Saverio Costanzo
“La solitudine dei numeri primi” è francamente un film fallito; ma si tratta di un nobile fallimento. Vale a dire che nel concretizzare questo progetto ambizioso il regista-sceneggiatore Saverio Costanzo ha percorso un lungo tratto di strada, con coraggio e capacità; anche se il risultato finale non convince, non fa sfigurare Costanzo come uno dei migliori giovani registi italiani.
Tratto dal romanzo di Paolo Giordano, che ha anche contribuito alla sceneggiatura, il film esplora l'universo dolente di due giovani traumatizzati in età infantile. Mattia da bambino ha abbandonato su una panchina la sorella handicappata psichica, vergognandosi di portarla con sé a una festa, e poi non l'ha mai più ritrovata; Alice da bambina è stata costretta dal padre stupido e ambizioso a sciare su una pista pericolosa ed ha avuto un incidente rimanendo zoppa. Ferite dell'anima e ferite del corpo che si scambiano: Mattia trasferisce il suo dolore nel corpo mediante l'autolesionismo; Alice ha sviluppato la sua lesione fisica come una ferita interiore; entrambi vivono una vita di disadattamento e solitudine. Costanzo non rifugge dal naturalismo: la magrezza anoressica del corpo di Alba Rohrwacher (Alice), il moccio che cola dal naso di lei (nel film c'è uno strano doppio registro dei fluidi corporei: il moccio si mostra, il sangue no; la scena della ferita alla mano lo nasconde fuori campo, quella – ben disturbante – del taglio della pelle tatuata va subito in ellissi).
La trama consta di quattro linee temporali: un “racconto primo” nel 2001, interlineato con una doppia serie di flashback dei protagonisti bambini (1984) e adolescenti (1991), più un epilogo nel 2008. Il paradiso del montatore: e infatti il montaggio del film è efficace nel saltare da un tempo all'altro, con rime, incastri temporali, falsi raccordi.
C'è molto di bello ne “La solitudine dei numeri primi”. La regia di Costanzo è raffinata, ben sorretta dalla fotografia di Fabio Cianchetti (foto elegante e imperativa, ottima costruzione dell'inquadratura) e appunto dal montaggio della “bellocchiana” Francesca Calvelli. Meno forse da una musica a volte troppo presente. Diverse pagine sono vigorose e persuasive. Vedi l'apertura con la recita dei bambini in costume, e la mdp che procede, intenta, e rivela l'espressione selvaggiamente impaurita della bambina-albero; poi quando ella rovina lo spettacolo mettendosi a urlare, e il fratello la prende per mano, vediamo gli sguardi smarriti di entrambi davanti alla platea di spettatori. Oppure, più tardi, le cupe scene del disastro che sta per abbattersi sulla vita dei due bambini - ovviamente in montaggio parallelo, con un uso drammatico della macchina a mano - realizzano un'atmosfera di orrore che è impressionante e coinvolgente. Una notevole specialità di Saverio Costanzo è l'intensità dei visi. Nella bella sequenza del matrimonio di Viola, mentre risuona un lugubre valzer (appropriatamente Costanzo ha scelto il “Valse triste” di Sibelius), osserviamo i protagonisti e gli invitati: è dai tempi di Fellini, oserei dire, che non si vedeva nel nostro cinema un simile lavoro sui volti. Memorabili qui Mattia e Alice, adulti, che – dopo la confessione del primo alla seconda e il bacio – entrano nella stanza tenendosi per mano e sembrano loro gli sposi (non per niente loro, che sono i fotografi, vengono fotografati!).
Queste scene, o altre parimenti riuscite, compongono indubbiamente un'opera notevole. Purtroppo ciò non vuol dire coerente. A pagine convincenti si contrappongono altre assai inferiori per riuscita estetica e forza narrativa. Basta citare il goffo dialogo fra Alice e la voce dell'ex marito Fabio nella segreteria telefonica (dove si ricade nel peggio del cinema italiano) o la sciocchezza immediatamente seguente dell'entrata di Fabio in casa con lei nascosta sotto il tavolo. Una cosa strana del film è la sua involuzione progressiva: peggiora a seconda che il tempo narrativo si avvicina al nostro: la parte 1984 è meglio di quella 1991 che è meglio di quella 2001 che è meglio di quella 2008. In linea generale la terza sezione in ordine cronologico sembra meno consistente rispetto alle altre due, mentre quella 2008 è francamente brutta.
Perché accade questo? Si deve mettere in rilievo, nel film, l'opposizione fra il buon lavoro di regia e il livello talvolta mediocre della sceneggiatura (è una tradizione italiana, purtroppo). Le psicologie dei personaggi secondari nel film non emergono chiaramente (l'amica-nemica Viola) oppure sono caricaturali (il padre di Alice); anche una figura importante come il medico Fabio, poi marito di Alice, rimane un personaggio anodino. Il dialogo appare a volte forzato, poco credibile, troppo evidentemente funzionale allo sviluppo del plot. Per esempio una buona scena in cui Mattia bambino gioca al chirurgo con un giocattolo di moda in quegli anni, e arriva la sorella, viene danneggiata dall'irruzione della madre descritta in modo troppo didattico. Capita così spesso nel nostro cinema che un personaggio sembri un cretino o un pazzo non perché lo sia a livello diegetico ma perché la sceneggiatura non ha saputo dare veridicità al suo agire o al suo dire.
