Un
affare di famiglia è un titolo un po' anodino per Shoplifters
(“I taccheggiatori”) ma, come è stato osservato, ha il
merito – voluto o casuale che sia – di riprendere il termine
“famiglia” presente nel titolo originale giapponese Manbiki
kazoku (“Una famiglia di taccheggiatori”); e così riporta
alla luce il tema cardine di Kore-eda Hirokazu, la famiglia appunto.
Su di essa Kore-eda riflette in tutto il suo cinema, dal bellissimo
Little Sister al meno bello Father and Son, dai due
grandi “film gemelli” Still Walking e Ritratto
di famiglia con tempesta allo sconvolgente Nobody Knows.
Che
cos'è la famiglia? Come funziona e come la si può definire? Per
Kore-eda la famiglia è una tessitura di rapporti umani cementata
dall'interazione e dalla memoria, più che dalla consanguineità; e
più che mai in questo ultimo film Kore-eda ci dice con assoluta
radicalità che la famiglia è una scelta. Qui si parla (va da
sé che la presente recensione va letta dopo la visione) di una
famiglia che vive nell'illegalità: integrano la pensione della nonna
– da continuare a riscuotere anche dopo che è morta – e il magro
stipendio della madre Nobuyo con i furtarelli nei negozi compiuti dal
padre Osamu e dal bambino Shota (la figlia maggiore Aki ha come
mestiere di “scuotere le tette” in un locale erotico ma i suoi
guadagni sono per lei). Solo alla fine del film ci viene rivelato che
in realtà questi personaggi non sono imparentati; e tuttavia “fanno
famiglia” molto più di tanti altri. “Se sei stato tu a scegliere
– sentiamo – il legame è più forte”. Per inciso, ho avuto la
fortuna di poter vedere il film in originale sottotitolato, sfuggendo
alla deprecabile pratica del doppiaggio.
Dunque
al centro c'è l'opposizione fra due realtà: l'ufficialità
“anagrafica”, che può contenere, come nel presente film, la
freddezza e l'abuso, e il calore di un comunità formatasi per il
gioco del caso e della scelta (non è dissimile il problema che
angosciava i protagonisti di Father and Son). Più ancora che
di famiglia formale e famiglia sostanziale, potremmo parlare, con una
terminologia di tipo religioso, di famiglia morta e famiglia vivente.
In
questo film quietamente drammatico è la prima a trionfare mentre la
seconda resta, peggio che negata, sconosciuta a tutti. Vedi le figure
dei due giovani poliziotti che già dalla fisionomia comprendiamo
essere profondamente umani – eppure senza saperlo sono agenti del
male mentre sono convinti di essere agenti del bene. Nota in margine:
già nel superbo The Third Murder, inedito in Italia, avevamo
intuito in Kore-eda un sottile elemento dostoevskiano.
Al
cuore del film sta la descrizione “impressionistica”, a calde
pennellate, della famiglia vivente. Guardiamo la scena in cui Osamu e
Shota trovano la piccola Juri lasciata da sola in un appartamento e
impietositi la portano via: dopo il campo/controcampo in soggettiva
attraverso la finestra dell'appartamento (lo sguardo è imprigionato
e costretto in inquadrature pesantemente incorniciate dalle imposte),
si passa alla libertà dell'occhio nella casa disordinata e affollata
della famiglia. Dove l'accumulo di oggetti e persone non è solo un
dato “sociologico” ma rappresenta plasticamente quella condizione
di calore umano rappresentato (e, inutile dirlo, si contrappone
all'ordine spaziale più “astratto”, con un maggiore ordine e una
prevalenza del vuoto, che siamo abituati a vedere nelle case del cinema
giapponese).
