una storia
“forte” (un uomo si innamora della moglie del comandante del
campo e questi incarica un membro di un Sonderkommando di ucciderlo),
il film di Jonathan Glazer contiene la pura vita quotidiana: i
bambini che vanno a scuola, un picnic sul lago, una festa di
compleanno, la visita della madre che ammira il guardino, “angolo
di Paradiso”. Come per ogni censura e per ogni preterizione, il non
detto ha più potenza del detto, il non mostrato evidenzia ciò che
evita di mostrare.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Compaiono,
ma visibili solo per noi, orripilanti analogie tra il fumo domestico
di sigari o sigarette e quello dei forni crematori, il forno in cui
brucia la strega della fiaba di Hansel e Gretel (letta da Höss alle
sue bambine) e i forni al di là del muro. Similmente, è il dialogo
vivo del film con noi spettatori a lasciarci il compito di cogliere
alcune piccole incrinature. Penso per esempio al sonnambulismo di una
delle bambine (laddove una ricorrente parte “onirica” appare
piuttosto inutile), o la misteriosa fuga della madre. Oppure, a
rovescio, il nazismo in erba del figlio adolescente; quando fa al
fratellino un brutto scherzo chiudendolo nella serra, questa è
certamente la stupidità dispettosa degli adolescenti sotto ogni
cielo, ma non possiamo non vedere la crudeltà nazista in filigrana.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Ecco
il grande problema sia artistico sia morale del cinema: come
raccontare la Shoah – come mostrare il non mostrabile – senza
cadere nel finto, oppure, peggio, nella pornografia dell’orrore
(occorre ricordare la polemica su Pontecorvo?). Un risultato molto
alto l’ha ottenuto nel 2015 Laszló Nemes con <i>Il figlio di Saul</i>,
dove la macchina da presa rimane ancorata al primissimo piano e il
resto è fuori fuoco. In modo diverso, Jonathan Glazer raggiunge un
analogo risultato lavorando sul fuori campo.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: medium;">Solo
in un momento il film abbandona – con estrema potenza – questa
politica del controcampo negato; ed è alla fine. Rudolf Höss sta
scendendo per lo scalone di un palazzo, vuoto d'ogni anima viva (già
questo è onirico); due volte si ferma per degli indicativi conati di
vomito a vuoto. Nei vasti corridoi deserti e bui, il suo sguardo è
attratto da una piccola luce che brilla. Ebbene, quella luce dà su
una porta che si apre e siamo nella Auschwitz di oggi, trasformata in
museo della Shoah, con delle donne che fanno le pulizie. Vediamo per
la prima volta i forni; vediamo i cumuli di valigie, coi nomi scritti
sopra che gridano ancora l’inganno, la montagna di scarpe, le
grucce accatastate. Dopo un corridoio con fotografie di vittime,
l'immagine ritorna a Höss nel corridoio che guarda (dove?), riprende
a camminare, esce di scena.<br /></span><br /></span></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-79805117373781162024-02-27T13:14:00.000-08:002024-02-27T13:16:45.460-08:00Romeo è Giulietta<p><b>Giovanni Veronesi</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Un
tema molto presente nel teatro di Shakespeare è il travestimento –
che è più che mai interessante quando investe lo scambio di genere,
con una ragazza che si fa passare per giovanotto (<i>La dodicesima
notte</i>, <i>Come vi piace</i>, <i>Il mercante di Venezia</i>). Questo, che implica
una particolare carica di ambiguità sessuale, era naturalmente
facilitato dal fatto che nel teatro elisabettiano le donne erano
sempre interpretate da ragazzi <i>en travesti</i>. <br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif">Il
concetto è stato sfruttato da sempre nel cinema (un importante film
del periodo muto, con Asta Nielsen, metteva in scena un Amleto donna
che è stato cresciuto ingannevolmente come maschio per ragioni
politiche). È senza dubbio tale concetto che ha suggerito una
commedia intelligentemente scritta come <i>Romeo è Giulietta</i> di
Giovanni Veronesi. Un anziano regista dispotico (Sergio Castellitto)
maltratta e respinge la giovane attrice Vittoria (Pilar Fogliati)
all’audizione per il ruolo di Giulietta in un suo spettacolo. Lei
giura vendetta e, con l’aiuto di una truccatrice licenziata (Geppi
Cucciari), grazie a un abile trucco e un naso finto assai realistico,
si fa passare per maschio (il nome della protagonista nasconde
un'allusione a <i>Victor/Victoria</i>) e si ripresenta per il ruolo di
Romeo. È per beffa, ma quando ottiene la parte, non ha più voglia
di svelarsi. Si instaura così un gioco degli equivoci, anch’esso
di sapore shakespeariano: vedi la complessa vendetta del fidanzato di
lei. Inoltre il vecchio regista si innamora di “lui”.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Giovanni
Veronesi è un regista che altre volte ha peccato gravemente di
verbosità (il terribile <i>Il mio West</i> non è cinema, è radio!); ma
stavolta, alle prese con un materiale così promettente, consegna un
film piacevole, sebbene non agilissimo. La parte più divertente sono
le audizioni di pessime attrici che precedono quella di Vittoria. Una
cosa degna di nota è peraltro il fatto che il teatro di Shakespeare
non è fatto per i nostri giovani attori: fra la recitazione
umoristicamente modesta imposta dal plot e quella “autentica” non
è che ci sia tutta quella differenza. In ogni modo, sebbene Pilar
Fogliati sia brava e convincente nella doppia parte, si crea nel film
una sorta di disfida generazionale fra i giovani e i vecchi – che i
secondi (Castellitto, Margherita Buy, Alessandro Haber) vincono alla
grande. In particolare Sergio Castellitto si mangia il film nella
parte del vecchio regista gay, ritratto memorabile di un uomo
arrogante ma tutt'altro che sciocco. Ci sarebbe molto da eccepire
sulla sua gentilezza (lo shakespeariano “latte dell’umana bontà”
scorre ben scarso in lui) ma, quanto al contenuto, le sue intemerate
violente e sarcastiche non sono solo divertenti ma del tutto
giustificate.<br /></span></span><br /></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-29316563226891844112024-02-20T07:26:00.000-08:002024-02-20T07:28:10.863-08:00I tre moschettieri - Milady<p><b>Martin Bourboulon<br /></b><br /></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span><span style="font-style: normal;">Quanti
ne abbiamo visti di “Tre Moschettieri”? Da quelli eleganti e
piumati di George Sidney </span><span style="font-style: normal;">d</span><span style="font-style: normal;">el
1948, con Gene Kelly, a quelli scanzonati di Richard </span><span style="font-style: normal;">L</span><span style="font-style: normal;">ester
del 1973, da quelli “steampunk”, con una macchina volante, del
2011 a quelli parodistici </span><span style="font-style: normal;">(</span><span style="font-style: normal;">chi
si </span><span style="font-style: normal;">ricorda </span><span style="font-style: normal;">del</span><span style="font-style: normal;">
Quartetto Cetra?)</span><span style="font-style: normal;">. </span><span style="font-style: normal;">Ora
</span><span style="font-style: normal;">Martin Bourboulon, </span><span style="font-style: normal;">che
</span><span style="font-style: normal;">ci aveva divertit</span><span style="font-style: normal;">i</span><span style="font-style: normal;">
l’anno scorso con “I tre moschettieri – D’Artagnan”, torna
col secondo capitolo (sorpresa: non l’ultimo!), “I tre
moschettieri – Milady”. La cattivissima del titolo è una
sfavillante Eva Green, il cui busto generosamente esibito fa
strabuzzare gli occhi sia al di qua sia al di là dello schermo,
tanto ai personaggi quanto agli spettatori. <br /></span></span></span><span face="Verdana, sans-serif">I
moschettieri si trovano impeg</span><span face="Verdana, sans-serif">n</span><span face="Verdana, sans-serif">ati
nell'assedio de La Rochelle e D’Artagnan deve ritrovare l'amata
Constance, rapita </span><span face="Verdana, sans-serif">n</span><span face="Verdana, sans-serif">el
film precedente. L’arcinemica Milady è lì per mettere i bastoni
fra le ruote. Bourboulon e i suoi sceneggiatori </span><span face="Verdana, sans-serif">si
sono</span><span face="Verdana, sans-serif"> saggiamente attenuti
allo spirito, se non alla lettera, del romanzo; </span><span face="Verdana, sans-serif">i</span><span face="Verdana, sans-serif">
</span><span face="Verdana, sans-serif">pochi</span><span face="Verdana, sans-serif">
tocchi di modernizzazione (la presenza di un moschettiere nero,
</span><span face="Verdana, sans-serif">peraltro</span><span face="Verdana, sans-serif">
un principe, o un accenno alla bisessualità di Porthos) sono
discreti e non offendono. </span><span face="Verdana, sans-serif">L’ambientazione
naturalmente è realistica: un Seicento sporco e fangoso, in cui i
duelli diventano risse rotolandosi a terra e i moschettieri – altro
che Gene Kelly – vanno in giro con giubbe scure e cappellacci con
piume striminzite, </span><span face="Verdana, sans-serif">mal</span><span face="Verdana, sans-serif">
rasati e </span><span face="Verdana, sans-serif">poco</span><span face="Verdana, sans-serif">
puliti. Il dialogo è vivace e spiritoso, la regia è convincente. Se
Eva Green </span><span face="Verdana, sans-serif">è </span><span face="Verdana, sans-serif">brava
quanto bella </span><span face="Verdana, sans-serif">(</span><span face="Verdana, sans-serif">vedi
</span><span face="Verdana, sans-serif">le scene in cui,
ingannevolmente, si confida), Vincent Cassel </span><span face="Verdana, sans-serif">(</span><span face="Verdana, sans-serif">Athos</span><span face="Verdana, sans-serif">)</span><span face="Verdana, sans-serif">
ruba </span><span face="Verdana, sans-serif">la ribalta</span><span face="Verdana, sans-serif">
con la sua disperazione trattenuta; ma tutti i quattro sono
commendevoli. Un filmone di cappa e spada </span><span face="Verdana, sans-serif">contemporaneo
e tradizionale </span><span face="Verdana, sans-serif">allo stesso
tempo. Che potrebbe desiderare di </span><span face="Verdana, sans-serif">meglio
</span></span><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: medium;">l'appassionato di Dumas?</span><br /><br /></span></p>
<p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: small;">(<i>Messaggero
Veneto</i>)</span></span></p>
<p align="left" class="western" style="font-style: normal; font-variant: normal; letter-spacing: normal; line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<br />
</p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-48966555541304786542024-02-15T06:31:00.000-08:002024-02-15T06:34:11.987-08:00Green Border<p><b>Agnieszka Holland</b></p><p></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span><span style="font-style: normal;">Preparate
i fazzoletti.</span><span> "</span>Green Border" <span style="font-style: normal;">di
Agnieszka Holland presenta l’odissea dei rifugiati fra Bielorussia
e Polonia, </span><span style="font-style: normal;">seguendo una
famiglia siriana, </span><span style="font-style: normal;">più</span><span style="font-style: normal;">
un’intellettuale afghana </span><span style="font-style: normal;">con
loro</span><span style="font-style: normal;">, </span><span style="font-style: normal;">nel
2021</span><span style="font-style: normal;">. Sono stati attirati in
Bielorussia dal dittatore Lukashenko per scaraventarli dentro le
frontiere europee, come arma impropria </span><span style="font-style: normal;">n</span><span style="font-style: normal;">ella
guerra mondiale a pezzi c</span><span style="font-style: normal;">ontro
</span><span style="font-style: normal;">l’Occidente. Pesantemente
maltrattati di qua e di là, vengono spediti </span><span style="font-style: normal;">in
segreto</span><span style="font-style: normal;"> dai bielorussi in
Polonia e </span><span style="font-style: normal;">r</span><span style="font-style: normal;">ispediti
</span><span style="font-style: normal;">in segreto </span><span style="font-style: normal;">dai
polacchi in Bielorussia: povera gente </span><span style="font-style: normal;">buttata</span><span style="font-style: normal;">
a calci da una parte all'altra, come </span><span style="font-style: normal;">un</span><span style="font-style: normal;">a</span><span style="font-style: normal;">
palla da tennis</span><span style="font-style: normal;">. L'"</span>imagerie"<span style="font-style: normal;">
del film usa come modello i rastrellamenti e i </span><span style="font-style: normal;">lager
n</span><span style="font-style: normal;">azisti.<br /></span></span></span><span face="Verdana, sans-serif">Ultra-didattico,
i</span><span face="Verdana, sans-serif">l film non ha </span><span face="Verdana, sans-serif">grandi
</span><span face="Verdana, sans-serif">meriti artistici, </span><span face="Verdana, sans-serif">a
parte</span><span face="Verdana, sans-serif"> la </span><span face="Verdana, sans-serif">bella</span><span face="Verdana, sans-serif">
fotografia, ma è </span><span face="Verdana, sans-serif">decisamente
</span><span face="Verdana, sans-serif">commovente </span><span face="Verdana, sans-serif">sui
</span><span face="Verdana, sans-serif">patimenti di quest</span><span face="Verdana, sans-serif">e
vittime.</span><span face="Verdana, sans-serif"> </span><span face="Verdana, sans-serif">Vale</span><span face="Verdana, sans-serif">
sempre il verso di Dante: “E se non piangi, di che pianger suoli?”