In alcuni casi Costanzo regista risolleva l'opera di Costanzo e Giordano sceneggiatori: la scena di bullismo femminile contro Alice è banale, ma viene nobilitata dall'efficace gioco di espressioni e di sguardi. Fatto sta, questa spirale dialettica comporta un ulteriore avvitamento, in quanto i limiti della sceneggiatura portano a volte la regia a soluzioni corrive, come quella del clown interpretato da Filippo Timi: l'idea di inserire in una sequenza d'angoscia infantile (che si regge bene da sola) un clown maligno squadernato sullo schermo con la più banale delle scelte di inquadratura e illuminazione è un'ingenuità che non ci si aspetterebbe da Costanzo, un momento di perdita di autocontrollo artistico.
Così “La solitudine dei numeri primi” risulta un film alterno. Ma in una cinematografia che considera importante robetta di infimo ordine come “La Passione” di Mazzacurati, avercene di film così.
mercoledì 29 settembre 2010
domenica 26 settembre 2010
Mordimi
Jason Friedberg e Aaron Seltzer
Alcuni recensori dei quotidiani – di quelli che disprezzano i film di vampiri, e non distinguerebbero un vampiro dall'altro nemmeno se spuntasse in camera loro e gli mordesse il sedere – hanno scritto che “Mordimi” è una parodia dei film vampireschi recenti. Per niente: non dico che non sarebbe affascinante mescolare nel calderone “Twilight” e “Lasciami entrare” e “30 giorni di buio” e “Blade” e “Daybreakers” eccetera per tirarne fuori uno “Scary Movie” coi canini appuntiti, ma “Mordimi” non è questo. E' una parodia assai puntuale della saga di “Twilight”, che rifà accuratamente il primo film e la seconda parte del secondo (buffi i cambiamenti dei nomi, con Bella Swan che diventa Becca Crane e i Cullen che diventano i Sullen). Certo, si concede un paio di fuggevoli accenni ad altre mitologie succhiasangue (un'apparizione-gag di Buffy, due vampiri che bevono Trueblood, i “Vampire Diaries” di L.J. Smith usati a scuola come libro di testo), ma se è per questo anche ad Alice nel Paese delle Meraviglie e a Lady Gaga, in base a quell'accumulo divagante che si addice a una parodia.
Questo concetto del rifacimento stretto potenzia il principio “filologico” nascosto in ogni parodia. Pensiamo alla scioltezza narrativa con cui il film passa da “Twilight” alla conclusione di “New Moon” (unico accorgimento, trasformare la festa italiana dei Volturi in un ballo in maschera alla scuola di Becca), mentre la prima parte di “New Moon” – la più sciocca di tutta la saga – è ridotta a una gag. Ciò ha l'effetto di far risaltare un elemento importante dell'opera parodiata: appunto che tra “Twilight” e la seconda parte di “New Moon” c'è il nulla. Allo stesso modo, la parodia porta impudicamente in primo piano un paio di verità che la saga originale cela (con scarso successo) sotto il velame dello sviluppo drammatico: la prima è che il padre di Bella, il poliziotto, non è – come dire – la mente più brillante del paese; la seconda è che Bella stessa è quel tipo di rompipalle musona che può trovare l'amore col belloccio locale solo in una storia romantica artefatta, pensata per un pubblico adolescenziale. Il bello delle parodie è di non trasformare intimamente il testo parodiato quanto di svelarne il significato nascosto: la parodia è (concettosa metafora!) il filtro che fa emergere il Mister Hyde segreto dal posato dottor Jekyll che è l'opera originale.
La cosa divertente è che i veri vampiri della situazione sono i registi e sceneggiatori Jason Friedberg & Aaron Seltzer, due predatori che stanno in agguato a Hollywood per gettarsi su qualsiasi successo e scodellarne una versione comico-demenziale, da “Scary Movie” a “Epic Movie”, da “Disaster Movie” a “Treciento”. C'è in “Mordimi” ("Vampires Suck") tutta la panoplia di scherzi e gag, anche metacinematografiche, che in passato faceva la fortuna di Mel Brooks e oggi, ma a un livello molto più basso, sostenta la produzione dei due. Molte sono modeste, qualcuna è ben pensata: Jacob che mostra il contratto per cui deve apparire a torso nudo ogni dieci minuti (e, da buon lupo, ha dieci capezzoli), Becca e l'amica che con folle cortocircuito vanno al cinema a vedere il (futuro!) “Breaking Dawn”, e rivelano il finale agli spettatori; e poi va proprio menzionato Daro, il capo dei Volturi, interpretato da Ken Jeong, che con la sua mimica facciale sembra un Alvaro Vitali asiatico.
