martedì 18 marzo 2014

Alain Resnais 1922-2014


Abbiamo perduto Alain Resnais a 91 anni, quando aveva appena presentato un film a Berlino e pensava al prossimo (“Finito un film mi butto subito a un altro progetto”, dice in una vecchia intervista. “Sono ossessionato dal tempo che passa e che perdiamo”). Ora qualcuno potrebbe dire che è morto uno di quei grandi vecchi del cinema che nelle loro ultime opere trasfondono maestosamente la saggezza profonda dell'età avanzata... come Kurosawa, De Oliveira, Eastwood. Niente di tutto questo. Con la morte di Resnais perdiamo un geniale giovane rompicollo.
Perché giovane Resnais lo è sempre stato. Era un assoluto rivoluzionario, ma che non aveva bisogno di gridare, anzi faceva un cinema mosso eppure sottilmente quieto – perché la sua rivoluzione andava ben più in profondità.
Se in generale il cinema è legato a una consecutio narrativa e temporale, Resnais la frantuma. Porta il cinema nei territori della mente – del gioco delle suggestioni e dei ricordi, dell'incrociarsi febbrile di sogno e realtà (Providence), dell'inconscio e dell'inconscio collettivo, del peso simbolico delle parole e dei nomi, del gioco combinatorio del caso (Smoking/No Smoking), della memoria in lotta col tempo.
Il tempo, già. Resnais non ci crede, al tempo. Presente, passato, futuro si fondono in una linea retta (La vita è un romanzo). Quello di Resnais è un cinema sulle emozioni umane (“Tutti i miei film, almeno quelli di fiction, non sono stati altro che concepire degli shock emotivi e dar loro un seguito”); ma anziché farle emergere in forma drammaturgica da uno svolgimento narrativo basato su una consequenzialità logico-temporale (cinema-teatro) ci porta dentro il pensiero dei personaggi: il suo è, com'è stato giustamente definito, un “cinema del cervello”, si svolge in una dimensione mentale. Resnais rifiutava la definizione diffusa di cineasta della memoria e preferiva parlare di coscienza.
E' interessante che nel suo cinema ci sia spesso una sorta di “istanza esterna” a cui riferirsi. Per esempio le teorie dello scienziato Henri Laborit in Mon oncle d'Amérique. I due gatti del suo fumetto che appaiono come visioni al protagonista fumettista di Voglio tornare a casa! Il romanzo in fieri di Providence. Quel vero inconscio collettivo culturale che è il cinema popolare, nella presentazione dei personaggi di Mon oncle d'Amérique, o sono le canzonette in Parole, parole, parole... O magari lo schema teatrale dei testi di Alan Ayckbourn (Smoking/No Smoking, Cuori) o di Henry Bernstein (Mélo). Nota però che questa istanza esterna non è mai definitiva e risolutiva (neanche Laborit). E' un punto fermo in un'opposizione, un paradosso. Niente determinismo per Resnais, niente soluzioni, solo questioni aperte. Pensiamo al tardo (2009) e stupendo Gli amori folli, film il/logico che in realtà pone una super-logica, esempio di un cinema-labirinto della compresenza di tutte le possibilità.
Mentre il cinema di tipo narrativo-teatrale si basa sulla determinazione causale dell'intreccio e sull'esclusione logica (A non è non-A), il cinema di Resnais è una forma aperta alle infinite possibilità, a una pluralità di dimensioni e di contaminazioni (e sempre più negli anni si era stabilita una vena di delizioso humour). Non fa meraviglia che Resnais fosse avido lettore, esperto e collezionista di fumetti.
Nel suo cinema, si realizza l'incrocio paradossale di uno stile rigoroso e ineccepibile con la massima apertura ai vari materiali e la massima disponibilità nel momento “avventuroso” delle riprese. Il montaggio è il momento in cui il maestro forma questa sintesi paradossale fra la libertà e lo stile.
Alla fine di Providence il vecchio scrittore morente dice a se stesso: “Credo ci sia tempo per un altro sorso”. Qui non è difficile vedere un valore metaforico. C'è ancora un po' di tempo da vivere, un libro da finire, un sorso di vino da bere. Ma questo si può applicare a tutta l'opera di Resnais: un gusto di filmare, di sperimentare - una golosa curiosità.
(Il Nichelino)