Peraltro Agnieszka Holland rifiuterebbe una valutazione di tipo
estetico: il suo è un film militante.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Sul
piano narrativo "Green Border" </span><span face="Verdana, sans-serif">si
divide </span><span face="Verdana, sans-serif">fra i due mondi, </span><span face="Verdana, sans-serif">i
migranti e i polacchi. </span><span face="Verdana, sans-serif">L</span><span face="Verdana, sans-serif">a
parte sui migranti è </span><span face="Verdana, sans-serif">convincen</span><span face="Verdana, sans-serif">te:
</span><span face="Verdana, sans-serif">personaggi</span><span face="Verdana, sans-serif">
</span><span face="Verdana, sans-serif">semplic</span><span face="Verdana, sans-serif">i
ma </span><span face="Verdana, sans-serif">credibil</span><span face="Verdana, sans-serif">i,
e ben interpretati; si</span><span face="Verdana, sans-serif"> </span><span face="Verdana, sans-serif">crea
un’adesione </span><span face="Verdana, sans-serif">umana </span><span face="Verdana, sans-serif">che
</span><span face="Verdana, sans-serif">l</span><span face="Verdana, sans-serif">i
fa seguire con partecipazione</span><span face="Verdana, sans-serif">.
Se </span><span face="Verdana, sans-serif">tutto il film fosse stato
narrato dal loro punto di vista ne sarebbe uscit</span><span face="Verdana, sans-serif">o</span><span face="Verdana, sans-serif">
un </span><span face="Verdana, sans-serif">film di rilievo</span><span face="Verdana, sans-serif">.
</span><span face="Verdana, sans-serif">Ma </span><span face="Verdana, sans-serif">quando
</span><span face="Verdana, sans-serif">Holland </span><span face="Verdana, sans-serif">rappresenta
</span><span face="Verdana, sans-serif">l’</span><span face="Verdana, sans-serif">altra
parte, </span><span face="Verdana, sans-serif">divisa nettamente in
cattivi </span><span face="Verdana, sans-serif">(</span><span face="Verdana, sans-serif">una
Polonia </span><span face="Verdana, sans-serif">para-</span><span face="Verdana, sans-serif">nazist</span><span face="Verdana, sans-serif">a</span><span face="Verdana, sans-serif">)</span><span face="Verdana, sans-serif">
</span><span face="Verdana, sans-serif">e</span><span face="Verdana, sans-serif">
</span><span face="Verdana, sans-serif">buoni (</span><span face="Verdana, sans-serif">pochi</span><span face="Verdana, sans-serif">
polacchi</span><span face="Verdana, sans-serif"> </span><span face="Verdana, sans-serif">che
fanno resistenza </span><span face="Verdana, sans-serif">clandestina</span><span face="Verdana, sans-serif">)</span><span face="Verdana, sans-serif">,
</span><span face="Verdana, sans-serif">t</span><span face="Verdana, sans-serif">utt</span><span face="Verdana, sans-serif">e
le caratterizzazioni diventano </span><span face="Verdana, sans-serif">prevedibil</span><span face="Verdana, sans-serif">i
e</span><span face="Verdana, sans-serif"> stereotipat</span><span face="Verdana, sans-serif">e,</span><span face="Verdana, sans-serif">
</span><span face="Verdana, sans-serif">non solo dalla </span><span face="Verdana, sans-serif">parte
dei cattivi </span><span face="Verdana, sans-serif">(normale
amministrazione </span><span face="Verdana, sans-serif">cinematografica</span><span face="Verdana, sans-serif">)
</span><span face="Verdana, sans-serif">ma anche</span><span face="Verdana, sans-serif">
</span><span face="Verdana, sans-serif">da quella dei buoni.
</span><span face="Verdana, sans-serif">Agnieszka </span><span face="Verdana, sans-serif">Holland
avrebbe qualcosa da imparare – </span><span face="Verdana, sans-serif">e
</span><span face="Verdana, sans-serif"> parliamo sempre di cinema a
forte impronta didattica – da</span><span face="Verdana, sans-serif">l</span><span face="Verdana, sans-serif">
Ken Loach </span><span face="Verdana, sans-serif">di "The Old Oak". </span></span></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;"><span face="Verdana, sans-serif" style="font-size: 12pt;">(<i>Messaggero Veneto</i>)<br /><br /></span></p><p></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-7966516686190567352024-02-08T09:17:00.000-08:002024-02-08T09:23:40.069-08:00Ambin - La roccia e la piuma<p><b>Fredo Valla</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Il
massiccio dell’Ambin, “cuore bianco della Valle di Susa”, tra
il Piemonte e la Francia, è protagonista dell’ultimo film di Fredo
Valla, il bellissimo documentario <i>Ambin – La roccia e la piuma</i>, che
si può vedere in rare fortunate occasioni di proiezione. A Udine è
stato presentato al cinema Visionario venerdì 2 febbraio.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif">Fredo
Valla è regista di eccellenti documentari (oltre che sceneggiatore:
cito solo <i>Il vento fa il suo giro</i> e<i> Lubo</i>, entrambi di Giorgio
Diritti) ma il suo documentarismo è diverso da quello tradizionale.
All’istanza ordinatrice autoritaria della voce narrante, Valla
preferisce sostituire una pluralità di voci, un mosaico. Il suo
metodo è quello del collage di interventi/dichiarazioni, e ciò dà
all’opera una particolarissima veridicità. Spesso la sua scelta è
quella di ancorarsi a un personaggio che crea una continuità
narrativa su cui s’innesta il discorso: come Giorgio Conte in <i>Plus
haut que les nuages</i> o Pietro Spirito in <i>Medusa – Storie di uomini
sul fondo</i> o, a un livello più complesso, lui stesso come soggetto
peregrinante in <i>Bogre – La grande eresia europea</i>. Non in <i>Ambin</i> dove
abbiamo solo una ritmata, fascinosa, convincente polifonia di voci
che crea la sensazione viva dell’esistenza e della memoria. </span><span face="Verdana, sans-serif">Tutte
queste voci danno l'impressione che l’oggetto di film “si
costruisca da sé”. Ovviamente il documentario è sempre uno
sguardo non incorporeo sul mondo: è sempre la mediazione di un
autore (questo raggiunge la sua <i>reductio ad absurdum</i> nel
documentario-pamphlet alla Michael Moore). Peraltro, anche se
l’elemento ordinatore dello sguardo autoriale è ineliminabile, in<i>
Ambin</i> esso è mediato da una sorta di <i>disponibilità</i> che mette in
primo piano la montagna sui due piani, diacronico e sincronico,
dell’esistenza.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Di
solito i film sulla montagna (senza riandare ai <i>Bergfilme</i> tedeschi,
menziono il sottovalutato<i> Grido di pietra</i> di Werner Herzog) tendono
alla vetta, punto di arrivo. Certamente, come dice Fredo Valla,
questo si lega spesso al concetto della </span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">montagna
violata, </span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">quasi
</span></span><span face="Verdana, sans-serif">un discorso di stupro come atto
simbolico. Ma se il film è il sogno della conquista della vetta, la
montagna in sé diventa il luogo di un percorso, il momento della
contraddizione: vale principalmente come ostacolo. Invece in <i>Ambin</i> la
montagna appare per sé. E la cima (i Denti) non è conquistata se
non nel senso ludico del gruppo di <i>highliners</i> alla fine – il che
non nega né l’elemento di inevitabile suspense che proviamo sempre
davanti a simili spettacoli né l'aspetto incantato che li circonda
(l’aurora). Nel loro camminare sul filo sopra l’abisso, o anche
stendersi per gioco a fingere di dormire, vediamo realizzarsi
quell'antitesi fra il pieno e il vuoto, il massiccio e il volatile,
la roccia e la piuma, postulata dal (sotto)titolo.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Un
grande lavoro di fotografia, che si avvale anche di riprese col drone
e dall’elicottero, rende la bellezza materiale, fisica, “tangibile”
della montagna. In molti dettagli, per esempio l’elemento insieme
concreto e visionario delle statue di Santi nel buio, si riconosce
l’autore di <i>Bogre – La grande eresia europea</i>. </span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">Ri</span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">guardo
</span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">all’ordine
espositivo, il percorso è divagante, poetico, </span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">e
il </span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">montaggio,
che ama </span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">tal</span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">volt</span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">a</span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">
i raccordi per contrasto, </span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">lo
</span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">riflette.
</span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">Lasciando
la parola a Valla stesso: “ho </span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">cercato…
</span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">un</span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">
approccio diverso al tema, vorrei dire più lirico, dove quella sorta
di Sahel alpino (complice la siccità) che è il Massiccio d'Ambin,
con i pochi ghiacciai rimasti simili a tele di Hartung, attraversati
da segni profondi, assumessero un significato diverso (quello
dell'antropologo all'inizio del film). Poi, escludendo la voce off
che non mi è congeniale, ho voluto che a raccontare il Massiccio e
il rapporto con la montagna fosse la gente che ci vive attorno, in
una sorta di montaggio che definirei espressionista” </span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">(lettera
di Fredo Valla a chi scrive</span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">)</span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #222222;">.<br /></span>Gli
interventi, sarebbe riduttivo chiamarli interviste, sono sempre
interessanti e spesso assai illuminanti, o per l’aspetto
scientifico o filosofico (bellissimo per esempio il discorso sul
significato delle croci in cima alle montagne), o per la concretezza
umana (i due malgari) o per una qualità di “meraviglia” che crea
una pagina magica (la visita alla galleria, scavata da un Colombano
nel Cinquecento). Anche l’intervento della giovane donna nel
rifugio esprime in modo intrigante il concetto “alternativo” di
viaggio, come continua conoscenza del percorso, rispetto alla linea
retta dell’aereo; si può trovare invece retorico
(iper-semplificatorio) il suo discorso, quando prosegue,
sull’insensatezza delle frontiere, ma anche questo, come credo
dicano i giovani, “ci sta”. La scelta di non mettere le
didascalie che permettano di dare un nome alla persona che parla è
una scelta radicale ma centrata, perché contribuisce a una fluidità
discorsiva che lo apparenta in qualche modo allo scorrere della vita
(dove parliamo con centinaia di persone ma non vediamo didascalie).
Forse nei titoli di coda sarebbe stato opportuno che i nomi, anziché
sul nero, apparissero accanto all'immagine relativa del film, in modo
da attivare la memoria dello spettatore.<br />Sui
due assi del presente e della memoria, la forza della storia umana –
il senso profondo delle croci alpine, i ricordi del passato, dalla
<i>Glorieuse Rentrée</i> dei valdesi nel XVII secolo al vecchio forte
italiano bombardato dagli italiani per sperimentare i progressi
dell'artiglieria, l'ingegneria umana, la piccola cronaca sugli
animali scomparsi – si incrocia con l’altra dimensione del tempo,
quella della montagna. Perché, se noi “viviamo la montagna”, la
montagna vive come noi – ma questa sua vita si esprime in una
dimensione temporale del tutto diversa: ere geologiche contro i
nostri brevi anni; e potremmo dire che anche nella dialettica fra la
“lentezza” possente della montagna e l'immediatezza transeunte
delle vite umane ancora si ritrova l'endiadi del sottotitolo, la roccia e la
piuma. Qui la geologia, sulla quale il documentario insiste, entra
perfettamente, perché è una descrizione dell’“anatomia
dell’Ambin”, fonda quel modo di renderlo personaggio su cui
s’impernia il discorso.</span></span></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;"><span face="Verdana, sans-serif" style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span><br /></span></span></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-62759998544754058942024-02-04T06:05:00.000-08:002024-02-04T06:06:53.892-08:00Prima danza, poi pensa - Alla ricerca di Beckett<p><b>James Marsh</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Un
consiglio agli spettatori: prima di vedere il “biopic”
(film
biografico)
su Samuel Beckett “Prima
danza, poi pensa” di
James Marsh, conviene
guardarsi
su YouTube il cortometraggio
di 22 minuti “Film”
(1962),
scritto da Beckett e
interpretato dal vecchio
Buster Keaton. Mostra
in forma di strano
apologo il
suo mix di conoscenza del
dolore, bizzarra saggezza e
umorismo nero.
Perché?
Perché così davanti al film
di Marsh capiamo di
chi si parla.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif">Qual
è il compito d’un </span><span face="Verdana, sans-serif">“biopic”</span><span face="Verdana, sans-serif">
su un artista? Dare un'illustrazione della sua vita; </span><span face="Verdana, sans-serif">portarci
</span><span face="Verdana, sans-serif">(</span><span face="Verdana, sans-serif">a
sommi tratti</span><span face="Verdana, sans-serif">)</span><span face="Verdana, sans-serif">
dentro </span><span face="Verdana, sans-serif">la sua </span><span face="Verdana, sans-serif">opera</span><span face="Verdana, sans-serif">;
possibilmente, mostrare </span><span face="Verdana, sans-serif">il
loro rapporto reciproco.</span><span face="Verdana, sans-serif"> </span><span face="Verdana, sans-serif">Lo
sceneggiatore del presente film, </span><span face="Verdana, sans-serif">Neil
Forsyth, </span><span face="Verdana, sans-serif">ha scelto di
focalizzare il racconto sulla storia privata di Beckett, e questo è
legittimo; però manca completamente la seconda esigenza. Vediamo uno
scrittore malinconico e le donne della sua vita; ma per quel che il
film ci fa capire della sua opera, potrebbe essere </span><span face="Verdana, sans-serif">chiunque</span><span face="Verdana, sans-serif">.