L'aspetto negativo è che i distributori, consci di dover vendere un prodotto solo mediocremente divertente, hanno abilmente estratto dal film quasi tutte le gag migliori per ammucchiarle nel trailer: che così diventa un'antologia, non tanto un'anticipazione del film quanto un vero e proprio “il meglio di”. Pertanto l'esperienza di vedere “Mordimi” per la prima volta si confonde bizzarramente con l'impressione di rivederlo – e non è un film così spiritoso che vederlo due volte sia necessario.
Alcuni recensori dei quotidiani – di quelli che disprezzano i film di vampiri, e non distinguerebbero un vampiro dall'altro nemmeno se spuntasse in camera loro e gli mordesse il sedere – hanno scritto che “Mordimi” è una parodia dei film vampireschi recenti. Per niente: non dico che non sarebbe affascinante mescolare nel calderone “Twilight” e “Lasciami entrare” e “30 giorni di buio” e “Blade” e “Daybreakers” eccetera per tirarne fuori uno “Scary Movie” coi canini appuntiti, ma “Mordimi” non è questo. E' una parodia assai puntuale della saga di “Twilight”, che rifà accuratamente il primo film e la seconda parte del secondo (buffi i cambiamenti dei nomi, con Bella Swan che diventa Becca Crane e i Cullen che diventano i Sullen). Certo, si concede un paio di fuggevoli accenni ad altre mitologie succhiasangue (un'apparizione-gag di Buffy, due vampiri che bevono Trueblood, i “Vampire Diaries” di L.J. Smith usati a scuola come libro di testo), ma se è per questo anche ad Alice nel Paese delle Meraviglie e a Lady Gaga, in base a quell'accumulo divagante che si addice a una parodia.
Questo concetto del rifacimento stretto potenzia il principio “filologico” nascosto in ogni parodia. Pensiamo alla scioltezza narrativa con cui il film passa da “Twilight” alla conclusione di “New Moon” (unico accorgimento, trasformare la festa italiana dei Volturi in un ballo in maschera alla scuola di Becca), mentre la prima parte di “New Moon” – la più sciocca di tutta la saga – è ridotta a una gag. Ciò ha l'effetto di far risaltare un elemento importante dell'opera parodiata: appunto che tra “Twilight” e la seconda parte di “New Moon” c'è il nulla. Allo stesso modo, la parodia porta impudicamente in primo piano un paio di verità che la saga originale cela (con scarso successo) sotto il velame dello sviluppo drammatico: la prima è che il padre di Bella, il poliziotto, non è – come dire – la mente più brillante del paese; la seconda è che Bella stessa è quel tipo di rompipalle musona che può trovare l'amore col belloccio locale solo in una storia romantica artefatta, pensata per un pubblico adolescenziale. Il bello delle parodie è di non trasformare intimamente il testo parodiato quanto di svelarne il significato nascosto: la parodia è (concettosa metafora!) il filtro che fa emergere il Mister Hyde segreto dal posato dottor Jekyll che è l'opera originale.
La cosa divertente è che i veri vampiri della situazione sono i registi e sceneggiatori Jason Friedberg & Aaron Seltzer, due predatori che stanno in agguato a Hollywood per gettarsi su qualsiasi successo e scodellarne una versione comico-demenziale, da “Scary Movie” a “Epic Movie”, da “Disaster Movie” a “Treciento”. C'è in “Mordimi” ("Vampires Suck") tutta la panoplia di scherzi e gag, anche metacinematografiche, che in passato faceva la fortuna di Mel Brooks e oggi, ma a un livello molto più basso, sostenta la produzione dei due. Molte sono modeste, qualcuna è ben pensata: Jacob che mostra il contratto per cui deve apparire a torso nudo ogni dieci minuti (e, da buon lupo, ha dieci capezzoli), Becca e l'amica che con folle cortocircuito vanno al cinema a vedere il (futuro!) “Breaking Dawn”, e rivelano il finale agli spettatori; e poi va proprio menzionato Daro, il capo dei Volturi, interpretato da Ken Jeong, che con la sua mimica facciale sembra un Alvaro Vitali asiatico.
L'aspetto negativo è che i distributori, consci di dover vendere un prodotto solo mediocremente divertente, hanno abilmente estratto dal film quasi tutte le gag migliori per ammucchiarle nel trailer: che così diventa un'antologia, non tanto un'anticipazione del film quanto un vero e proprio “il meglio di”. Pertanto l'esperienza di vedere “Mordimi” per la prima volta si confonde bizzarramente con l'impressione di rivederlo – e non è un film così spiritoso che vederlo due volte sia necessario.