domenica 9 marzo 2014

Snowpiercer

Bong Joon-ho

Un treno è un segmento. Al suo interno si conosce un solo movimento, avanti o indietro. Ecco allora che costringere l'azione di un film tutta dentro un enorme treno fantascientifico, da cui non si può scendere perché intorno c'è il nulla, significa incanalare l'azione lungo un'unica linea – il che ne amplifica l'effetto simbolico e psicologico, in una sorta di idraulica delle emozioni.
Così nell'emozionante e visionario Snowpiercer, del coreano Bong Joon-ho, l'ascesa dei rivoltosi dalla coda alla testa del treno, scandita in tappe drammatiche dalla divisione in vagoni assai diversi tra loro, assume particolare risonanza nella sua natura di progressione - verso il trionfo e la morte.
L'idea di partenza è una divertente frecciatina contro l'ecologismo contemporaneo. I governi hanno avuto la bella pensata di diffondere nell'atmosfera un gas che dovrebbe abbassare la temperatura per risolvere l'effetto serra. Funziona anche più di quanto dovrebbe: crea una nuova era glaciale che distrugge la vita sul pianeta. Diciassette anni dopo, gli unici superstiti (per quel che se ne sa) vivono su un lunghissimo treno, un'“arca sferragliante” che corre eternamente su una linea ferroviaria circolare tutt'intorno alla Terra.
Ma su questo treno le differenze di classe vanno ben al di là della comodità dei posti. Nei vagoni di coda, sovrappopolati e senza finestrini, si accalca un'umanità miserrima e pezzente, nutrita con tavolette di proteine ricavate dagli insetti; nei vagoni di testa si godono la vita i ricchi; a capo di tutto c'è la “Sacra Locomotiva” guidata da Wilford, il costruttore del treno. L'oppressione è violenta; non a caso gli elmetti delle guardie ricordano gli elmi dei soldati nazisti, e in generale il film è un'allegoria del totalitarismo (vedi la sequenza dei bambini fanatizzati nel vagone-scuola). Guidata da Curtis (Chris Evans), scoppia l'ennesima rivolta: un gruppo di ribelli si fa strada sanguinosamente verso la locomotiva, in scene di una crudeltà molto coreana: il tasso di morte e di dolore nel gruppo protagonista è assai superiore a quanto ci aspetteremmo in un blockbuster americano. E' un'ascesa dall'inferno degli umili al paradiso festaiolo dei potenti, scandito da momenti di scoperta stupefatta: il vagone-giardino con gli aranci, il vagone-acquario con un pasto di sushi. Fino all'epilogo, Snowpiercer sotto l'elemento fanta-avventuroso è una satira sociale.
Incontro cinematografico fra Oriente e Occidente, Snowpiercer è sceneggiato dal regista e da Kelly Masterson (Onora il padre e la madre), dalla graphic novel Le Transperceneige di Jacques Lob, Benjamin Legrand e Jean-Marc Rochette. L'idea di base potrebbe sembrare azzardata, ma come sempre la credibilità è questione di messa in scena; e questo cronotopo, o universo/situazione, è costruito su un realismo spietatamente logico (collabora a renderlo credibile il grande lavoro scenografico del production designer Ondrej Nekvasil). Il film si regge su un'eccellente caratterizzazione dei personaggi, come il genio drogato delle porte (l'attore coreano Song Kang-ho) che è il solo a comprendere che la soluzione non sta nel conquistare il treno ma nell'uscirne, e il solo ad aver notato negli anni che la neve sta lentamente diminuendo. Lo stesso protagonista Curtis è inusuale nella sua caratterizzazione: si porta dietro dei peccati che vanno ben al di là del solito carico romantico alla Jena Plissken, e li pagherà nel finale in un contrappasso karmico.
Bong Joon-ho, un nome ben noto a tutti gli estimatori del cinema coreano, è un cineasta molto fisico. Una costante del suo cinema è l'antipatia per l'autorità costituita (cfr. Memories of Murder, The Host, Mother), espressa solitamente nella dimensione dell'ironia, nonché la solidarietà ribelle fra gli umili, come per esempio la famiglia di poveracci di The Host. Tutta la sua opera è caratterizzata da un gusto per il particolare bizzarro e al tempo stesso realistico (nota qui lo shock dei ribelli quando, avendo conquistato un vagone, per la prima volta vedono la luce del giorno da un finestrino) e da un controllato humour grottesco: il perfido Ministro Mason, interpretato da una Tilda Swinton autoparodistica, offrendo di collaborare dopo essere stata catturata si toglie la dentiera come un pegno di pace; oppure la scena in cui occorre della luce (perché si combatte al buio e i nemici hanno visori a raggi infrarossi) e dal fondo del treno arriva una torcia che passa di mano in mano in una staffetta che richiama direttamente la torcia olimpica.
Nella fotografia di Hong Kyung-pyo, le inquadrature esterne di un mondo gelato, benché desolanti, giocano con la luce e lo spazio aperto in contrapposizione all'elemento costretto e claustrofobico del treno. L'ascesa rivoluzionaria culmina nell'incontro col capotreno Wilford (Ed Harris) e le sue teorie: il treno è un ecosistema chiuso e occorre un dominio assoluto. “Hai visto cosa fanno gli uomini senza un capo: si divorano a vicenda... Tu puoi salvarli da loro stessi”. Come ogni altra distopia, Snowpiercer tratta in forma di finzione narrativa la grande questione posta nel Novecento dal nazismo e dal comunismo: gli uomini devono essere liberi, a rischio di scatenare il loro potenziale autodistruttivo, o è meglio che qualcuno pensi per loro?
A questo punto si consiglia a chi non ha ancora visto il film di smettere di leggere: è inevitabile, per discutere di Snowpiercer, svelarne la struttura, e quindi pagare lo scotto di uno spoiler definitivo. La rivelazione del film non è tanto che Wilford offra a Curtis il proprio posto alla guida del treno: questo è un vecchio topos della fantascienza, scalare la piramide oppressiva per vedersi proporre il ruolo di nuovo reggitore “dietro la macchina”. E' che c'era Wilford, tramite un complice, dietro la rivolta, da lui progettata come le precedenti (impossibile qui non ricordare che Ed Harris era il regista-demiurgo di The Truman Show). Il motivo è freddamente logico: l'ecosistema del treno ha bisogno di far calare periodicamente la popolazione, così i padroni del treno organizzano delle rivolte da schiacciare. Qui appare chiaro un rimando nascosto ma a ripensarci evidentissimo: Snowpiercer è fortemente debitore a Metropolis di Fritz Lang.
Con la differenza - a parte ovviamente il livello estetico perché Lang è un gigante - che mentre Metropolis, sulla scorta dell'ideologia di Thea von Harbou, finiva con la riconciliazione fra capitale e lavoro, per Bong Joon-ho non c'è soluzione se non attraverso una palingenesi totale. In un abbagliante finale aperto, che lascia l'incertezza sul destino di tutti i personaggi salvo due, una donna e un bambino si allontanano nella neve - in cui è ritornata la vita: in lontananza vedono un orso bianco, come fosse un'apparizione divina (un giapponese direbbe un kami) che porta un raggio di speranza.