</span><span face="Verdana, sans-serif">Il </span><span face="Verdana, sans-serif">suo</span><span face="Verdana, sans-serif">
genio </span><span face="Verdana, sans-serif">v</span><span face="Verdana, sans-serif">iene
</span><span face="Verdana, sans-serif">asserito ma non</span><span face="Verdana, sans-serif">
mostrato, </span><span face="Verdana, sans-serif">salvo</span><span face="Verdana, sans-serif">
citazioni inavvertibili e </span><span face="Verdana, sans-serif">quattro</span><span face="Verdana, sans-serif">
secondi </span><span face="Verdana, sans-serif">quando </span><span face="Verdana, sans-serif">guard</span><span face="Verdana, sans-serif">a
l</span><span face="Verdana, sans-serif">a rappresentazione di una
sua pièce. </span><span face="Verdana, sans-serif">Non </span><span face="Verdana, sans-serif">a</span><span face="Verdana, sans-serif">
caso il film i</span><span face="Verdana, sans-serif">nizia </span><span face="Verdana, sans-serif">col
conferimento del Premio Nobel: sentir </span><span face="Verdana, sans-serif">declamar</span><span face="Verdana, sans-serif">e
le motivazioni dà allo spettatore una direzione su che cosa deve
pensare.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Alla
cerimonia del Nobel Beckett entra in una specie di caverna e incontra
se stesso; discutendo con se stesso (coscienza? memoria?) per tutto
il tempo vede sfilare sotto gli occhi gli episodi della sua vita.
Questa trovata “artistica” piuttosto kitsch dialoga con il tono
medio, da film televisivo, degli episodi. Fra questi è interessante
quello su James Joyce (potenza dei nomi!) ma nel complesso non si va
oltre una convenzionalità ben recitata. Samuel Beckett come grande
drammaturgo e scrittore aspetta ancora il suo Godot cinematografico.</span></span></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;"><span style="font-size: 12pt;">(</span><i style="font-size: 12pt;">Messaggero Veneto</i><span style="font-size: 12pt;">)</span></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;"><span face="Verdana, sans-serif" style="font-size: 12pt;"><br /></span></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-41071433374844751132024-01-27T13:13:00.000-08:002024-01-28T00:44:21.756-08:00Povere creature!<p><b>Yorgos Lanthimos</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;"></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Il
<i>Frankenstein</i> di Mary Wollstonecraft Shelley (1818, ripubblicato
modificato 1831) non è semplicemente la storia di un mostro.
Influenzato da Rousseau, nella vicenda del dottor Frankenstein e
della sua creatura il romanzo dipinge in forma tragica la formazione
intellettuale e morale di un uomo artificiale, <i>tabula rasa</i>,
precipitato adulto nel mondo senza passare per l’apprendimento
dell’infanzia (e rinnegato dal suo creatore per il suo aspetto
mostruoso). Yorgos Lanthimos è sempre stato affascinato dal tema
delle modifiche del/sul corpo umano, ma anche da quello del
linguaggio. Così non stupisce il suo incontro col mito di
Frankenstein; ce ne dà una riscrittura postmoderna con <i>Povere
creature! </i>(<i>Poor Things</i>, sceneggiato da Tony McNamara dal romanzo di
Alasdair Gray), che mette in risalto il doppio processo parallelo e
in ultima analisi coincidente dell’acquisizione del linguaggio e
della formazione dell'autocoscienza. </span></span>
</span></p>
<p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span><span face="Verdana, sans-serif"><span>Entra
in scena il dottor Godwin Baxter (Willem Dafoe), il “dottor
Frankenstein” della situazione, dal volto pieno di cicatrici. I
suoi studenti lo chiamano “il mostro”, ma nel film ci si
riferisce a lui col non innocente diminutivo God (Dio). Quando Bella,
la creatura, dirà nel film cose come “God my father” il doppio
senso è evidente; questo si perde in traduzione, ed ecco un motivo
(in aggiunta a quelli canonici) per vedere il film nella versione
originale sottotitolata. Il gusto per il grottesco </span></span></span><span>di Lanthimos</span><span> (la cui cifra è una "sacra dismisura") si
esplicita anche nello zoo frankensteiniano, capitanato da un’oca a
quattro zampe – precedenti esperimenti del dottore – che compare
nel film. Godwin Baxter porta in viso e sul corpo i segni degli
esperimenti sadico-scientifici di suo padre, uno scienziato pazzo:
come dire, è anche lui una sorta di mostro di Frankenstein, come se
attraesse su di sé la carica di mostruosità del mito. Infatti la
sua creatura Bella (Emma Stone, nell'interpretazione della sua
carriera), non è un mostro bensì una donna bellissima, anche se ha
una </span><i>backstory</i><span> particolarmente macabra.<br /></span>Scopriamo
Bella con gli occhi dell’ingenuo assistente dottor McCandless (Ramy
Youssef); nel film ritorna per bocca di lei il bisticcio con Candles
(candele), ironica allusione alla luce della conoscenza. Lo shock
della scena del rospo mostra il grande tema narrativo del film, che
si sviluppa a poco a poco: la formazione della coscienza nella
creatura; in questo senso, fra tanti Frankenstein cinematografici,
fra tante versioni e riscritture del mito, quella di Lanthimos è
probabilmente l’opera cinematografica che lo ha meglio compreso. Se
da Mary Shelley in poi lo scopo delle varie versioni è stato di
delineare (certo, spesso per sommi capi) il modo di pensare del
mostro, qui il film crea una cronaca rigorosa e credibile del suo
svuiluppo; quello che appare più geniale, innovativo e
psicologicamente plausibile è di dipingere uno sviluppo ineguale, a
tratti, per cui le preoccupazioni illuministe di Mary Shelley vengono
riprese e concretizzate – anche se in un modo che l’avrebbe
scandalizzata.<br />“<span face="Verdana, sans-serif"><span>Bella
viene dal nulla”, dice God. Il suo sviluppo mentale parte da uno
stadio iniziale tutto aggressività e infantilismo, dal linguaggio
più che elementare, con una golosità sessuale del tutto opposta
alle regole della morale vittoriana (e non solo): “Bella scoperto
gioco gradevole”, annuncia tutta lieta a tavola (le citazioni sono dai sottotitoli della proiezione a Venezia). Lanthimos ha
notoriamente uno sguardo piuttosto freddo, pur con tocchi di <i>pietas</i>,
sulle emozioni umane. Ma Bella, creatura di laboratorio partita da
zero, non è umana in senso stretto – o per meglio dire, è più
umana degli altri. Proprio come Tod Browning, Lanthimos ha simpatia
per i “mostri”.</span></span></span></p>
<p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Senza
che Godwin si preoccupi di fermarla, Bella fugge a Lisbona col
libertino Duncan (Mark Ruffalo). Il film ci scaraventa in un
coloratissimo delirio <i>steampunk</i> (un tardo Ottocento con decisi
elementi futuristici) che raggiungerà i tratti più folli nel
disegno di Alessandria, una delle tappe del lungo viaggio. Quello
spazio-tempo irreale che Lanthimos aveva creato coi grandangoli ne <i>La
favorita</i>, qui è dato dall’ambientazione <i>steampunk</i> attraverso la
CGI.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">A
Lisbona e in seguito, Bella si dedica con innocenza primigenia alla
gioia del sesso e alla scoperta del mondo. Delizioso il modo in cui
il suo linguaggio diventa sempre più preciso ma mantiene un elemento
alieno e straniato (è l’aspetto più divertente del film, che
senza essere una </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>comedy</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> è tuttavia gustosissimo). Questa creatura
uscita da un laboratorio, magari si impaccia sulla sintassi ma ha un
modo tutto suo di introdurre nel proprio discorso precisi termini
medico-scientifici e concetti come “empirico”. Bella non
comprende le metafore e intende tutto in modo referenziale (quando
dopo un’assenza Duncan la rimprovera “Sei sparita”, lei: “No.
Non si può sparire”). Più oltre nell’apprendimento, Bella
prende a usare una sfilza di sinonimi attaccati, come se ciascuno
portasse una sfumatura di significato per cui solo l’insieme riesce
a trasmettere l’idea. Soprattutto, Bella non comprende le norme
sociali che presiedono al linguaggio; non sa mentire: la sua
innocenza è quella dell’herzoghiano Kaspar Hauser. Conseguente
disperazione dell’innamorato Duncan – per la sua totale ignoranza
del </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>background</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> di Bella, la figura di Duncan integra la classica
“condizione ironica” : ovvero, soffre di una mancanza di
</span><span face="Verdana, sans-serif"><i>competence</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> rispetto agli spettatori.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: medium;">Conveniva
accennarne separatamente, ma contestualmente allo sviluppo
linguistico di Bella <i>Povere creature!</i> (scandito in capitoli che sono
altrettante tappe di un percorso sia materiale che interiore) ne
traccia il completo sviluppo intellettuale, morale, anche politico. È
insieme una satira sociale, un manifesto femminista-libertario e una
riflessione sul libero arbitrio (anche questo si può riferire alla
riflessione di Mary Shelley). Bella cresce come autocoscienza in
stadi progressivi, imparando via via, ma sempre mantenendo
un’alterità pressoché anarchica rispetto alle convenzioni della
società, come Gulliver nei suoi mondi alieni; passando dalla
scoperta orrificata della povertà estrema in Alessandria (“Il
denaro è una malattia – e anche la sua assenza”) alla vita alla
vita in un bordello a Parigi, che è un’affascinante riflessione
sul sesso, fino al ritorno a Londra, per un capitolo finale, forse
fattore di minore equilibrio nella tessitura del film ma comunque
necessario allo sviluppo narrativo, completando la <i>backstory</i> e
aprendo alla conclusione. Una conclusione di trionfale liberazione,
in un frankensteiniano giardino incantato, dove Bella decide di
diventare la prima donna laureata in medicina d'Inghilterra. Non è
anche questo – agli occhi del maschilismo vittoriano –
(sanamente) “mostruoso”?</span><br /><br /></span></p><p></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-51348874719589728092024-01-26T01:23:00.000-08:002024-01-26T01:25:11.015-08:00I dipinti di Antonella Peresson in mostra alla Einaudi-Gaspari<p> </p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span style="font-variant: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="letter-spacing: normal;"><span style="font-style: normal;"><span style="font-weight: normal;">I
dipinti di Antonella Peresson non sono mai superfici lisce. Fin dagli
inizi, in cui si vedeva l’influenza di Guttuso, ha sempre posseduto
</span></span></span></span></span></span></span><span style="font-variant: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="letter-spacing: normal;"><span style="font-style: normal;"><span style="font-weight: normal;">una
pennellata densa, pastosa, </span></span></span></span></span></span></span><span style="font-variant: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="letter-spacing: normal;"><span style="font-style: normal;"><span style="font-weight: normal;">sensua</span></span></span></span></span></span></span><span style="font-variant: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="letter-spacing: normal;"><span style="font-style: normal;"><span style="font-weight: normal;">le</span></span></span></span></span></span></span><span style="font-variant: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="letter-spacing: normal;"><span style="font-style: normal;"><span style="font-weight: normal;">:
una </span></span></span></span></span></span></span><span style="font-variant: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="letter-spacing: normal;"><span style="font-style: normal;"><span style="font-weight: normal;">spessa
</span></span></span></span></span></span></span><span style="font-variant: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="letter-spacing: normal;"><span style="font-style: normal;"><span style="font-weight: normal;">materialità
del tratto </span></span></span></span></span></span></span><span style="font-variant: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="letter-spacing: normal;"><span style="font-style: normal;"><span style="font-weight: normal;">che
</span></span></span></span></span></span></span><span style="font-variant: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="letter-spacing: normal;"><span style="font-style: normal;"><span style="font-weight: normal;">dà
un’evidenza tattile all’immagine </span></span></span></span></span></span></span><span style="font-variant: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="letter-spacing: normal;"><span style="font-style: normal;"><span style="font-weight: normal;">e
al gioco ricco del colore. La sua mostra dal titolo “Tracce –
Storia di un percorso di pittura” </span></span></span></span></span></span></span><span style="font-variant: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="letter-spacing: normal;"><span style="font-style: normal;"><span style="font-weight: normal;">alla
Libreria Einaudi-Gaspari in via Vittorio Veneto 49 a Udine ripercorre
una c</span></span></span></span></span></span></span><span style="font-variant: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="letter-spacing: normal;"><span style="font-style: normal;"><span style="font-weight: normal;">arriera
</span></span></span></span></span></span></span><span style="font-variant: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="letter-spacing: normal;"><span style="font-style: normal;"><span style="font-weight: normal;">pittorica
</span></span></span></span></span></span></span><span style="font-variant: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="letter-spacing: normal;"><span style="font-style: normal;"><span style="font-weight: normal;">che
si muove con disinvoltura dal figurativo all'informale. <br /></span></span></span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>Parte</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>dal
figurativo, </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>con</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>l</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>a
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>bellezza
e l’esuberanza dei suoi nudi </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>femminili
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>o
l’</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>inondazione
di una luce calda e meridionale </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>ne</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>lle
sue marine; </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>è
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>una
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>vera
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>pittura
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>degli
elementi, </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>dove
le figure non si inseriscono nel paesaggio ma vi si fondono,
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>diventano</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>
terreno, acqua, roccia, </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>in
una percezione </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #050505;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>p</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #050505;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>á</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #050505;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>nica
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #050505;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>e
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #050505;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>sempre
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #050505;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>fluente
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: #050505;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>dell’universo.</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>Però</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>
questa pittrice </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>carn</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>ale
e solare </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>possiede
u</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>n
lato nerissimo che emerge </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>n</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>ei
dipinti </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>raggruppati
sotto l’ironico titolo “Cuore di mamma”, </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>che
esplorano </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>l</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>’elemento
di orrore implicito </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>(</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>e
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>costantemente
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>negato</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>)</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>p</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>resente
n</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>ella
gravidanza. </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>Quella
ric</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>chezza
della materia, quella natura “</span></span></span></span><em><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span><span style="font-style: normal;">lavica”
</span></span></span></span></span></em><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>del
tratto, viene incanalata nella cupezza del tema, </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>ep</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>pure
per</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>siste,
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>in
una sorta di barbarica ricchezza</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>.<br /></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>Col
tempo la pittura di Antonella Peresson </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>si
avvia sempre più verso forme espressioniste, </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>testimoniate
dai più recenti nudi e marine</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>.