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martedì 21 settembre 2010
I mercenari - The Expendables
Sylvester Stallone
Nei film d'oggi i credits coi nomi degli attori usano apparire solo alla fine. Pessima abitudine! Ne “I mercenari – The Expendables”, di e con Sylvester Stallone, invece appaiono, come una volta, all'inizio. C'è un motivo. In questo film non è l'attore che s'incarna nel personaggio ma il personaggio che fornisce una giustificazione diegetica all'attore: “I mercenari” esibisce l'icona cinematografica; e quindi la menzione del nome dell'attore nei titoli ha un valore circolare più forte di quanto non accada normalmente.
E' un film del corpo expendable: corpi in combattimento, corpi in corsa contro il tempo, corpi torturati, corpi (di nemici) dilaniati e squarciati; ed il senso stesso del film è di recuperare e reinserire nell'estetica dello scontro fisico i corpi vecchi e i visi segnati dei divi fioriti negli anni ottanta (Sylvester Stallone, Mickey Rourke, Eric Roberts, Dolph Lundgren, il sempreverde Jet Li, più gli uncredited Bruce Willis e Arnold Schwarzenegger; ed erano stati chiamati a partecipare anche altri della stessa generazione divistica). E' un film che spende nello sforzo atletico i corpi dei suoi interpreti, coriacei figuri attempati che replicano gli stessi numeri di stoicismo, combattimento e massacro di venticinque anni fa. Oppure fanno da coro greco (Rourke), da ambiguo mandatario (Willis), da imperturbabile villain (Roberts), ma sempre in quanto volti antichi e nostalgici, volti-icona. Gettati in un film che è un bizzarro incrocio di anni ottanta e contemporaneità: armi potentissime del presente accanto al coltellaccio di Rambo (o di Crocodile Dundee), proprio come i nuovi corpi dell'action accanto ai vecchi, in primo luogo il ritchiano (da Guy Ritchie) Jason Statham accanto a Stallone. Ma non c'è in forma alcuna il suggerimento di un passaggio di testimone generazionale; Statham resta sempre il sidekick; se Stallone è il cervello, tuttavia non c'è alcuna divisione dei compiti fra il più giovane e il più anziano sul piano della forza fisica.
“I mercenari” è una sorta di macchina del tempo anche in un altro senso. E' un film piacevole da vedere anche perché ripropone lo stesso tipo di cinema opposto a ogni idea di politically correct che già faceva impazzire di rabbia i bigotti politici negli anni ottanta. Il concetto base de “I mercenari” è lo stesso di “Rambo 2”: i bastardi devono morire. E infatti Stallone & C. fanno un macello spassosamente esagerato dei militari golpisti dell'immaginaria isola di Vilena: il rapporto di forze è più o meno di uno a cento ma il body count dei nemici si alza all'infinito.
Scritto da Sylvester Stallone e Dave Callaham, il film è attraversato da un divertentissimo dialogo macho, anzi, iper-macho, con questi spaccamontagne tough as nails che sembrano parlare ringhiando attraverso le labbra chiuse (Stallone e Statham sono appena scappati in idrovolante da una marea di soldati e Stallone d'improvviso inverte la rotta. “Torniamo indietro?” “Sì”. Vogliamo fargli male?” “Tanto, tanto male”). Eroiche fanfaronate e sfacciata ironia, con Jet Li che chiede un aumento in base al fatto che “quando mi faccio male la ferita è più grande, perché sono più piccolo”. Un'ironia che raggiunge il clou con l'apparizione di Arnold Schwarzenegger, tutta giocata – com'era giusto aspettarsi – sul registro metacinematografico.
Questo mix fracassone di action e humour si fa perdonare facilmente certi limiti di sceneggiatura (perché quella cretina di ragazza, quando è presa in ostaggio dal villain che la trascina via mentre intorno esplode il finimondo, collabora correndo come una lepre?). In effetti va detto che la sceneggiatura è inferiore alla media di quelle di Stallone, sempre semplici ma più articolate (per la verità, in particolare nella serie “Rocky”). Sulla linea del presente film (humour + machismo + esagerazione) resta insuperato “Commando” (con Schwarzenegger) di Mark Lester.
Il vero problema è un altro: “I mercenari” è un film intrinsecamente contraddittorio. Il suo difetto imperdonabile è il montaggio idiota di Ken Blackwell e Paul Harb, i quali sembra che prima di entrare nella cutting room si siano tirati una pista di cocaina. E' un montaggio non da videoclip ma da parodia dei videoclip, frazionato fino all'assurdo, un'accumulazione caotica e offensiva di inquadrature di un secondo: non che delineare l'azione, la offusca (anche il bel kung fu di Jet Li viene totalmente sprecato). Certamente c'è il vantaggio che così diventa più facile inserire un po' di CGI o aiutare la performance di star non giovanissime. Ma resta il fatto che l'azione si risolve in una nebbia dalla quale emergono fissandosi per un attimo sulla retina immagini forti ed esplosioni – come se si sfogliassero fotografie.
