Sylvester Stallone
Nei film d'oggi i credits coi nomi degli attori usano apparire solo alla fine. Pessima abitudine! Ne “I mercenari – The Expendables”, di e con Sylvester Stallone, invece appaiono, come una volta, all'inizio. C'è un motivo. In questo film non è l'attore che s'incarna nel personaggio ma il personaggio che fornisce una giustificazione diegetica all'attore: “I mercenari” esibisce l'icona cinematografica; e quindi la menzione del nome dell'attore nei titoli ha un valore circolare più forte di quanto non accada normalmente.
E' un film del corpo expendable: corpi in combattimento, corpi in corsa contro il tempo, corpi torturati, corpi (di nemici) dilaniati e squarciati; ed il senso stesso del film è di recuperare e reinserire nell'estetica dello scontro fisico i corpi vecchi e i visi segnati dei divi fioriti negli anni ottanta (Sylvester Stallone, Mickey Rourke, Eric Roberts, Dolph Lundgren, il sempreverde Jet Li, più gli uncredited Bruce Willis e Arnold Schwarzenegger; ed erano stati chiamati a partecipare anche altri della stessa generazione divistica). E' un film che spende nello sforzo atletico i corpi dei suoi interpreti, coriacei figuri attempati che replicano gli stessi numeri di stoicismo, combattimento e massacro di venticinque anni fa. Oppure fanno da coro greco (Rourke), da ambiguo mandatario (Willis), da imperturbabile villain (Roberts), ma sempre in quanto volti antichi e nostalgici, volti-icona. Gettati in un film che è un bizzarro incrocio di anni ottanta e contemporaneità: armi potentissime del presente accanto al coltellaccio di Rambo (o di Crocodile Dundee), proprio come i nuovi corpi dell'action accanto ai vecchi, in primo luogo il ritchiano (da Guy Ritchie) Jason Statham accanto a Stallone. Ma non c'è in forma alcuna il suggerimento di un passaggio di testimone generazionale; Statham resta sempre il sidekick; se Stallone è il cervello, tuttavia non c'è alcuna divisione dei compiti fra il più giovane e il più anziano sul piano della forza fisica.
“I mercenari” è una sorta di macchina del tempo anche in un altro senso. E' un film piacevole da vedere anche perché ripropone lo stesso tipo di cinema opposto a ogni idea di politically correct che già faceva impazzire di rabbia i bigotti politici negli anni ottanta. Il concetto base de “I mercenari” è lo stesso di “Rambo 2”: i bastardi devono morire. E infatti Stallone & C. fanno un macello spassosamente esagerato dei militari golpisti dell'immaginaria isola di Vilena: il rapporto di forze è più o meno di uno a cento ma il body count dei nemici si alza all'infinito.
Scritto da Sylvester Stallone e Dave Callaham, il film è attraversato da un divertentissimo dialogo macho, anzi, iper-macho, con questi spaccamontagne tough as nails che sembrano parlare ringhiando attraverso le labbra chiuse (Stallone e Statham sono appena scappati in idrovolante da una marea di soldati e Stallone d'improvviso inverte la rotta. “Torniamo indietro?” “Sì”. Vogliamo fargli male?” “Tanto, tanto male”). Eroiche fanfaronate e sfacciata ironia, con Jet Li che chiede un aumento in base al fatto che “quando mi faccio male la ferita è più grande, perché sono più piccolo”. Un'ironia che raggiunge il clou con l'apparizione di Arnold Schwarzenegger, tutta giocata – com'era giusto aspettarsi – sul registro metacinematografico.
Questo mix fracassone di action e humour si fa perdonare facilmente certi limiti di sceneggiatura (perché quella cretina di ragazza, quando è presa in ostaggio dal villain che la trascina via mentre intorno esplode il finimondo, collabora correndo come una lepre?). In effetti va detto che la sceneggiatura è inferiore alla media di quelle di Stallone, sempre semplici ma più articolate (per la verità, in particolare nella serie “Rocky”). Sulla linea del presente film (humour + machismo + esagerazione) resta insuperato “Commando” (con Schwarzenegger) di Mark Lester.
Il vero problema è un altro: “I mercenari” è un film intrinsecamente contraddittorio. Il suo difetto imperdonabile è il montaggio idiota di Ken Blackwell e Paul Harb, i quali sembra che prima di entrare nella cutting room si siano tirati una pista di cocaina. E' un montaggio non da videoclip ma da parodia dei videoclip, frazionato fino all'assurdo, un'accumulazione caotica e offensiva di inquadrature di un secondo: non che delineare l'azione, la offusca (anche il bel kung fu di Jet Li viene totalmente sprecato). Certamente c'è il vantaggio che così diventa più facile inserire un po' di CGI o aiutare la performance di star non giovanissime. Ma resta il fatto che l'azione si risolve in una nebbia dalla quale emergono fissandosi per un attimo sulla retina immagini forti ed esplosioni – come se si sfogliassero fotografie.
Naturalmente c'è qui una certa coerenza con l'operazione di Stallone, che è quella di gettare un ponte (sarebbe enfatico ma non sbagliato dire: gettare il proprio corpo come ponte) fra gli anni ottanta e il presente dell'action estrema. Tuttavia ce ne corre fra il concetto in sé e questo montaggio, che rappresenta il goffo tentativo di sembrare cool agli occhi del pubblico adolescenziale più sprovveduto – cosa quanto mai inutile perché quel pubblico è fra tutti il meno disponibile verso l'elemento divistico e nostalgico incarnato dal film di Stallone.
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