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>Amante
dei cicli tematici, m</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>antiene
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>volentieri
</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>l’aggancio
al referente, ora in forma nettamente figurativa (la serie sulla
malattia e guarigione) ora facendolo </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>deflagrare
in un’</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>esplo</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>si</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>one
di luce e colore, come nei dipinti sulla Divina Commedia. </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>Infine
l</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>’approdo
all'informale le consente di articolare in forme di pura energia il
suo </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>eterno</span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>
innamoramento del colore, </span></span></span></span><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span>fino
alla ricerca metafisica della serie “Polvere di pensiero”.</span></span></span></span></span></span></span></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;"><span style="font-variant: normal;"><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="font-variant-alternates: normal; font-variant-east-asian: normal; font-variant-numeric: normal; font-variant-position: normal;"><span style="color: black;"><span style="font-family: Times New Roman, serif;"><span style="font-size: 14pt;"><br /></span></span></span><i style="font-family: "Times New Roman", serif;">(Messaggero
Veneto)</i></span></span></span></p>
<p align="left" class="western" style="font-style: normal; font-variant: normal; font-weight: normal; letter-spacing: normal; line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<br />
</p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-80248742162371143232024-01-21T07:57:00.000-08:002024-01-21T08:02:14.145-08:00Il maestro giardiniere<p><b>Paul Schrader</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Torna
Paul Schrader! La stella del regista di <i>Hardcore</i>, <i>American Gigolo</i>, <i>Il
bacio della pantera</i>, nonché sceneggiatore (ai limiti del coautore)
di quattro film di Martin Scorsese, si è – a torto – alquanto
offuscata nell’ultimo ventennio, anche per la sua coerenza e la
sua irriducibilità alle tendenze. Il suo ultimo film, <i>Il maestro
giardiniere</i>, è passato alla Mostra di Venezia nel 2022 ma solo
quest’inverno è uscito, un po’ alla spicciolata, sugli schermi
italiani. <br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif">Se
nel precedente <i>Il collezionista di carte</i> si coglieva una difficoltà
a unificare le varie linee, pur se l’insieme produceva comunque un
film ammirevole, <i>Il maestro giardiniere</i> richiama, nella sua tessitura
poetica e coerente, lo Schrader migliore. Paul Schrader ci parla
sempre di solitudine e redenzione, o crocifissione; i suoi
personaggi devono traversare il deserto del passato e della colpa. È
un percorso bressoniano, e ricordiamo l’amore del regista per
<i>Pickpocket</i>, citato esplicitamente nel finale di <i>American Gigolo</i>.
Narvel Roth, il maestro giardiniere eponimo (Joel Edgerton), è un
uomo solitario, segretamente segnato (non solo nell'anima: porta il
suo passato tatuato sulla schiena), che cura con competenza il grande
giardino di proprietà di una milionaria (Sigourney Weaver) che è
anche la sua amante. L’arrivo di Maya, una giovane apprendista con
problemi di droga alle spalle (Quintessa Swindell, provoca una crisi
tanto fra le persone quanto in relazione alla sopravvivenza stessa
del giardino.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">L'artificio
del diario consente un’entrata non invasiva della voce narrante;
ecco l’elemento di consapevolezza di molti personaggi schraderiani:
è produttivo riflettersi in uno scritto. Nel rapporto di Narvel Roth
con Maya – dapprima didattico e amicale, poi amoroso – c’è una
strana connessione di paternità e sessualità: un tema, quello del
padre, centrale in Schrader. Giocato sul peso della memoria, <i>Il
maestro giardiniere</i> è un film psicologico ma teso, non privo di un
lato di suspense e violenza (la “visita” di Roth agli spacciatori
riporta un concetto di moralità western: oltre che Bresson, Schrader
ama John Ford). Detto in margine, non manca l’interesse di Schrader
per il cinema – che, sul piano biografico, scoprì tardissimo – e
i meccanismi della riproduzione (pensiamo ad <i>Auto Focus</i>). C’è
anche, in una corsa in auto nella notte, un’entrata improvvisa di
CGI nel film: lungo i bordi della strada, fiori e piante sbocciano e
fioriscono; poi tutta la strada diventa un prato.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif"><span>Schrader
ci introduce alla filosofia dei giardini: temperare il caos con
l'armonia ma anche introdurre un po’ di disordine dove occorre,
temperare gli opposti. “I giardinieri estirpano le erbacce”:
questa semplice nozione è il concetto base: un faticoso
miglioramento sia nello spazio esterno sia nello spazio interiore,
in un giardino che è insieme molto concreto e molto metaforico.
Anzi, dall’estirpare la malerba alla lotta agli afidi, dal ruolo
del concime alla fioritura delle piante nello stesso momento (alcune
vanno d'accordo, altre si sopportano a malapena), ricorda la poetica
barocca il modo in cui tutta l’attività del giardiniere e e tutta
la vita del giardino trovano una puntuale corrispondenza a livello di
metafora (plurimetaforico, visto che in un’intervista Schrader ha
menzionato il Guardino dell'Eden). Mette conto, qui, ricordare la
grande costruzione architettonica del capolavoro <i>Adam Resurrected</i>,
dove ogni passo, ogni figura, ogni movimento attiva il riconoscimento
di <i>correspondances</i>. Schrader ama la metafora. La sua educazione
calvinista, e quindi biblica, lo ha formato; il suo cinema assume
sempre la forma della parabola. <i>Il maestro </i></span></span></span><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: medium;"><i>giardiniere</i>
è insieme un manuale di giardinaggio e un manuale dell’anima.<br /></span><br /></span></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-37027504132787266862024-01-13T14:32:00.000-08:002024-01-13T14:53:41.758-08:00Perfect Days<p><b>Wim Wenders</b></p><p></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Di
recente è stato rieditato il film di Wim Wenders <i>Tokyo-Ga</i>, del 1985,
in cui il regista tedesco compie una triplice ricerca: della memoria
del maestro giapponese Ozu Yasujiro con le sue immagini “chiare, pulite,
trasparenti”; dell’eredità visiva di Ozu ormai perduta <span style="font-style: normal; font-weight: normal;">nella</span>
Tokyo contemporanea; e infine – la sua ricerca di sempre –
dell’immagine pura, che abbia senso, nel diluvio di immagini
odierno, nell’universo dei simulacri. <br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Col
suo nuovo, splendido film </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Perfect Days</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> Wenders, tornando a Tokyo, ha ripreso in mano il problema
di </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Tokyo-Ga</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> e gli ha dato una risposta affermativa e vincente: sì, è
ancora possibile trovare la purezza dell’immagine. </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Perfect Days</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> </span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">racconta </span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">le
giornate “sempre uguali” di un addetto alla pulizia dei gabinetti
pubblici di Tokyo, un uomo silenzioso, gentile, estremamente dedito
al suo umile lavoro, interpretato da Yakusho Koji. Il signor Hirayama
si sveglia, si lava, esce (la musica è diegetica: le audiocassette
di Van Morrison e Lou Reed che ascolta in macchina), lavora, mangia
in una tavola calda dove il proprietario lo accoglie ogni giorno con
la stessa frase, va al bagno pubblico, torna a casa, stende il </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>futon</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">,
legge, si addormenta; vediamo anche i suoi sogni. A ora di pranzo
Hirayama mangia un tramezzino in un parco (nota come si inchina
davanti a un </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>torii</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> prima di attraversarlo) e fotografa gli alberi,
che sono amici, sentiamo nel film. Nelle sue foto cerca di cogliere
quell’attimo irripetibile della luce che filtra tra le fronde
(</span><span face="Verdana, sans-serif"><i>komorebi</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">). Anche Hirayama cerca di raggiungere l'immagine pura, e infatti ne butta via molte. Il b/n accomuna le foto di Hirayama e i suoi sogni
(leggiamo nei titoli di coda: </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>dream installations</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> di Donata Wenders,
la moglie di Wim).<br /></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Con
quieta intensità nella leggerezza del tocco Wenders traccia i gesti ripetuti della quotidianità
conferendo loro una risonanza sobria e ammirevole che li carica di
significato poetico; il senso ritornante del tempo ha qualcosa dello
haiku nella sua contemplazione dell’esistenza. Un gioco di Hirayama
con la nipote scappata di casa che passa alcuni giorni da lui rende
perfettamente il concetto base della sua vita: lo vediamo quando
giocano a ripetersi “La prossima volta è la prossima volta”
mentre invece “Adesso è adesso” (</span><span face="Verdana, sans-serif"><i>imawa</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>ima</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">). “Adesso è
adesso”: la perfetta concentrazione del tempo nell’istante,
l’assolutezza del momento, nella consapevolezza dell’impermanenza,
entro il grande flusso delle cose. Wenders crea un’opera che Ozu
avrebbe apprezzato (occorre appena ricordare che Hirayama è uno dei
cognomi ritornanti nell’opera di Ozu, che amava usare gli stessi
nomi di film in film); al di là dello spirito, l’influsso di Ozu
si sente in particolare in una scena, quella della canzone della
padrona del bar. </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Perfect Days</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> è una narrazione, ma non nel solito
senso drammaturgico del cinema. È, potremmo dire, un racconto del
non-racconto; qualcosa che Wenders ha spesso cercato, e qui possiamo
citare un altro suo bellissimo film appena rieditato, </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Alice nelle
città</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">.<br /></span>“<span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"><span>Il
mondo è fatto di tanti mondi,” dice con la sua profondità
tranquilla Hirayama alla nipote, “alcuni sono collegati fra loro,
altri no”. Wenders, lo sappiamo, è sempre andato in cerca degli
angeli, e in un certo modo anche Hirayama è un angelo. La sua muta
gentilezza (se può, non parla mai) va dalle piantine che coltiva al
giovane collega rumoroso e scemotto, alla nipote, all’uomo
disperato che incontra nel finale; ma se c’è un episodio che la
esprime con impalpabile delicatezza di filigrana, è quello della
partita a “tondini e crocette” che gioca con uno sconosciuto
attraverso un biglietto lasciato in un interstizio in una toilette.