Naturalmente c'è qui una certa coerenza con l'operazione di Stallone, che è quella di gettare un ponte (sarebbe enfatico ma non sbagliato dire: gettare il proprio corpo come ponte) fra gli anni ottanta e il presente dell'action estrema. Tuttavia ce ne corre fra il concetto in sé e questo montaggio, che rappresenta il goffo tentativo di sembrare cool agli occhi del pubblico adolescenziale più sprovveduto – cosa quanto mai inutile perché quel pubblico è fra tutti il meno disponibile verso l'elemento divistico e nostalgico incarnato dal film di Stallone.
Nei film d'oggi i credits coi nomi degli attori usano apparire solo alla fine. Pessima abitudine! Ne “I mercenari – The Expendables”, di e con Sylvester Stallone, invece appaiono, come una volta, all'inizio. C'è un motivo. In questo film non è l'attore che s'incarna nel personaggio ma il personaggio che fornisce una giustificazione diegetica all'attore: “I mercenari” esibisce l'icona cinematografica; e quindi la menzione del nome dell'attore nei titoli ha un valore circolare più forte di quanto non accada normalmente.
E' un film del corpo expendable: corpi in combattimento, corpi in corsa contro il tempo, corpi torturati, corpi (di nemici) dilaniati e squarciati; ed il senso stesso del film è di recuperare e reinserire nell'estetica dello scontro fisico i corpi vecchi e i visi segnati dei divi fioriti negli anni ottanta (Sylvester Stallone, Mickey Rourke, Eric Roberts, Dolph Lundgren, il sempreverde Jet Li, più gli uncredited Bruce Willis e Arnold Schwarzenegger; ed erano stati chiamati a partecipare anche altri della stessa generazione divistica). E' un film che spende nello sforzo atletico i corpi dei suoi interpreti, coriacei figuri attempati che replicano gli stessi numeri di stoicismo, combattimento e massacro di venticinque anni fa. Oppure fanno da coro greco (Rourke), da ambiguo mandatario (Willis), da imperturbabile villain (Roberts), ma sempre in quanto volti antichi e nostalgici, volti-icona. Gettati in un film che è un bizzarro incrocio di anni ottanta e contemporaneità: armi potentissime del presente accanto al coltellaccio di Rambo (o di Crocodile Dundee), proprio come i nuovi corpi dell'action accanto ai vecchi, in primo luogo il ritchiano (da Guy Ritchie) Jason Statham accanto a Stallone. Ma non c'è in forma alcuna il suggerimento di un passaggio di testimone generazionale; Statham resta sempre il sidekick; se Stallone è il cervello, tuttavia non c'è alcuna divisione dei compiti fra il più giovane e il più anziano sul piano della forza fisica.
“I mercenari” è una sorta di macchina del tempo anche in un altro senso. E' un film piacevole da vedere anche perché ripropone lo stesso tipo di cinema opposto a ogni idea di politically correct che già faceva impazzire di rabbia i bigotti politici negli anni ottanta. Il concetto base de “I mercenari” è lo stesso di “Rambo 2”: i bastardi devono morire. E infatti Stallone & C. fanno un macello spassosamente esagerato dei militari golpisti dell'immaginaria isola di Vilena: il rapporto di forze è più o meno di uno a cento ma il body count dei nemici si alza all'infinito.
Scritto da Sylvester Stallone e Dave Callaham, il film è attraversato da un divertentissimo dialogo macho, anzi, iper-macho, con questi spaccamontagne tough as nails che sembrano parlare ringhiando attraverso le labbra chiuse (Stallone e Statham sono appena scappati in idrovolante da una marea di soldati e Stallone d'improvviso inverte la rotta. “Torniamo indietro?” “Sì”. Vogliamo fargli male?” “Tanto, tanto male”). Eroiche fanfaronate e sfacciata ironia, con Jet Li che chiede un aumento in base al fatto che “quando mi faccio male la ferita è più grande, perché sono più piccolo”. Un'ironia che raggiunge il clou con l'apparizione di Arnold Schwarzenegger, tutta giocata – com'era giusto aspettarsi – sul registro metacinematografico.
Questo mix fracassone di action e humour si fa perdonare facilmente certi limiti di sceneggiatura (perché quella cretina di ragazza, quando è presa in ostaggio dal villain che la trascina via mentre intorno esplode il finimondo, collabora correndo come una lepre?). In effetti va detto che la sceneggiatura è inferiore alla media di quelle di Stallone, sempre semplici ma più articolate (per la verità, in particolare nella serie “Rocky”). Sulla linea del presente film (humour + machismo + esagerazione) resta insuperato “Commando” (con Schwarzenegger) di Mark Lester.
Il vero problema è un altro: “I mercenari” è un film intrinsecamente contraddittorio. Il suo difetto imperdonabile è il montaggio idiota di Ken Blackwell e Paul Harb, i quali sembra che prima di entrare nella cutting room si siano tirati una pista di cocaina. E' un montaggio non da videoclip ma da parodia dei videoclip, frazionato fino all'assurdo, un'accumulazione caotica e offensiva di inquadrature di un secondo: non che delineare l'azione, la offusca (anche il bel kung fu di Jet Li viene totalmente sprecato). Certamente c'è il vantaggio che così diventa più facile inserire un po' di CGI o aiutare la performance di star non giovanissime. Ma resta il fatto che l'azione si risolve in una nebbia dalla quale emergono fissandosi per un attimo sulla retina immagini forti ed esplosioni – come se si sfogliassero fotografie.