“Desideravo
mostrare la poesia degli esseri umani”, ha detto Kore-eda; come del
resto tutto il suo cinema, Un affare di famiglia sviluppa una
narrazione di commovente autenticità e sensibilità. Non che
naturalistico, Kore-eda è addirittura pudico nell'esprimere la
condizione di bambina abusata di Juri attraverso il dialogo e altre
spie indirette (il modo in cui all'inizio ripete ossessivamente Gomen
nasai, “Chiedo scusa”). C'è il solito umorismo gentile in
filigrana; e si può notare una maggiore franchezza sul piano
sessuale (anche correlata a questa situazione di affollamento senza
privacy). Inutile dirlo, sono splendide le interpretazioni. Citando
solo i più famosi: la sublime Ando Sakura (Nobuyo), Lily Franky
(Osamu) e Kiki Kirin, recentemente scomparsa, che illumina il
ruolo della nonna.
In
correlazione al tema della famiglia, Kore-eda è un regista della
memoria. Riflette su come la nostra percezione degli altri, in
particolare dei familiari, si fissi in base alla nostra storia, che
pesa sulle nostre emozioni e su come ci rapportiamo al mondo (“Se
uno cresce pensando di non essere stato voluto, non può diventare
una persona amorevole”). In questo senso, nella famiglia del film
gli adulti sono più sicuri, una personalità già fissata li
indirizza e li dirige. Chi si inserisce facilmente è la bambina di
cinque anni, Juri/Yuri/Rin (la pluralità di nomi rispecchia la sua
condizione mutevole), perché la sua memoria è più plastica:
può mettere da parte gli abusi sofferti dalla famiglia “vera” e
lasciare che si annullino nel flusso del presente; è il presente che
nella sua felicità è creatore di memoria (il disegno della gita al
mare). Mentre il personaggio più angosciato è il ragazzino Shota,
che attraversa quel periodo preadolescenziale – anche sessualmente,
con le prime erezioni e i primi desideri – in cui si forma la
personalità.
La
narrazione di Kore-eda è, qui come altrove, di tipo carsico, con
autentiche emersioni del racconto. Delle battute assumono il
loro vero significato magari molto più tardi nel film. Ovviamente
tutti i film hanno una backstory destinata a esplicitarsi
nello svolgimento; sempre, in questo grande autore, ma in particolare
in Un affare di famiglia il modo in cui essa emerge è
un capolavoro. Sotto ogni personaggio del film c'è una storia che ne
richiederebbe un altro; anche quella di personaggi in teoria minori,
come la giovane Aki, ci viene rivelata di scorcio con effetto
indimenticabile.
Nella
maggior parte dei suoi film recenti Kore-eda è (definizione un po'
meccanica ma non ne trovo un'altra) non-drammaturgico. Il
quieto agire dei personaggi, l'accumularsi di fatti quotidiani in un
nocciolo di tempo: Kore-eda delinea la fluidità della vita
quotidiana senza preoccuparsi della classica struttura drammatica per
cui a una crisi segue uno sviluppo nello svolgimento (altro motivo
per non connetterlo a Ozu, come spesso si fa, bensì a Naruse). In Un
affare di famiglia, questi “noccioli di tempo” corrispondono
al momento centrale, e prevalente, del film; mentre si ritrova
l'elemento della svolta drammaturgica, parzialmente all'inizio
(la decisione di prendere con sé la bambina) ma soprattutto nella
soluzione, che rappresenta il classico punto di crisi (aperto
dalla fuga di Shota) da cui procede il dénouement. Così, Un
affare di famiglia si avvicina più a Nobody Knows (che
era basato su un fatto di cronaca) che a Little Sister.
E'
una crisi destinata a una ricomposizione? Kore-eda ama le conclusioni
aperte, che del resto procedono come una necessità dal suo modo di
fare cinema. Questo però può forse essere valido per il bambino
Shota ma non lo è rispetto alla piccola Rin – il cui primissimo
piano finale, con l'impassibile segretezza infantile sul volto,
possiede una disperata oggettività per la quale ci si sente di
richiamare il rosselliniano Germania anno zero.