Si vorrebbero citare tanti altri dettagli e personaggi: perché
questo film in cui sembra che non succeda quasi niente è gonfio di
una incommensurabile vastità.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Quest’uomo
è tutt’altro che privo di emozioni (il cinema wendersiano non è
sempre una riflessione sul rapporto fra l’individuo e le sue emozioni?); ma le esprime solo quando è da solo. Con sorrisi segreti
– o anche con il pianto, come dopo l’incontro con la sorella, o
con il riso e il pianto insieme nel superbo finale in auto. Film
antipsicologico (come in Ozu), tuttavia </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Perfect Days</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> ci dice molte
cose sul suo protagonista. Scopriamo che il signor Hirayama ha un
passato (doloroso) alle spalle; ipotizziamo che forse possa avere
un futuro diverso da quel suo presente continuo. Certi avvenimenti,
come la visita della nipote, portano un cambiamento nella sua vita
quotidiana. Ma questi sviluppi non determinano il racconto del film,
non lo indirizzano, bensì vi vengono assorbiti, con una naturalezza
sempre fluente.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif"><span>Tutta
l’operazione di Wenders non si sarebbe potuta compiere senza
l’interpretazione dell’<i>incredibile</i> (è l’aggettivo che usa
anche Wenders nei ringraziamenti a fine film) Yakusho Koji. Non è
questione che Yakusho sia un ottimo attore: già lo conoscevamo come
tale (<i>The Woodsman and the Rain</i>, <i>Retribution</i>, <i>13 assassini</i>); ma in
questo ruolo quasi muto fa di più. Mette in atto la capacità
particolarissima di creare la comunicazione totale senza proferire
parola, di </span>trasmettere<span> una comunicazione umana assoluta mediante i minimi
movimenti del suo viso: una capacità che lo mette nella stessa
categoria mimica di un Charlie Chaplin.</span></span><br /></span><br /></p><p></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-88332682792814536582024-01-03T09:47:00.000-08:002024-01-03T10:05:24.341-08:00Ferrari<p><b>Michael Mann</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Perché
il bellissimo <i>Ferrari</i> di Michael Mann ci fa pensare a un western
anche se non ne ha le caratteristiche? Perché quei valori fondanti
su cui si è sempre esercitato il cinema classico americano, dal
quale discende Mann, li ha espressi nella forma più pura nel
western: sicché la forma richiama alla memoria il contenuto, in uno
scambio di prospettiva (è questo l’equivoco di molti film
catalogati con l’ossimoro di “western moderni”, come <i>Il
gigante</i>). In Ferrari i temi portanti sono con tutta evidenza quelli,
archetipali, del western: il Patriarca, la Difesa (del ranch o del
<i>cattle empire</i> o qui dell’azienda), l’Eredità, la Gara come
momento di prova della realtà. <br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Ferrari</i>
però è ambientato in Italia, un paese quanto mai avverso al western
(tant’è vero che volendo farne ha dovuto inventarsene una variazione tutta sua, picaresca e barocca). In America non sarebbe possibile la frase di
Ferrarti che l’unica cosa che gli italiani non perdonano è il
successo. Gli americani hanno dei miti fondativi: questo non è
concesso a Ferrari, tanto più che, come molti eroi manniani (il film
concentra il ritratto biografico in un anno di vita del protagonista,
il 1957), vive in un momento di trapasso valoriale: nello specifico,
nell’Italia sul crinale fra la ricostruzione dopo la sconfitta e
gli albori del miracolo economico che ne sarà la rifondazione – e
inoltre in un momento difficile per l’azienda (la scena della
telefonata di Gianni Agnelli).<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Lasciando
da parte <i>The Fortress</i>, che è altra cosa, <i>Ferrari</i> è il film più
“esotico”, nel senso di immersione in una cultura non americana, di Mann. Nota in margine: da notare il bel lavoro sul dialogo
inglese, con l’impiego di termini italiani in misura maggiore del
solito. La sceneggiatura è di Troy Kennedy-Martin. Il film non è inficiato qualche piccola imprecisione di
messa in scena storica (per esempio nel 1957 il celebrante avrebbe
detto “Ite, missa est”, e le sirene nella scena del grande
incidente hanno il suono sbagliato).<br /><br /></span></span></p>
<p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Alla
base del film c’è un uomo (splendidamente interpretato da Adam
Driver, a dispetto di Favino) imprigionato in una doppia coppia dove
lui rappresenta il medio maschile: da un lato la famiglia
istituzionale, con la moglie Laura (Penelope Cruz) che ha anche un
potere economico su di lui, dall'altro la famiglia affettiva con
l’“amante” Lina (Shailene Woodley), in realtà una moglie
parallela, che gli ha dato un figlio che potrebbe sostituire quello
morto. “Ho diritto a un erede”, dice Ferrari. Enzo Ferrari con le
sue due donne non soffre di una scissione – l’uomo di Mann non è
internamente scisso (la scissione semmai è tra lui e la società) –
ma non ha la possibilità di scegliere; questa è la sua condanna, ed
è anche il contrappasso di quel “muro” che (come dichiara nel
film) ha eretto intorno alle proprie emozioni. L’eroe manniano, in
ultima analisi, è sempre solo. Ferrari è un uomo che non parla;
solo davanti alla tomba del figlio morto esprime quella debolezza che
non gli è concesso di condividere con gli altri (nemmeno con l’amata
Lina), raccontandogli quello che accade in una scena di confidenza
commovente come John Wayne ne<i> I cavalieri del Nord Ovest</i>.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif">Individualismo
di Ferrari! Anche in questo è in tutto e per tutto l’eroe
manniano, caratterizzato da un professionismo che spesso confina,
come nel presente film, con l’ossessione. Ferrari è chiuso nella
sua missione, che non è economica – come per la rivale Maserati –
ma sportiva: non gareggia per vendere auto, fabbrica auto per
gareggiare (e c’è qualcosa di più manniano di una corsa su
strada?)<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Se
tutto questo ci ricorda Howard Hawks, è giusto: Hawks è il grande
nome da richiamare quando parliamo di Michael Mann. Del resto, si
potrebbe ricondurre tutta la dialettica interna al cinema epico
americano classico alla dialettica Ford-Hawks. I film di Mann
contengono la vita, che, potremmo dire, “sfugge da tutte le parti”.
Il grande obiettivo della narrazione moderna seguita al classicismo è
di trasmettere questa caratteristica (quella classica la disciplinava
nella <i>reductio ad unum</i> del racconto); e Mann è allo stesso tempo
classico, perché il racconto è per lui l’istanza principale, e
post-classico, perché non manca nel suo cinema l'apertura alla
varietà della vita (e la consapevolezza aperta del linguaggio).<br /><br /></span></span></p>
<p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Sul
piano tematico ritroviamo in <i>Ferrari</i> le categorie di Mann. La
famiglia, di cui abbiamo già detto. Il doppio, qui con la moglie
Laura che appare come doppio imperfetto (mentre per esempio in <i>Heat</i>
si realizzava il doppio perfetto) – e in quanto tale, non può
innestare il momento del <i>riconoscimento</i> che tanta parte ha in Mann.
Il tormento del passato e la potenza della memoria; non a caso è
centrale nel film quel “giardino di pietra” (come direbbe F.F.
Coppola) che è il cimitero, il luogo del ricordo e del rimpianto. Il
tormento del passato non è espresso a parole ma sopportato virilmente,
ancora alla Hawks.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif">E
naturalmente il tema, centrale, della visione: sul quale non mi
soffermo perché posso rimandare a un magnifico articolo di Paolo A.
D’Andrea (al quale sono fortemente debitore), <i>Lo sguardo di
Ferrari</i>, che si può leggere online:
https://www.eccedenzeblog.com/post/lo-sguardo-di-ferrari<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Sul
piano della scrittura ritroviamo naturalmente in <i>Ferrari</i> le
caratteriste stilistiche di Mann, dallo stile di ripresa dei visi
(primissimi piani stretti, dettagli che “tagliano”) al suo uso
del ralenti: in particolare negli incidenti ritroviamo i “ralenti
emozionali” manniani, che giustamente non sono estetici ma
narrativi.<br /><br /></span></span></p>
<p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Esposto
lungo le coordinate del pericolo e del destino, <i>Ferrari</i> è puro
cinema epico. I piloti della Ferrari (più di quelli della Maserati)
sono come soldati in guerra; e infatti, in una scena stupenda, la
notte prima della corsa, come soldati la notte prima della battaglia,
scrivono una (possibile ultima) lettera alle loro donne. Lo stesso
afflato epico si ha in quel solenne “catalogo delle navi” che è
la partenza delle auto, a turno, per le Mille Miglia, nella notte
sotto la pioggia. <br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif">Non
solo nella pagina paurosa dell’incidente, ma lungo tutto il film
aleggia l’ombra della morte. Tutti i film di Michael Mann parlano
della morte; ma è ovvio, perché Mann è un autore umanista, mette
l’uomo al centro; e di che cosa è costituito l’uomo, al di là
della carne? La società idiota contemporanea tende a nasconderselo: ma è costituito di realizzazioni, di memoria, e di finitezza (è la
nostra mortalità ciò che ci rende umani).<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: medium;">C’è
una commovente fragilità nell’aggrapparsi degli eroi manniani al
loro bagaglio di ricordi – appunto perché non sono fordianamente
inseriti nel processo di costruzione di una nazione (pur rendendosi
conto di tutti i suoi limiti) ma sono soli. <i>Ferrari</i> però apre al
futuro concludendosi su una discendenza ritrovata – ove il figlio
illegittimo (che Ferrari potrà riconoscere solo dopo la morte della
moglie) è una prosecuzione del padre, e fissa la sua missione nel
tempo. Avviandosi con lui per la prima volta verso verso la tomba del
figlio morto: “Vieni… ti presento tuo fratello Dino”.</span><br /></span><br /></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-73007802298410770152023-12-25T12:52:00.000-08:002024-01-08T05:48:43.556-08:00Foglie al vento<p><b><span style="font-size: medium;"><span style="font-family: "Times New Roman", serif;">Aki
Kaurismäki</span></span></b></p><p></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Il
cane che compare in <i>Foglie al vento</i>, sentiamo alla fine, si chiama
Chaplin; è giusto, perché il film di Aki Kaurismäki ha la più
chapliniana delle conclusioni. Con gioia ritroviamo l’eroica
sobrietà stilistica di Kaurismäki, la sua umanità, il suo bizzarro
umorismo, reso più risonante dalle espressioni <i>deadpan</i> e dalla
pronuncia distaccata. E naturalmente, la recitazione antipsicologica,
ai limiti dell’impassibilità, che chiede agli attori. <br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">I
protagonisti Ansa e </span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Holappa </span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">(</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Alma
Py</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">ö</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">sti
</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">e</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">
Jussi Vatanen</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">)</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">
</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">sono una replica
contemporanea</span><span face="Verdana, sans-serif"> dell’indimenticabile coppia kaurismäkiana del
passato, Kati Outinen e Matti Pellonpää: due proletari finlandesi,
sfruttati e vilipesi, senza speranza di riscatto sociale, che si
innamorano in mezzo al gelo esistenziale di una Finlandia povera che Kaurismäki
descrive come una specie di inferno temperato</span> (una breve nota ironica è dedicata al libro di Marko Tapio <i>Arctic Hysteria</i>) dove una disperazione
universale ha come agghiacciato le anime – che trovano rifugio
nell’alcool e nel karaoke, ascoltato con volti impassibili. Eppure, in questo deserto spuntano inaspettate rivelazioni di gentilezza d'animo (il collega pieno di bambini e
cani). Intanto la radio continua a raccontare ossessivamente
dell’aggressione russa all’Ucraina e dei crimini di guerra
connessi.<br /><span face="Verdana, sans-serif">Ma
nel cinema di Kaurismäki l’amore è sempre un’ancora di
salvezza. Certo, bisogna raggiungerlo. Tutto cospira contro Ansa e
Holappa: non solo la macchina sociale, non solo (per lui) il richiamo
della bottiglia, ma anche il caso: dal foglietto col numero di
telefono che va perduto al tram che lo investe. Eppure, a volte il
caso può anche essere favorevole: non dimentichiamolo, in Kaurismäki
i miracoli possono accadere (come il cliente affamato – un cameo di
Peter von Bagh – al ristorante aperto dai protagonisti alla fine di
</span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Nuvole in viaggio</i></span></span><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: medium;">). La pagina della lettura per svegliare Holappa dal
coma è superba, di un umorismo surreale e commovente al tempo
stesso. Chaplin non c’è solo nell'ultima inquadratura.<br /><span face="Verdana, sans-serif">Il
racconto di </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Foglie al vento </i></span><span face="Verdana, sans-serif">si rispecchia nel cinema intero. Si vede
una dichiarazione esplicita nell'"Immagino siano sempre stati zombie" del film di Jim Jarmusch </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>I morti non muoiono </i></span></span><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: medium;">che la coppia va a vedere. Di più, i manifesti del cinema
Ritz, che ritorna come luogo di incontro e di ricerca, sono un
mosaico di citazioni affettive di Kaurismäki e di intenti
metanarrativi. Non per caso i due protagonisti, uscendo dal cinema,
si fermano a parlare davanti al poster del crepuscolare <i>Breve
incontro</i> di David Lean; e c’è <i>L’Argent </i>di Robert Bresson,
adeguato per una Finlandia dove sembra valga solo il denaro; si notano l’adorato Godard e l’amaro John Huston di <i>Fat
City</i>; spuntano anche, a riprova dell'amore di Kaurismäki per il
cinema di serie B, il dinosauro gigante (<i>The Valley of Gwangi</i>) e il
volto mefistofelico di Fu Manchu (<i>The Face of Fu Manchu </i>di Don
Sharp).<br />Ma
soprattutto, le canzoni. <i>Foglie al vento</i> non è un musical,
i protagonisti non cantano o ballano, ma in qualche misura lo è:
perché è letteralmente costellato di vecchie, belle canzoni
popolari (e sì, c’è anche<i> Les feuilles mortes</i>, tradotto in
finlandese) che rispecchiano perfettamente pensieri e sentimenti dei
protagonisti: esattamente come in <i>On connait la chanson</i> (<i>Parole,
parole, parole…</i>) di Alain Resnais, le canzoni popolari come
inconscio collettivo.<br /></span><br /></span></span></p><span style="font-family: "Times New Roman", serif; font-size: 14pt;"></span><p></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-48317588229382537732023-12-16T13:04:00.000-08:002023-12-16T13:11:22.589-08:00Un colpo di fortuna<p><b>Woody Allen</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;"></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Quante
volte nel cinema di Woody Allen un avvenimento inaspettato mette in
crisi un equilibrio e fa scoprire al personaggio il suo vero io! In
<i>Un colpo di fortuna</i> è un incontro fortuito. In un viale alberato –
che nella fotografia calda di Vittorio Storaro può ricordare la New
York di Woody Allen, ma è Parigi – si imbattono casualmente Fanny
e Alain, che non si rivedevano da quando studiavano al liceo francese
di New York: questo è un omaggio di Allen alla sua amata città,
neppur necessario sul piano dell’intreccio perché il film si
svolge a Parigi con attori francesi, parlato francese.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Al
liceo Alain (confessa) aveva una cotta per Fanny ma non gliel’ha
mai detto. Ora sono adulti, lui scrive e gira il mondo, lei è
sposata a un riccone in un matrimonio che sinceramente ritiene
felice. Ah, ma Allen ha sempre preso a bersaglio l’inautenticità.