Naturalmente c'è qui una certa coerenza con l'operazione di Stallone, che è quella di gettare un ponte (sarebbe enfatico ma non sbagliato dire: gettare il proprio corpo come ponte) fra gli anni ottanta e il presente dell'action estrema. Tuttavia ce ne corre fra il concetto in sé e questo montaggio, che rappresenta il goffo tentativo di sembrare cool agli occhi del pubblico adolescenziale più sprovveduto – cosa quanto mai inutile perché quel pubblico è fra tutti il meno disponibile verso l'elemento divistico e nostalgico incarnato dal film di Stallone.
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sabato 11 settembre 2010
Somewhere
Sofia Coppola
C'è una scena all'inizio di “Somewhere” che contiene in nuce il film. Johnny Marco (Stephen Dorff), star del cinema che vive al mitico hotel Chateau Marmont di Hollywood, e al momento ha un braccio rotto, si sta guardando in camera l'esibizione privata di lap-dance di due splendide bionde identiche (per la cronaca sono le gemelle Karissa e Kristina Shannon): faccia un po' imbambolata, educato apprezzamento, anche un lieve applauso - e poi si addormenta (loro due, avvinghiate capovolte ai loro pali, scivolano giù silenziosamente, sempre a testa in giù, come in un cartone animato). Non è un episodio isolato: più tardi Johnny si addormenta durante i preliminari con la bocca sul pube di una bellona che ha rimorchiato. Sofia Coppola - regista e sceneggiatrice - offre una base concreta mostrando che lui mischia whisky e medicinali; nondimeno, è quasi una forma di narcolessia.
Come tutti i personaggi della regista, Johnny è lost. Nella scena assai divertente dell'intervista (Sofia, figlia di Francis Ford Coppola, è cresciuta nell'ambiente del cinema e sa bene di cosa parla), in mezzo alla ridda di domande simultaneamente banali e assurde, una giornalista gli chiede: “Chi è Johnny Marco?” - e lui imbarazzato: “...Ehm...”. Ricordiamo i misteriosi messaggi insultanti che lui riceve nel cellulare. Caratteristicamente la sceneggiatura ne lascia imprecisato l'autore, poiché quel che interessa è che essi rispecchiano (o rivelano) le domande che si fa il protagonista: chi cazzo credi di essere? che cazzo di problema hai? Se fosse un dottor Jekyll potremmo anche ipotizzare che se li manda da solo. In verità Sofia Coppola, che gioca sempre a carte scoperte, già in apertura del film, prima dei credits, mostra la sua Ferrari nera che passa quattro volte di seguito lungo il giro della pista, per dirci che Johnny Marco vive su binari obbligati.
In una splendida scena di disagio e spiazzamento, l'attore è in un laboratorio di effetti speciali a farsi fare il calco per fabbricare una maschera. Con la testa trasformata in un mostruoso uovo di materia plastica con solo due buchi per le narici, aspetta solo e immobile per 40 minuti (nella storia; comunque la regista tiene la mdp fissa su di lui ben più a lungo di quanto farebbe qualsiasi altro regista americano), mentre il sonoro amplifica la respirazione pesante e il suo deglutire. Poi prova la maschera, e vede nello specchio una realistica anticipazione di lui da vecchio. “Cazzo”.
La condizione principe presente nel cinema di Sofia Coppola è quella dello spaesamento. La sua domanda base è un “Dove sono?” che ha una preoccupante tendenza a trasformarsi in “Chi sono?”. Esistono registi che hanno la fortuna di girare un film il cui titolo contiene tutto il loro mondo; lei l'ha fatto con “Lost in Translation” - dove il viaggio di Bill Murray in Giappone era la grande metafora dello spiazzamento interiore. Lo spiazzamento non è il viaggio; il viaggio però lo traduce e lo ingigantisce, come una lente d'ingrandimento. Discendente ideale di Bill Murray, Stephen Dorrf in “Somewhere” si sposta solo episodicamente (nota però che ha un braccio ingessato: una frattura, potremmo chiederci, non somiglia a un viaggio?). Peraltro lo stato esistenziale dei personaggi di Sofia Coppola, viaggiatori o meno, è l'immobilità. Anche se Johnny va in Italia (ai Telegatti!, che la regista guarda con lo stesso distacco divertito delle bizzarrie giapponesi in “Lost in Translation”), la sua realtà più autentica è di stare seduto immobile sul divano a guardare nel vuoto, con gli occhi come coperti da una pellicola, in uno stato di leggera stupefazione. Si ritrova, nelle scene dell'albergo, quella lentezza del tempo – quella perplessa sospensione – ch'è tipica del cinema di Sofia Coppola. Anche le varie belle donne che si esibiscono seminude al divo tengono qualcosa dell'algida mise en scéne sospesa delle fotografie di Helmut Newton.
