Alain Resnais
“Gli amori folli” (“Les Herbes folles”) di Alain Resnais è un film di una bellezza così accecante che è come guardare il sole: sulla retina si fissa l'immagine in negativo, paradossalmente più discernibile. Perché quella comprensione della vita, dell'amore, dell'umanità e della sciocchezza che “Les Herbes folles” ci fornisce, non la fornisce attraverso la logica di uno sviluppo drammaturgico consequenziale ma, al contrario, attraverso l'il/logica del nonsense. Attenzione: il/logica non vuol dire mancanza di logica - bensì una logica superiore, che sussume e comprende la prima. Si potrebbe fare un paragone visivo, per quel che vale, col cubismo analitico di Picasso e Braque: pensiamo al celebre “Serbatoio a Horta de Ebro” di Picasso (1909): è una costruzione umana vista da un extraterrestre che la ridefinisce nelle proprie categorie visuali, superiori alle nostre perché vanno oltre la singolarità e la temporaneità della prospettiva umana. Una super-logica di questo tipo è operante nel film di Resnais, e in tutta la sua opera. Un cinema “a falde”, secondo la famosa definizione di Deleuze, un cinema labirintico della compresenza di tutte le possibilità, un cinema (“intrinsecamente musicale”: Sergio Arecco) nel quale Resnais distrugge la linearità narrativa, frammenta il concatenamento drammatico della pièce bien faite e del film bien fait - col che, ci mostra un altro uso del cinema.
Georges (André Dussollier) trova in terra il portafoglio coi documenti di Marguerite, dentista e aviatrice (Sabine Azéma), abbandonato dopo uno scippo. Glielo fa restituire dalla polizia - e poi comincia a perseguitarla in un'assurda ossessione amorosa. Nessun successo. Ma poi, l'ossessione d'amore passa a Marguerite. Non aspettatevi teoremi psicologici qui! “Tutti i miei film, almeno quelli di finzione, non sono stati altro che un concepire degli shock emotivi e dar loro un seguito” (Alain Resnais). Compreso “Les Herbes folles”, con la sua follia, con l'infinita serie di simmetrie e doppioni (il raddoppiamento è la forza generatrice del cinema di Resnais), con il suo delizioso umorismo, spesso tinto di nero, nel quale si incontrano, alla Lautréamont, una zip inceppata e la fanfara della Twentieth Century Fox di Alfred Newman (sulla scritta “Fine” - che non è la fine).
“Les Herbes folles” è tutto fatto di ellissi, di non sequitur, di comportamenti inspiegati, di misteri. Ad esempio la mai svelata storia anteriore (o solo rêverie aggressiva?) di Georges: gli impulsi violenti da controllare, le fantasie di omicidio, la paura di se stesso; come Norman Bates, si inceppa davanti a certe parole (chiedendo al telefono un incontro a Marguerite: “Non la ucc... non la mangio mica!”). Nota che quando in seguito Marguerite è ossessionata d'amore per Georges, la vediamo seduta al tavolino di un locale che distrugge una pastafrolla con il cucchiaino perché non vuole usare il coltello - sublime esempio di transfert, poiché è Georges quello che si blocca davanti ai concetti violenti.
Un'immagine centrale proprio a questo punto è quando Marguerite viene “colpita” dallo sguardo di Georges che la cerca nella piazza: quando la mdp in soggettiva l'incontra, lei piega la testa come se ricevesse uno schiaffo. Questo richiama il fumetto, con la sua integrazione di concetto e figura. “Les Herbes folles” possiede quel senso di “fondata assurdità”, produttiva di un'intuizione superiore, che si ritrova in certi fumetti comico-surreali (sono autorizzato a dirlo in quanto Resnais è un grande amatore di fumetti: li tiene presenti e li utilizza in vari film, vi dedica tutto “I Want to Go Home”). Potrei citare a caso il Cetriolo Mascherato di Nikita Mandryka o gli “Odd Bodkins” di Dan O'Neill, ma scelgo “Krazy Kat” di George Herriman, che, cronologicamente anteriore, li comprende e li supera.
La voce narrante, all'inizio, parlandoci confidenzialmente della vita dice una cosa importante sulle storie e sul cinema: se si vuole che tutti i pezzi combacino, “occorre... fare delle rinunce… scendere a compromessi”. Possiamo trarre un senso dal racconto solo in via provvisoria e intuitiva (per questo sopra parlavo di un'immagine in negativo). Eppure il carattere aperto del racconto di Resnais non ci porta alla scetticismo ma a una sorta di conoscenza totale.