Per quanto si creda innamorata, Fanny vive una vita inautentica,
divisa tra un passato bohémien – si vede quando cerca di rifiutare
un anello prezioso regalatole dal marito – e un presente di signora
raffinata (nonché, malignano gli amici, moglie-trofeo). Fra Fanny e
Alain scoppia l’amore e inizia una relazione, un ingenuo adulterio
che sembra fatto per illustrare il manuale “Come farsi scoprire”.
Infatti il marito innamorato e geloso, Jean, lo viene a sapere. Mala
tempora! Fanny non lo sa ma Jean è una specie di gangster in guanti
bianchi. Il suo lavoro, ha detto a Fanny, è quello di far fare soldi
agli altri in varie maniere. “È legale?” - “Beh… più o
meno” (e lei, convenientemente, non ha chiesto di più).<br /></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Film
minore nella filmografia alleniana ma piacevole, </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Un c</i></span><span face="Verdana, sans-serif"><i>olpo di fortuna</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">
incrocia i filoni della commedia e del giallo. In tal veste è una
riflessione sull’unica forza che – lo sappiamo – per il
rassegnato, ironico nichilismo di Woody Allen governa i destini
umani: il caso. Già lo ha materializzato nella famosa palla da
tennis di </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Match Point</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> in bilico sulla rete. Gustosamente, il film
mette a confronto a distanza le filosofie dei due rivali: Alain
teorizza il potere assoluto della casualità, Jean pensa che ognuno
si fabbrica la propria fortuna. Inutile chiedersi a chi Allen dia
ragione.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Tutto
ciò alla luce di un’ironia trattenuta (il film non è una farsa
come </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Misterioso omicidio a Manhattan</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">) ma che non perdona nessuno. La
stessa Fanny (</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Lou de L</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">â</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">age</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">)</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">
</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">è tanto oca quanto è graziosa e certamente simpatica; per
fortuna ha una madre intelligente (</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Valérie
Lemercier</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">)</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">, e
lettrice di gialli, che non guasta; ma ciò non basta a dissolvere la
suspense dello svolgimento. Il riccioluto Alain (</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Niels
Schneider</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">)</span><b style="font-family: Verdana, sans-serif; font-style: normal;"> </b><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">sembra
un coniglietto di Tex Avery. Quanto a Jean, la grande interpretazione
di Melvil Poupaud riesce a trasmettere sia il sincero innamoramento,
sia l'atteggiamento da marito-padrone che si impone con la dolcezza
(non a caso è appassionato di trenini elettrici: il controllo), sia
un'aria di minaccia hitchcockiana. Sullo sfondo, una buona società
che non si scompone a frequentare un possibile omicida, che si
sussurra sia stato coinvolto anni prima nella sparizione di un suo
socio. Anzi, questo è benvenuto come occasione di gossip.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: medium;">Per
una volta, sarebbe stato più opportuno mantenere il titolo
originale, <i>Coup de chance</i>, per non perdere il doppio senso di <i>chance</i>,
caso e opportunità. Ma in ogni modo, chiamiamolo caso, destino,
<i>ananke</i>, è la fortuna cieca che ci governa… fin da quando, sostiene
Alain e con lui Allen, eravamo spermatozoi.</span><br /><br /></span></p><p></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-39993818319840234342023-12-11T13:19:00.000-08:002023-12-11T13:29:18.618-08:00Il male non esiste<p><b>Hamaguchi Ryusuke</b></p><p></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Con
<i>Il male non esiste</i> Hamaguchi Ryusuke si trasferisce dalla città al
mondo della natura. Siamo così abituati a pensarlo come un autore
urbano che restiamo un po’ colpiti di fronte a questo spostamento,
dimenticando non solo che l’ultima parte di <i>Drive My Car</i> è un
viaggio nelle campagne innevate dell’Hokkaido ma che un richiamo
alla natura ricorre implicito in <i>Happy Hour</i> e perfino ne <i>Il gioco del destino e
della fantasia</i>.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Già
con la carrellata iniziale sotto gli alberi inquadrati dal basso il film impone imperiosamente allo spettatore il proprio
tempo: il tempo reale, ossia, al cinema, il tempo lento. </span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">È</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">
il tempo dilatato della scena all’inizio in cui vediamo il
protagonista Takumi tagliare e poi spaccare la legna; ed è, inutile
osservarlo, il ritmo lento della natura. E la concretezza viva e
tangibile della natura (l’acqua pura di sorgente, il sapore forte
delle foglie di wasabi selvatico) si oppone nel film
all’inautenticità cittadina (discutere attraverso i monitor,
frequentare app di incontri matrimoniali). Ma non si pensi a una
natura retorica, disneyana. </span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">È
</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">potente e terribile.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Nel
film, una compagnia che si occupa di musica e spettacolo, ma che ora
mira ai fondi governativi post-pandemia, progetta di costruire un
</span><span face="Verdana, sans-serif"><i>glamping</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> (glamour + camping: un camping di lusso con tutte le
comodità) nelle vicinanze di un villaggio immerso tra gli alberi. Le
tensioni con gli abitanti emergono verbalmente in un’appassionata
ma composta assemblea (ispirata, dice Hamaguchi in un’intervista,
alla registrazione audio di una riunione realmente accaduta) dove gli
abitanti incontrano due rappresentanti della compagnia. In primo
luogo, la fossa settica inquinerà la falda da cui sgorga l'acqua di
sorgente di cui fa uso il villaggio; e l’acqua è un elemento
centrale del film. Andarla a prendere con un mestolo di legno nel
ruscello tra la neve, per portarla in taniche al ristorante che la
userà per gli </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>udon</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">, ha la calma composta di un rito.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">La
consueta sorprendente precisione psicologica di Hamaguchi delinea la
figura dei due impiegati di secondo piano mandati allo sbaraglio
all’assemblea solo per poter dire al governo che si è parlato con
i locali. Una lunga conversazione in auto (come non ricordare </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Drive My Car</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">) a</span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">pprofondisce la loro realtà intima. Se dapprima la donna,
Mayuzumi, sembrava la più conscia e compassionevole dei due, poi
vediamo che è l’uomo, Takahashi, a tenersi tutto dentro; e questo
esplode in una decisione improvvisa di cambiar vita (su cui Hamaguchi
è delicatamente ironico) mentre lei mostra una sorta di accettazione
rassegnata, che emerge anche dal suo discorso sul fatto che si
aspettava, e quindi non è stupita, di lavorare in un ambiente pieno
di </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>scumbags</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> (questo nei sottotitoli inglesi; quelli italiani, con
leggera enfatizzazione, usano il termine “stronzi”). Ma al centro
del film sta Takumi, il tuttofare del paese, un uomo silenzioso e
introverso, che sembra essere vedovo; dell'assenza della moglie,
presente in fotografie recenti, non viene data alcuna spiegazione: </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Il
male non</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>esiste</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> è un film di ellissi e di mistero (cioè al cento
per cento Hamaguchi), di brusche deviazioni, imprevisti, accenni
lasciati aperti, come la misteriosa ferita sulla mano di Mayuzumi.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Takumi
vive con la figlia di otto anni Hana, che ogni tanto si dimentica di
andare a prendere a scuola, e che istruisce sul mondo della natura.
In una carrellata laterale stupenda vediamo Takumi che cammina nel
bosco, poi la mdp lo abbandona andando avanti fra gli alberi, poi lo
“ritrova” che porta la figlia sulla schiena, insegnandole a
riconoscere gli alberi, spiegandole le tracce dei cervi, mostrandole
la pozza nel laghetto ghiacciato dove vanno a bere. Rispetto alla
natura il film ha un atteggiamento quasi di sospensione estatica,
dove la centralità della musica di Ishibashi Eiko è totale. </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Il male
non esiste</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> in effetti è lo sviluppo di un progetto in cui Hamaguchi
ha illustrato visivamente la musica della cantante e compositrice.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Anche
i primi coloni, i nonni dei presenti all’assemblea, ci viene
ricordato, hanno danneggiato l’ambiente naturale: è nell'ordine
delle cose. Ora il nuovo equilibrio fra uomo e natura che si è
formato mostra incrinature anche prima che arrivi la speculazione del
</span><span face="Verdana, sans-serif"><i>glamping</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">: già all’inizio risuonano infaustamente in distanza gli
spari della caccia al cervo. Hamaguchi è un autore che intesse i
suoi film di ripetizioni, richiami, rime: due volte risuonano gli
spari lontani, due volte compare la carcassa del cerbiatto ferito dai
cacciatori che è andato a morire nel folto. Il film è un lento
costruirsi drammatico, di violenza sottesa, nel quale criptici
“avvertimenti” risuonano come tocchi di campana; alcuni li
comprendiamo retrospettivamente, come il dialogo casuale in auto sul
comportamento dei cervi feriti, altri rimangono chiusi nella loro
autonomia poetica, come il dettaglio di una spina con una goccia di
sangue. Tutto converge verso un potente ed enigmatico finale, dove
con una virata di folle audacia Hamaguchi rovescia (a 15 minuti dalla
fine) l'impianto del racconto. Certo, una piccola sfida
interpretativa allo spettatore la lanciavano anche il finale di </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Drive
My Car</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> e quello del primo episodio de </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Il gioco del destino e della
fantasia</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">. Ma non in modo rivoluzionario come nel presente film; e però
di questo finale ovviamente sarebbe un dispetto parlare.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"><span style="font-size: medium;">Se
non limitandosi a dire che il punto nodale del film, nucleo per
l’interpretazione del finale, viene enunciato durante l’assemblea
del villaggio: “Il problema è l’equilibrio”. Ricordiamo che
l’equilibrio e l’armonia sono un caposaldo della cultura
orientale (come è molto sentito nella cultura giapponese, ma anche
individualmente dal regista-sceneggiatore, il tema dell'assunzione di
responsabilità, adombrato dal discorso del sindaco nella stessa
assemblea). La rottura dell’equilibrio fra uomo e natura si
raddoppia entro il mondo degli uomini come rottura dell’equilibrio
fra gli esseri umani. Facciamo tutti parte della natura – anche se
lo dimentichiamo.<br /></span><br /></span></p><p></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-86847782014990437302023-12-03T06:47:00.000-08:002023-12-03T06:49:45.862-08:00The Old Oak<p><b>Ken Loach</b></p><p></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>La
K del pub “The Old Oak”, nel film di Ken Loach dallo stesso
titolo, è tutta storta, sta per cadere. È, si capisce, la metafora
di un crollo in atto; ma crollo di che cosa? Non dell'Inghilterra
imperiale, che a Loach non è mai piaciuta, ma di un’Inghilterra
operaia, organizzata, grintosa, finita con la chiusura delle miniere.