I protagonisti disorientati di Sofia Coppola - dalle “vergini suicide” del primo folgorante film a Bill Murray lost in translation a Maria Antonietta a Versailles - sognano tutti un “altroquando”, un somewhere, poco chiaro a loro stessi, e in genere irraggiungibile. Nel presente film, una sorta di rappresentante e nel contempo ispiratrice di quest'altra dimensione è la figlia undicenne Cleo (Elle Fanning), che l'ex moglie di Johnny gli scarica perché vuole andarsene per i fatti suoi. Cleo è l'incarnazione della ragazzina upper class beneducata e mai supponente. I suoi occhi attenti, educatamente giudicanti, spiazzano il padre e mettono in crisi la sua quotidianità di libertinaggio (a volte narcolettico). Grazie alla sceneggiatura e alla magnifica interpretazione, nonché all'alchimia creatasi fra Stephen Dorff e Elle Fanning, i momenti di vita quotidiana (quando Cleo cucina per lui e il suo amico d'infanzia, quando giocano sott'acqua in piscina, quando lei gli racconta “Twilight”) sono di assoluta dolcezza e insieme di stupefacente autenticità.
La scena nella parte iniziale di “Somewhere” in cui Cleo danza sui pattini sul ghiaccio è l'“altra danza” del film, contrappeso e contraltare della precedente, la lap-dance delle gemelle; Johnny all'inizio la guarda con la stessa espressione un po' vuota e si distrae – ma poi si appassiona. Fin dal primo momento Cleo rappresenta un “principio di realtà” che agisce sullo sbalestramento del padre – vedi il suo buon senso rispetto alla paranoia di Johnny circa le auto che li seguono. Se sulla carta tutto questo può far sorgere un sospetto di sceneggiatura eccessivamente conscia (che si ritrova nella scena in cui Johnny guarda un documentario su Gandhi in tv), è la naturalezza del personaggio a giustificarlo artisticamente. Su questa linea il film si sviluppa con musicale chiarezza e semplicità; fino a sfociare, dopo un confronto catartico del protagonista con la figlia, in un finale di sapore antonioniano o wendersiano che lascia aperte tutte le strade.
Sofia Coppola è l'incrocio di una poetessa con una sociologa – o una mezza sociologa, perché non è che analizzi e ricostruisca i riti, come Martin Scorsese, e tuttavia ha una perspicacia fulminante nel cogliere un ambiente, un'atmosfera, un mood. Tutto il suo modo di fare cinema si allontana da quello di suo padre. Francis Ford Coppola è italiano, operistico, massimalista; Sofia è americana e minimalista. Mostra in tutto il suo cinema uno sguardo distaccato che si avvale di una messa in scena sobria, quasi fredda, molto basata sul non detto. Il suo sguardo è insieme realistico e sognante, ed è questo a dare quella particolare vibrazione che attraversa, per metafora illumina, ogni suo film.
C'è una scena all'inizio di “Somewhere” che contiene in nuce il film. Johnny Marco (Stephen Dorff), star del cinema che vive al mitico hotel Chateau Marmont di Hollywood, e al momento ha un braccio rotto, si sta guardando in camera l'esibizione privata di lap-dance di due splendide bionde identiche (per la cronaca sono le gemelle Karissa e Kristina Shannon): faccia un po' imbambolata, educato apprezzamento, anche un lieve applauso - e poi si addormenta (loro due, avvinghiate capovolte ai loro pali, scivolano giù silenziosamente, sempre a testa in giù, come in un cartone animato). Non è un episodio isolato: più tardi Johnny si addormenta durante i preliminari con la bocca sul pube di una bellona che ha rimorchiato. Sofia Coppola - regista e sceneggiatrice - offre una base concreta mostrando che lui mischia whisky e medicinali; nondimeno, è quasi una forma di narcolessia.
Come tutti i personaggi della regista, Johnny è lost. Nella scena assai divertente dell'intervista (Sofia, figlia di Francis Ford Coppola, è cresciuta nell'ambiente del cinema e sa bene di cosa parla), in mezzo alla ridda di domande simultaneamente banali e assurde, una giornalista gli chiede: “Chi è Johnny Marco?” - e lui imbarazzato: “...Ehm...”. Ricordiamo i misteriosi messaggi insultanti che lui riceve nel cellulare. Caratteristicamente la sceneggiatura ne lascia imprecisato l'autore, poiché quel che interessa è che essi rispecchiano (o rivelano) le domande che si fa il protagonista: chi cazzo credi di essere? che cazzo di problema hai? Se fosse un dottor Jekyll potremmo anche ipotizzare che se li manda da solo. In verità Sofia Coppola, che gioca sempre a carte scoperte, già in apertura del film, prima dei credits, mostra la sua Ferrari nera che passa quattro volte di seguito lungo il giro della pista, per dirci che Johnny Marco vive su binari obbligati.