Va aggiunto che la (misteriosa) voce narrante del film risponde a quel bisogno di un'istanza esterna, di una sorta di “testo altro” di riferimento, ch'è così presente nel cinema di Resnais: dalle teorie di Laborit in “Mon Oncle d'Amérique” ai due gatti del fumetto in “I Want to Go Home”, da quell'inconscio collettivo moderno che sono le canzonette in “Parole, parole, parole...” alla narrativa febbrile del vecchio scrittore morente in “Providence”, dal testo teatrale che si sviluppa secondo uno schema binario in “Smoking/No Smoking” alla forma obbligata di un'operetta del 1925 in “Pas sur la bouche”, e così via... Questo “testo altro” sembra venire utilizzato come uno scheletro cui agganciare l'atomizzazione narrativa di un cinema che affronta le sue infinite possibilità senza negarsene nessuna. Nota però che questa istanza esterna non è mai definitiva e risolutiva (neanche nel caso di Laborit). Sorridente maestro del paradosso, Resnais riconosce sempre al proprio cinema il massimo di libertà. Anche in “Les Herbes folles” la voce narrante si corregge, elabora mentre parla, non si nega alle strategie retoriche della reticenza.
Le herbes folles in francese sono le erbacce, ed è meglio usare il titolo originale (il quale naturalmente porta in sé un accenno a quell'elemento di follia che attraversa il film) poiché Resnais si riferisce specificamente alle erbacce e alla loro vitalità insopprimibile. I titoli di testa compaiono su erbacce così forti da rompere il cemento del marciapiede e sopravvivere nelle crepe. Che gli uomini siano identificati con le herbes folles basta a dirlo la dissolvenza iniziale che fonde quelle erbacce sul marciapiede con gambe umane che camminano. Ma le erbacce, oltre che folli e resistenti, sono anche umili: la loro esistenza è precaria (non per niente nel film s'insiste molto su tosaerba e prati tosati) - al pari di quella degli esseri umani. Questo film allegramente attraversato da presagi di morte (il discorso sull'aviatrice degli anni '30 perita in un volo, la citazione de “I ponti di Toko-ri” con la morte degli aviatori) finisce con una triplice morte fuori campo nella caduta dell'aereo – ma poi, attraverso un bellissimo montaggio di carrellate sull'esistente e sulla natura (che per definizione è immortale), ci porta nella camera di una bambina, che naturalmente rappresenta il futuro. Per qualche herbe folle che muore, tante altre ne spuntano.
Ma non solo: questa bambina chiude il racconto esaltando quella logica-illogica che ci porta a comprendere la totalità delle cose (dice Yoda in “Star Wars: Episodio II – L'attacco dei cloni”: “Meravigliosa la mente di bambino è”). Il film si conclude con la memorabile domanda della piccola, che sembra condensarne tutto lo spirito: “Mamma, quando sarò un gatto, potrò mangiare i croccantini?” - su questo scorrono i titoli di coda.
mercoledì 19 maggio 2010
domenica 16 maggio 2010
Far East Film 2010
Il Far East Film Festival 2010 di Udine è stato un successo; e non solo perché la manifestazione ha superato il suo record di spettatori (50.000 presenze in sala - non male per una manifestazione di nicchia, come di recente l'aveva definita un politico locale). Le annate cinematografiche sono come quelle del vino: per qualche impalpabile combinazione di fattori, un dato anno produce vini di cui gli intenditori parleranno poi religiosamente; un altro, no. Ora, non è che il 2010 sia stato per il cinema asiatico una di quelle annate memorabili (come ad esempio il 2009). Dignitoso, nulla più. Eppure, la selezione è riuscita a fornire un ottimo festival - il che vuol dire che ha risposto vittoriosamente alla sfida.
Per uno sguardo a volo d'uccello sul festival, partiamo dalla Cina. Che festeggiava il 60° della fondazione della RPC, e questo ha prodotto una quantità di film “patriottici”: ora mediocri, come “May 12th”, non selezionato per Udine; ora discreti, come “The Message” di Chen Kuofu e Gao Qunshu; ora buoni, come “The Founding of A Republic” di Han Sanping e Huang Jianxin (sul quale vedi recensione a parte) o “City of Life and Death” di Lu Chuan, tragica rievocazione del Massacro di Nanchino a opera dei giapponesi, che per concezione visuale - concretizzata nella bella fotografia in b/n di Cao Yu - mi sembra ricordare il cinema sovietico del vivace periodo fra i '50 e i '60 (Čuchraj, Kalatozov).