Quella dei grandi romanzi populisti (prima che questa parola
diventasse una clava che i politici usano per insultarsi l’un
l’altro) come <i>E le stelle stanno a guardare </i>di Cronin, sui minatori
dell’Inghilterra del nord, o <i>Com’era verde la mia vallata</i> di
Llewellyn, su quelli del Galles; o di molto vecchio cinema
britannico, produzioni Ealing ma non solo, dal quale discende Loach. <br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">E’
nell’Inghilterra del nord che è ambientato </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>The Old Oak</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">. Un gruppo
di rifugiati siriani si stabilisce in un paese in declino e viene
fatto segno ad attacchi razzisti: una vera guerra fra poveri che
coinvolge anche l’umanissimo proprietario del pub (l’ottimo Dave
Turner). Con la fine delle miniere, dice Loach, non si è perduto
solo il tessuto sociale ma anche lo spirito comunitario ad esso
sotteso.<br /></span>“</span><span face="Verdana, sans-serif"><span><span style="font-size: medium;">E
se non piangi, di che pianger suoli?” <i>The Old Oak</i> è schematico ma
commovente; alla potente scena finale – in cui quasi tutto il paese
mostra un’imprevista solidarietà ai siriani dopo la notizia di una
morte – bisogna essere insensibili per non sentirsi le lacrime agli
occhi. Va detto che il film sarebbe stato egualmente commovente se il
suo aspetto didascalico non fosse così insistito, in particolare nei
dialoghi. Invero Ken Loach non è più quello di <i>Riff Raff</i>, che era
altrettanto politico senza essere predicatorio. Tuttavia,
l’eccellente uso dei visi e la sobrietà nel racconto dei fatti
(come la morte del cane) bilanciano la didattica con un senso di
autenticità.</span><br /><br /></span></span></p>
<p align="right" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: small;"><i>(Messaggero
Veneto)</i><br /><br /></span></span></p><p></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-88800100605328893022023-12-01T06:49:00.000-08:002023-12-01T07:06:18.880-08:00Napoleon<p><b>Ridley Scott</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Il
dibattito che si è sviluppato fra gli appassionati del cinema circa
gli svarioni storici del (brutto) <i>Napoleon</i> di Ridley Scott mi sembra
– con tutto il rispetto – mal posto. Da un lato, coloro che si
basano su questi svarioni per corbellare il film e il suo autore;
dall'altro, coloro che dichiarano che essi sono irrilevanti perché
un film, come un romanzo, è opera di fantasia. <br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif">Questo
è ovvio. E possiamo anche lasciar subito da parte quelle opere,
potremmo dire, fanta-storiche dove l’ambientazione “storica” è
interamente e volutamente fantastica. Un caso ovvio è <i>Il gladiatore</i>
dello stesso Scott, non meno fantasioso del “griffithiano” preistorico <i>Sul sentiero dei mostri</i> (<i>One Million B.C.</i>, 1940) di Hal
Roach. O dell'Ottocento <i>steampunk</i> di <i>Poor Things</i> di Yorgos Lanthimos,
quanto a questo.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">È
evidente peraltro che questo non è il caso di un <i>biopic</i> dichiarato
come <i>Napoleon</i>, che si troverà inevitabilmente a fare i conti con
l’“enciclopedia” (il complesso di cognizioni preesistenti) dello spettatore.
Ora, andarci a cercare gli errori storici, fare le pulci al film per
il piacere di farlo, è un’operazione oziosa. Prendiamo la sequenza
di apertura: il dettaglio assai criticato che Maria Antonietta,
portata alla ghigliottina, sia giovane e bella, con una foltissima
chioma, mentre in realtà era sofferente, coi capelli tagliati sotto
una cuffia e paurosamente invecchiata (come mostra lo schizzo fatto
sul momento da David), è del tutto ininfluente. E il fatto che nel
film Napoleone sia presente all’esecuzione (in realtà non lo era)
è addirittura positivo, una <i>felix culpa</i>, in quanto fa entrare subito
in scena il personaggio, nel contesto drammatico, e lo lega alla
situazione di apertura.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">È
produttivo, invece, chiedersi quali errori storici (al pari di altri
difetti, naturalmente) incidano sulla riuscita artistica del film e
sulla sua ricezione. Per fare un esempio scherzoso ma chiaro: due
volte Napoleone va, travestito, a spiare le posizioni del nemico.
Ottimo, e non importa se storicamente sia “vero” o no. Però se
nel film lo avesse fatto in bici e travestito da rider, il pubblico
si sarebbe messo a ridere e avrebbe detto: siamo finiti in un film
dei Monty Python.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Un
errore storico, insomma, va preso in considerazione solo quando è un
danno per il film, perché rende oscuro lo sviluppo o lo rende
ridicolo. Un esempio del primo caso è il racconto della battaglia di
Waterloo (già di per sé mostruosamente abbreviato), che non ha
senso perché non si parla della battaglia di Ligny di due giorni
prima, capolavoro strategico di Napoleone, che vi sconfisse i
prussiani e li allontanò. Senza di questo, non si capisce perché i
prussiani tardino ad arrivare sul luogo della battaglia di Waterloo a
dare man forte a Wellington. Avevano dormito fino a tardi?<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Ancor
più danneggia il film, perché lo sposta sul piano dell’assurdo e
quindi del ridicolo, la scena in cui Napoleone monta a cavallo e
guida una disperata carica alla sciabola. Lasciamo da parte il
dettaglio che Napoleone quel giorno soffriva gravemente per le
emorroidi (Scott non lo ha messo nel film perché non lo trovava
delicato): sconsiglio a chiunque sia in preda a un attacco di
emorroidi di partecipare a una carica a cavallo. Ma fa parte
dell’“enciclopedia” minima dello spettatore la nozione che
Napoleone era un generale di artiglieria (il cui posizionamento era
una parte fondamentale del suo genio militare) e non un cavalleggero.
Se fosse andato alla carica combattendo (vediamo nel film la sua
sciabola insanguinata) sarebbe diventato in pochi minuti una delle
decine di migliaia di vittime della battaglia.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">L’assurdità
peggiore di <i>Napoleon</i> è l’età evidente dell’attore protagonista.
Joaquin Phoenix ha quasi cinquant’anni (è del 1974). Nella scena
in cui discute con Barras sull'assedio di Tolone, all’inizio del
film, Barras sembra suo figlio – mentre all’epoca Napoleone aveva
24 anni e Barras 38. Giuseppina Beauharnais aveva sei anni più di
Napoleone, mentre l’attrice che la interpreta, Vanessa Kirby, è
visibilmente più giovane del suo partner.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Così,
il Napoleone di Joaquin Phoenix fa tornare in mente gli amanti di
Verona nel <i>Giulietta</i> <i>e Romeo</i> del 1936 di George Cukor, con Lesley
Howard (Romeo) che aveva 43 anni e Norma Shearer (Giulietta) che ne
aveva 34. Cukor fu costretto di conseguenza a “invecchiare” il
cast, con un Tebaldo, Basil Rathbone, di 44 anni e un Mercuzio, John
Barrymore, addirittura di 54 (il che non gli impedisce di essere il
migliore del cast). Ma in <i>Napoleon</i> l’unico anziano in una parte di
giovane è il protagonista, e quanto si vede!<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Anche
perché, spiace dirlo, l’interpretazione di Joaquin Phoenix è
disastrosa. O intimidito dal compito o mal diretto, l’attore (dopo
averci mostrato un buon Napoleone emozionato all’inizio a Tolone,
la battaglia meglio raccontata del film) attraversa <i>Napoleon</i> con una
rigida inespressività accigliata, che entra in conflitto anche col
tentativo della sceneggiatura di dare una versione “privata”
della vita di Napoleone alternando la storia militare con il suo
amore con Giuseppina. Vanessa Kirby nella parte di quest'ultima è
eccezionale, il che fa solo risaltare la legnosità di Phoenix. Il
momento in cui, costretta al divorzio, nel suo esilio dorato, prende
fra le braccia il figlio di Napoleone e Maria Luisa è un momento
mélo di magnifica espressività.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">In
generale, a rendere così deludente <i>Napoleon</i> è l’incapacità dello
sciagurato sceneggiatore David Scarpa di rendere il
senso storico (e quindi quello logico) degli avvenimenti e
dell’epoca. Che non vuol dire fare un film-saggio. Ci riusciva
perfino, nella sua ottica hollywoodiana romantica e spettacolare, il
vecchio <i>Maria Antonietta</i> di W.S. Van Dyke del 1938. E naturalmente ci
riusciva il folgorante esordio (di argomento napoleonico) di Ridley Scott <i>I
duellanti</i> del 1977. È una lezione di tutti i Napoleone del cinema…
compreso quello di Renato Rascel. Se Scott e Scarpa avessero tolto
qualche minuto al “l’amore non è bello se non è litigarello”
fra Napoleone e Giuseppina in favore di qualche dettaglio militare e
politico sarebbe stato meglio. Napoleone, sembra quasi che torni in
Francia dall’Egitto perché ha scoperto che la moglie lo cornifica.
Il passaggio all’impero è di una velocità desolante.
L’organizzazione dell’impero è assente, dal codice napoleonico
allo stato di polizia (Fouché appare per un secondo, giusto il tempo
di nominarlo). Non ignoro che quella che vediamo è una copia
tagliuzzata e ricucita per la distribuzione cinematografica di una
versione di oltre quattro ore che andrà in tv. Ma è tagliuzzata in
modo grossolano e la vita e la carriera di Napoleone appaiono un
<i>Reader’s Digest</i> accelerato.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif">Ridley
Scott sul piano artistico (non quello commerciale, per sua fortuna) è
solo la pallida ombra dell’autore dei suoi grandi film di fine
secolo; e il suo <i>Napoleon</i> è gonfio e spompato. Anche riguardo all</span><span face="Verdana, sans-serif">e
scene di battaglia, </span><span face="Verdana, sans-serif">che sono
</span><span face="Verdana, sans-serif">larga</span><span face="Verdana, sans-serif">mente</span><span face="Verdana, sans-serif">
giudicat</span><span face="Verdana, sans-serif">e</span><span face="Verdana, sans-serif">
il forte </span><span face="Verdana, sans-serif">del film</span><span face="Verdana, sans-serif">,
</span><span face="Verdana, sans-serif">non solo</span><span face="Verdana, sans-serif">
il grande Abel Gance in <i>Austerlitz</i> </span><span face="Verdana, sans-serif">(1960)
</span><span face="Verdana, sans-serif">– lasciamo </span><span face="Verdana, sans-serif">pur</span><span face="Verdana, sans-serif">e
stare il suo assoluto capolavoro giovanile <i>Napoléon</i> – </span><span face="Verdana, sans-serif">ma
anche</span><span face="Verdana, sans-serif"> l’onesto Sergej
Bondar</span><span face="Verdana, sans-serif">č</span><span face="Verdana, sans-serif">uk
in <i>Waterloo</i> </span><span face="Verdana, sans-serif">(1970) </span><span face="Verdana, sans-serif">hanno
fatto di meglio. Avevano più tempo </span><span face="Verdana, sans-serif">da
dedicare </span><span face="Verdana, sans-serif">alla </span><span face="Verdana, sans-serif">singola
</span></span><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: medium;">battaglia? Certo. Ma
soprattutto, avevano più capacità.</span><br /><br /></span></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-85393159307811446072023-11-26T07:28:00.000-08:002023-11-26T07:32:09.292-08:00La chimera<p><b>Alice Rohrwacher</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Annunciato
nei cinema da un poster ispirato all’Appeso dei tarocchi,
certamente bello ma che non c’entra assolutamente nulla col film (i
cui titoli di testa, infatti, compaiono su affreschi etruschi), <i>La
chimera</i> di Alice Rohrwacher ci porta <span style="color: black;">nel mondo
plebeo dei tombaroli degli anni Ottanta. Una banda sciamannata di
saccheggiatori di tombe etrusche (ingranaggi a loro insaputa d’un
gioco più grande di loro) gravita intorno al protagonista, l’inglese
Arthur, le cui doti extrasensoriali gli consentono di individuare i
sepolcri sottoterra. </span><span style="color: black;">Ci sono due scene
di penetrazione in camere sotterranee che sono molto belli, specie la
seconda, con la meraviglia magica del tempietto inviolato.<br /></span></span></span><span face="Verdana, sans-serif">In
questo film la vita e la morte si intrecciano, nonostante
l’indifferenza cinica dei tombaroli (un teschio antico spaventa
solo due bambini cui viene mostrato) – se non di Arthur. Un filo
rosso (attenzione al finale!) congiunge il presente e il passato, ma
anche i vivi e i morti: un bell'episodio allucinatorio in treno, che
nel suo sviluppo dà profondità al bozzettismo di personaggi che
abbiamo visto a inizio film. Arthur stesso, perennemente depresso e
incupito, ha un piede nella morte: ama ancora la fidanzata Beniamina
che è morta e si rifiuta di ammetterlo.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif" style="color: black;">Fellini
(da <i>Roma </i>a <i>La dolce vita</i>) e Pasolini sono esplicitamente citati nelle
immagini a mo’ di numi tutelari. L’intento artistico </span><span face="Verdana, sans-serif">nel
film appare molto, molto consapevole; </span><span face="Verdana, sans-serif" style="color: black;">si lascia
scorgere con troppa evidenza? </span><span face="Verdana, sans-serif" style="color: black;">Sì, ma
</span><span face="Verdana, sans-serif">entro questo perimetro <i>La chimera</i> è interessante e
attraente. Alice Rohrwacher ha un elemento di “generosità”, </span><span face="Verdana, sans-serif" style="color: black;">nel
senso che adotta senza remore </span><span face="Verdana, sans-serif" style="color: black;">qualsiasi
</span><span face="Verdana, sans-serif" style="color: black;">idea le appaia espressiva in un dato