In una splendida scena di disagio e spiazzamento, l'attore è in un laboratorio di effetti speciali a farsi fare il calco per fabbricare una maschera. Con la testa trasformata in un mostruoso uovo di materia plastica con solo due buchi per le narici, aspetta solo e immobile per 40 minuti (nella storia; comunque la regista tiene la mdp fissa su di lui ben più a lungo di quanto farebbe qualsiasi altro regista americano), mentre il sonoro amplifica la respirazione pesante e il suo deglutire. Poi prova la maschera, e vede nello specchio una realistica anticipazione di lui da vecchio. “Cazzo”.
La condizione principe presente nel cinema di Sofia Coppola è quella dello spaesamento. La sua domanda base è un “Dove sono?” che ha una preoccupante tendenza a trasformarsi in “Chi sono?”. Esistono registi che hanno la fortuna di girare un film il cui titolo contiene tutto il loro mondo; lei l'ha fatto con “Lost in Translation” - dove il viaggio di Bill Murray in Giappone era la grande metafora dello spiazzamento interiore. Lo spiazzamento non è il viaggio; il viaggio però lo traduce e lo ingigantisce, come una lente d'ingrandimento. Discendente ideale di Bill Murray, Stephen Dorrf in “Somewhere” si sposta solo episodicamente (nota però che ha un braccio ingessato: una frattura, potremmo chiederci, non somiglia a un viaggio?). Peraltro lo stato esistenziale dei personaggi di Sofia Coppola, viaggiatori o meno, è l'immobilità. Anche se Johnny va in Italia (ai Telegatti!, che la regista guarda con lo stesso distacco divertito delle bizzarrie giapponesi in “Lost in Translation”), la sua realtà più autentica è di stare seduto immobile sul divano a guardare nel vuoto, con gli occhi come coperti da una pellicola, in uno stato di leggera stupefazione. Si ritrova, nelle scene dell'albergo, quella lentezza del tempo – quella perplessa sospensione – ch'è tipica del cinema di Sofia Coppola. Anche le varie belle donne che si esibiscono seminude al divo tengono qualcosa dell'algida mise en scéne sospesa delle fotografie di Helmut Newton.
I protagonisti disorientati di Sofia Coppola - dalle “vergini suicide” del primo folgorante film a Bill Murray lost in translation a Maria Antonietta a Versailles - sognano tutti un “altroquando”, un somewhere, poco chiaro a loro stessi, e in genere irraggiungibile. Nel presente film, una sorta di rappresentante e nel contempo ispiratrice di quest'altra dimensione è la figlia undicenne Cleo (Elle Fanning), che l'ex moglie di Johnny gli scarica perché vuole andarsene per i fatti suoi. Cleo è l'incarnazione della ragazzina upper class beneducata e mai supponente. I suoi occhi attenti, educatamente giudicanti, spiazzano il padre e mettono in crisi la sua quotidianità di libertinaggio (a volte narcolettico). Grazie alla sceneggiatura e alla magnifica interpretazione, nonché all'alchimia creatasi fra Stephen Dorff e Elle Fanning, i momenti di vita quotidiana (quando Cleo cucina per lui e il suo amico d'infanzia, quando giocano sott'acqua in piscina, quando lei gli racconta “Twilight”) sono di assoluta dolcezza e insieme di stupefacente autenticità.
La scena nella parte iniziale di “Somewhere” in cui Cleo danza sui pattini sul ghiaccio è l'“altra danza” del film, contrappeso e contraltare della precedente, la lap-dance delle gemelle; Johnny all'inizio la guarda con la stessa espressione un po' vuota e si distrae – ma poi si appassiona. Fin dal primo momento Cleo rappresenta un “principio di realtà” che agisce sullo sbalestramento del padre – vedi il suo buon senso rispetto alla paranoia di Johnny circa le auto che li seguono. Se sulla carta tutto questo può far sorgere un sospetto di sceneggiatura eccessivamente conscia (che si ritrova nella scena in cui Johnny guarda un documentario su Gandhi in tv), è la naturalezza del personaggio a giustificarlo artisticamente. Su questa linea il film si sviluppa con musicale chiarezza e semplicità; fino a sfociare, dopo un confronto catartico del protagonista con la figlia, in un finale di sapore antonioniano o wendersiano che lascia aperte tutte le strade.
Sofia Coppola è l'incrocio di una poetessa con una sociologa – o una mezza sociologa, perché non è che analizzi e ricostruisca i riti, come Martin Scorsese, e tuttavia ha una perspicacia fulminante nel cogliere un ambiente, un'atmosfera, un mood. Tutto il suo modo di fare cinema si allontana da quello di suo padre. Francis Ford Coppola è italiano, operistico, massimalista; Sofia è americana e minimalista. Mostra in tutto il suo cinema uno sguardo distaccato che si avvale di una messa in scena sobria, quasi fredda, molto basata sul non detto. Il suo sguardo è insieme realistico e sognante, ed è questo a dare quella particolare vibrazione che attraversa, per metafora illumina, ogni suo film.
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