Altri buoni prodotti cinesi sono “Sophie's Revenge” di Eva Jin (divertente commedia sentimentale di stile hollywoodiano con una modernità di linguaggio prettamente asiatica, dove un'ottima Zhang Ziyi si prova coraggiosamente e con successo in un ruolo comico), nonché “Wheat” di He Ping e “Little Big Soldier” di Ding Sheng. Questi ultimi recuperano con intelligenza il kolossal-wuxiapian dal punto di vista degli antieroi (e in “Little Big Soldier” c' è Jackie Chan!).
Passiamo a Hong Kong, salutando il fatto che un cinema negli ultimi anni un po' appannato ritorna con una bella selezione (sarebbe stata ancora migliore se avesse compreso l'eccellente thriller “Overheard” di Felix Chong e Alan Mak). Un piccolo capolavoro è “Dream Home”, slasher crudelissimo - alla proiezione uno spettatore è svenuto - di Pang Ho-cheung. Il tema è il febbrile mercato immobiliare hongkonghese. Al di là dell'efferatezza e dell'inventiva degli omicidi, il film si raccomanda per la logica sottesa (ovvero il motivo dei delitti compiuti dalla protagonista), che sarebbe piaciuta a Bertold Brecht.
“Gallands” di Derek Kwok e Clement Cheng è un omaggio alle vecchie glorie del kung fu, che lo interpretano; peccato che alcune scene (non di combattimento) siano un po' goffe. Anche il pomposo “Bodyguards and Assassins” di Teddy Chen rende omaggio ai vecchi wuxiapian; a Udine è piaciuto molto, ma scene come quella di Leon Lai che con vera maestà affronta una miriade di nemici su uno scalone colpiscono in particolare chi è digiuno di quei vecchi film - in cui erano ordinaria amministrazione. Restiamo in area kung fu con “Ip Man 2” di Wilson Yip. Sono eretico se dico che è assai più bello del primo episodio? Più modesto e per questo meno pretenzioso, ci offre con semplicità una bellissima serie di scontri. Del resto, accanto a Donnie Yen c'è il grandissimo Sammo Hung: il combattimento fra i due sul tavolo è uno di quei momenti cinematografici che non si scordano più.
Mentre non ho avuto ancora modo di vedere “Fire of Coscience” di Dante Lam, “La Comédie Humaine” di Chan Hing-kai e Janet Chun nonostante dei buoni momenti è poco organizzato, anche se con una piacevole interpretazione di Chapman To. Menziono infine il toccante “Echoes of the Rainbow” di Alex Law, ritratto della Hong Kong di un tempo dove una famiglia povera lotta per la sopravvivenza. Sia per la definizione delle figure sia per l'eccellente interpretazione, il padre e la madre (Simon Yam e Sandra Ng) stracciano qualsiasi corrispondente americano o europeo.
Da Taiwan, “Monga” di Doze Niu è l'onesto e gradevole ritratto del passato di un quartiere, nonché di un giovane che cresce nella malavita taiwanese - e in puro stile noir si accorge che col tempo gli ideali di amicizia della gioventù svaniscono nel sangue.
Il cinema coreano non è più quello che ci aveva fatto gridare al miracolo in passato, ma resta un ottimo cinema. Il miglior film coreano del festival è “The Actesses”, firmato da quel regista sempre rimarchevole che è E J-yong (“An Affair”, “Untold Scandal”, “Dasepo Naughty Girls”). Si tratta di un falso documentario su una seduta fotografica con sei attrici coreane (autentiche) che recitano se stesse ma allo stesso tempo evidentemente elaborano in modo fictional la propria storia e realtà. Quel che n'emerge è una commedia drammatica di psicologie, un ritratto dell'attrice coreana sul piano sociale, un saggio sulla fotografia. Un film veramente affascinante.