momento, anche se è destinata a restare un <i>unicum</i> nel film:</span><span face="Verdana, sans-serif">
come quando, una sola volta, un personaggio femminile si rivolge agli
spettatori parlando in macchina, o quando in una scena di litigio, in
soggettiva di Arthur, i contendenti si mettono a ringhiare e mostrare
i denti come cani. Questa libertà espressiva di Rohrwacher può
apparire irregolare (magari ripensando alla costruzione rigorosa
dello splendido <i>Corpo celeste</i>), ma è un merito.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: medium;">Si
ha peraltro l’impressione che Rohrwacher sia miglior regista che
sceneggiatrice: la bellezza e la qualità immaginativa della sua
regia superano i difetti della sceneggiatura, a partire dalla
caratterizzazione alquanto umbratile e a volte troppo ovvia (com’è
prevedibile la scena, laboriosamente preparata, della sua rivolta
sullo yacht!) del protagonista – che un Josh O’Connor forse
perplesso non riesce a vivificare.</span><br /></span></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-5967100070345653182023-11-17T13:50:00.000-08:002023-11-17T13:54:53.753-08:00Misericordia<p><b>Emma Dante</b></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span face="Verdana, sans-serif"><span style="font-size: 12pt;">Ecco
l’aggettivo adatto per il nuovo film di Emma Dante: tellurico. Film
potente per immediatezza e forza della visione, <i>Misericordia</i> è
tratto da una sua opera teatrale ma trasforma l'elemento
astratto/evocativo del teatro nel paesaggio concreto del cinema: il
mare, la montagna, i campi giallastri, la cava di marmo (l’eccellente
fotografia è di Clarissa Cappellani).<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-size: 12pt;">In
un borgo sul mare, vive in casupole poverissime una comunità
prevalentemente femminile. E’ un luogo di prostituzione su cui
regna il bestiale Polifemo (ha un occhio solo); gli uomini sono per
lo più sfruttatori: il magnaccia e i “clienti”. Qui Emma Dante
parla del dolore e della resistenza delle donne. Fra litigi e
rappacificazioni volano sorrisi segreti e motti d’intesa. C’è
un'inquadratura assai bella in cui tutte le donne, immobili, guardano
in silenzio verso l’obiettivo.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-size: 12pt;">A
inizio film, il protagonista Arturo è neonato quando sua madre viene
uccisa. Con un abile uso del gesto di girare su se stesso nel
montaggio di Benni Atria siamo trasportati all'Arturo cresciuto
(Simone Zambelli), un giovane mentalmente disturbato, amico delle
pecore e dei bambini. Vive sull’isola protetto da due donne che
l’hanno allevato, Nuccia e Betta, “zie” e madri sostitutive,
più Anna, una giovane prostituta appena arrivata (la scena in cui lo
sorreggono dopo una crisi epilettica è reminiscente di molte <i>Pietà</i>),
che lo difendono dall’odio di Polifemo.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-size: 12pt;">Ma
ritorniamo all'apertura: la mano della madre che si aggrappa alla
roccia, come a passarle la vita del figlio, e il crollo di pietre
dalla montagna, che precedono la ripresa subacquea del corpo in mare,
si legano all’inquadratura del neonato in una nicchia fra le rocce,
quasi figlio della montagna stessa. Mentre l’acqua preme dal basso
allagando i pavimenti delle povere case, la montagna romba e
minaccia; e scatenerà la sua ira con una frana quando Arturo viene
aggredito nel pre-finale. <i>Misericordia</i> incrocia con successo un
realismo addirittura verista e un sottotesto simbolico e mitico, a
partire dalla <i>correspondance</i> fra la montagna e Arturo. Non è neppure
senza significato che queste donne che lo appoggiano siano tre: la
triade femminile che regge l’esistenza in diverse mitologie.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-size: 12pt;">Si
ha l’impressione che questo film, in cui il dolore umano e la
resistenza delle donne si iscrivono nella “straziante, meravigliosa
bellezza del creato” (parole finali di <i>Che cosa sono le nuvole?</i>), debba qualcosa a Pasolini; e c’è effettivamente almeno una scena
che lo ricorda molto (il gioco fra Arturo e Anna in un intrico di
fili di lana). Ma ancor più il film ricorda, nella sua concretezza e
materialità che non si oppone al substrato mitico, il cinema
“primevo” di Michelangelo Frammartino.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-size: 12pt;">Invero,
rispetto alle opere precedenti di Emma Dante, <i>Misericordia</i> è come
certe gemme con leggere imperfezioni. A parte la musica forse troppo
presente, a tratti (rari) fa capolino un sospetto di “poeticismo”:
pensiamo all’inquadratura “fiabesca” della ragazzina suicida
che dopo essersi gettata in mare si adagia sul fondo con l’acqua
che muove le sue trine – un’inquadratura che ricorda Matteo
Garrone, regista che Emma Dante ammira. Tuttavia, il film è
in genere estremamente controllato, e certe rare e minori svirgolate
poetiche, stante l’ambiente mitico, pesano di meno.<br /></span><br /></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-89493335592200239182023-11-13T06:55:00.000-08:002023-11-13T07:02:51.874-08:00Lubo<p><b>Giorgio Diritti</b></p><p></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span style="font-family: Verdana, sans-serif;"><span>Il
notevole<i> Lubo</i> di Giorgio Diritti, coproduzione italo-svizzera,
presenta una pagina ignota, almeno da noi, della storia d’Europa.
Negli Svizzera degli anni Trenta il governo perseguitava gli Jenisch
(nomadi svizzeri) con una politica di rapimenti legali: toglieva loro
i figli per darli in affido con nomi cambiati in modo che crescano
come “veri svizzeri”. Così sono stati portati via i figli del
protagonista Lubo (Franz Rogowski) mentre lui era richiamato alle
armi (siamo nei Grigioni nel 1939); sua moglie è morta battendo la
testa mentre lottava con le guardie nel tentativo di impedirlo. Più
in là nel film, dopo che abbiamo visto apparire Hitler sullo schermo
di un cinema, un personaggio femminile parla dei bambini “figli di
pederasti, criminali, zingari” e dice che a volte pensa che questi
andrebbero sterilizzati. <br /></span></span><span style="font-family: Verdana, sans-serif; font-style: normal;">Dopo
la disperazione di Lubo alla notizia, assistiamo a un brusco
rovesciamento delle nostre aspettative spettatoriali nei riguardi del
personaggio: nell'ossessione di ritrovare i figli perduti, da
perseguitato innocente passa a omicida (veramente è, questa terra,
“l’aiuola che ci fa tanto feroci”). Con i vestiti, i gioielli e
l’auto della vittima, un ebreo in fuga dal nazismo, Lubo assume una nuova identità, in una disperata ricerca, attraverso l’inganno,
che non si pone limiti morali. Seduce le donne per questa ossessione
(che sostituisce quella, un po’ letteraria, di “seminatore” del
romanzo omonimo di Mario Cavatore da cui è tratto il film).<br /></span><span style="font-family: Verdana, sans-serif; font-style: normal;">Fin
dall’apertura con il teatro di strada del baffuto Lubo truccato e
vestito da donna, appare la caratteristica del cinema di Giorgio
Diritti: una pregnanza che dà autenticità alla messa in scena.
Diritti ha un senso concreto del tempo e dell’atmosfera, ed è
questo che crea l’efficace consistenza del racconto. Citiamo solo
l’ottimo </span><span style="font-family: Verdana, sans-serif;"><i>Il vento fa il suo giro</i></span><span style="font-family: Verdana, sans-serif; font-style: normal;">, che – come il presente </span><span style="font-family: Verdana, sans-serif;"><i>Lubo</i></span><span style="font-family: Verdana, sans-serif; font-style: normal;"> e
altri suoi film – Diritti ha scritto assieme all'eccellente
documentarista Fredo Valla. Nota che la politica del governo svizzero
narrata dal film, a parte la repulsione che la sua crudeltà non può
non causare, tocca in modo particolarmente profondo la sensibilità
degli autori de </span><span style="font-family: Verdana, sans-serif;"><i>Il vento fa il suo giro</i></span><span style="font-family: Verdana, sans-serif; font-style: normal;"> e </span><span style="font-family: Verdana, sans-serif;"><i>Volevo nascondermi</i></span><span style="font-family: Verdana, sans-serif; font-style: normal;">,
caratterizzata da una grande attenzione alle culture locali e alla
marginalità. E’ una </span><span style="font-family: Verdana, sans-serif;"><i>disruption</i></span><span style="font-family: Verdana, sans-serif; font-style: normal;"> culturale, una specie di genocidio
bianco (oggi è la stessa politica dei russi nei confronti dei
bambini ucraini).<br /></span></span><span style="font-family: Verdana, sans-serif;"><span style="font-size: medium;"><i>Lubo</i>
si può definire un film “bivalve”. Lo è sul piano temporale: a
una prima parte nel 1939, compatta, concentrata sulle operazioni del
protagonista alla ricerca dei figli, segue una seconda parte più
dilatata sul piano temporale, che si svolge in diversi periodi lungo
gli anni Cinquanta. Lo è sul piano narrativo: alla prima parte quasi
thrilling o da noir, ne segue una che non manca di un forte aspetto
mélo, quando Lubo cerca di rifarsi una vita con la cameriera
d’albergo Margherita (Valentina Bellè). Da notare che, in questo
film di tre ore, la divisione cade quasi esattamente fra le due metà.
Come vuole la legge del cinema noir (ma vale anche per il mélo: il genere dell’amore impossibile), il peso del passato è destinato a
riemergere dalla nebbia degli anni: <i>Out of the Past</i>. Se delle due la
prima parte è la migliore, anche la seconda è bella; e insieme
costituiscono un’unità necessaria.<br /></span><br /></span></p><p></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0tag:blogger.com,1999:blog-7411611680628810568.post-37268056988292241782023-11-06T10:58:00.009-08:002023-11-06T11:02:40.550-08:00Il libro delle soluzioni<p><b>Michel Gondry</b></p><p></p><p align="left" class="western" style="line-height: 0.71cm; margin-bottom: 0cm;">
<span style="font-size: medium;"><span face="Verdana, sans-serif"><span>Michel
Gondry si è sempre distinto per l’originalità degli spunti su cui
costruisce i suoi film. Citiamo solo <i>Be Kind Rewind</i>, in cui il
gestore di una videoteca, dopo che tutte le videocassette si sono
incidentalmente smagnetizzate, decide di girare nuovamente i film con
mezzi ultra-amatoriali e scenografie disegnate. Non è però
altrettanto bravo, Gondry, sul piano strettamente narrativo. Al
carattere fulminante e affascinante delle sue “forme brevi”
(videoclip e spot) si oppone, nei lungometraggi, un certo <i>fluere
lutulentus</i>, per dirla con Orazio, che indebolisce la brillantezza
dell’idea.<br /></span></span><span face="Verdana, sans-serif"><span>Ne
<i>Il libro delle soluzioni</i> (film, dice Gondry, parzialmente
autobiografico), Pierre Niney interpreta con trasporto il giovane regista Marc
Becker, il quale litiga con i produttori che detestano il film che
sta girando e vogliono intervenire. Prima che se n’accorgano,
raccoglie tutto il materiale e se la squaglia, con la montatrice e
altri tre collaboratori, rifugiandosi per finire il film in campagna
dalla vecchia zia Denise (Françoise Lebrun, di recente rivista da giovane nella </span>riedizione<span> del capolavoro <i>La Maman et la putain</i> di Jean Eustache). Già mentalmente
instabile, Marc fa una scelta
pericolosa: smette di prendere i suoi medicinali.</span></span><br /><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Sembrerebbe
la vecchia storia “arte contro commercio”, ma non è tanto questo
tradizionale rovello del cinema che sembra interessare a Gondry
quanto il concetto di un uomo dal cui cervello sprizzano idee in
libertà, una volta che è uscito dalla </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>comfort zone</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;"> costituita dalle medicine. Non per nulla il protagonista sta scrivendo il </span><span face="Verdana, sans-serif"><i>Libro
delle soluzioni</i></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">. Marc fa ammattire tutti, zia compresa, col suo diluvio di idee
“geniali”, che spesso mostrano una tendenza a evadere dal film su
cui lavora; e ve ne sono di divertenti, come il “camiontaggio”, un
camion che serve da apparecchio per il montaggio del film, manovrato
girando il volante e così via.<br /></span><span face="Verdana, sans-serif" style="font-style: normal;">Idee
più tempestive dal punto di vista produttivo, ricevute dalla
troupe fra scetticismo e disperazione, sono montare la storia al
contrario (però questo l’ha già fatto Gaspar Noé) oppure
occuparsi del commento musicale senza saper né scrivere musica né
dirigere un’orchestra (però gli va bene: riesce a ottenere Sting,
che lascia un segno forte nel film apparendo in prima persona).<br /></span><span face="Verdana, sans-serif"><span>L’</span>intoppo<span>, francamente, sta nel personaggio, che sembra un esercizio di </span>autoindulgenza<span>. Prepotente, presuntuoso, paranoico, l'aggressivo Marc passa sugli altri come un bulldozer viziato da piccolo, tra scatti infantili, prepotenze intollerabili e un uso molto disinvolto della </span>memoria<span>. Avrà pure la giustificazione della scelta di
rinunciare alle medicine (non è uno spoiler rivelare che, quando
alfine decide di riprenderle, diventa più umano); tuttavia, potrebbe
vincere un premio per il personaggio più antipatico del cinema
francese fin dai tempi dell’editore Batata ne <i>Il delitto del signor
Lange</i> di Jean Renoir, 1936.</span><br /></span></span><br /></p><p></p>giorgioplachttp://www.blogger.com/profile/02917540604739438662noreply@blogger.com0