Il film vincitore del premio del pubblico, “Castaway on the Moon” di Lee Hey-jun, realizza con efficacia un'idea semplicissima. Un uomo tenta di suicidarsi e finisce su un'isola deserta del fiume Han che attraversa Seoul. Non sa nuotare - quindi, con la civiltà a un passo, diventa un nuovo Robinson Crusoe. Una ragazza hikikomori (reclusa volontaria) lo osserva col suo telescopio e tenta di comunicare con lui come se fosse un contatto con un altro pianeta. Incantevoli sia l'originalità della concezione sia l'umanità con cui il film dipinge questo doppio ritratto, e quest'incontro fra due differenti reclusi. Nota polemica: è un film che volendo si può realizzare con due lire; il cinema italiano non potrebbe prendere esempio da queste storie invece di continuare a propinarci i soliti compitini di beghe familiari?
La tradizione coreana del film di gangster e poliziotti ritorna con “Running Turtle” di Lee Yeon-woo, gradevolissimo ritratto umano di un poliziotto in bolletta e sfortunato, in crisi con la moglie, che tenta di risollevare le sue fortune catturando per la taglia un terribile latitante. Il ritmo del film è volutamente disteso, nonostante la recitazione concitata dei personaggi secondari, cui si oppone quella deadpan dei due antagonisti. L'interesse coinvolgente del côté umano del film ripaga ampiamente le sue due ore - e rende benaccetta la conclusione alla Frank Capra.
Non dimentichiamo l'horror: il notevole “Possessed” di Lee Yong-joo ha una costruzione molto articolata, in cui l'accaduto si rivela a frammenti che si compongono via via. Il montaggio è brusco e la narrazione mette modernamente in parallelo senza segni distintivi il racconto base, i sogni, i flashback, le visioni, in un'ambiguità forse difficile ma ricca di fascino. Il genere sempre gradito del disaster movie offre un saggio di tutto rispetto con “Haeundae” di Youn Je-gyun, in cui un mega-tsunami si abbatte su Busan, la seconda città della Corea (sede, per inciso, di un importantissimo festival cinematografico). Grande divertimento, infine, con “Woochi” di Choi Dong-hoon, in cui un mago dell'antichità trasportato nella Seoul moderna affronta un'invasione di goblin. E' un film molto piacevole sia nella parte in costume (gustosissima la caratterizzazione del protagonista presuntuoso e del suo aiutante, un uomo-cane) sia nella parte moderna. Una delle cose più apprezzabili è il ritorno, accanto alla computer graphics, a Méliès, alle classiche trasformazioni con sbuffo di fumo. La storia - come ci si può attendere dal regista di “Tazza: The High Rollers” - da un lato sprizza fantasia e umorismo, dall'altro è un po' intricata, non facile da seguire; ma ne vale la pena.
Il Giappone resta nel suo complesso la miglior cinematografia asiatica attuale. Eccezionale “Zero Focus” del maestro Inudo Isshin, che racconta un mistero del 1957 in stile totalmente (citazionisticamente) hitchcockiano: come atmosfere, come soluzioni narrative, come linguaggio (scansioni, stacchi, colore, perfino il commento musicale). Per intenderci, possiamo pensare a “Complesso di colpa” di Brian De Palma; e come in quel film, il peso del passato realizza un grande noir intenso e doloroso. Vivace e originale è “Boys on the Run” di Miura Daisuke, dotato di un particolarissimo umorismo e d'uno sguardo di osservazione attento dentro il suo gusto grottesco. Ottime le figure di contorno: il collega ex pugilatore, il malinconico boss della ditta e soprattutto la prostituta Shiho, bella interpretazione di You (Eshara Yuhiko) che è di per sé una figura interessantissima della scena giapponese.
Inferiore a questo, ma senz'altro grazioso, il film di formazione “Oh, My Buddha!” di Taguchi Tomorowo. Come non adorare, poi, il delirante “The Bugs Detective” di Sato Sakichi? Un ex poliziotto fuori di testa (Aikawa Sho) comprende il linguaggio degli insetti e fa il detective privato per questo mondo, pedinando locuste dongiovanni, trovando le prove dell'adulterio di mariti scarabei; e questo non è che l'inizio. Al di là della storia ultrasfacciata, il film è notevole sul piano dello stile, per la recitazione astratta - quasi epica - dei due protagonisti che viene rispecchiata dalla costruzione astratta e irreale dell'inquadratura.
Non ho ancora visto “Wig” di Tsukamoto Renpei. Del tutto dimenticabile è “The Accidental Kidnapper” di Sakaki Hideo - e fallito, nonostante certe buone idee, “Golden Slumber”, con cui Nakamura Yoshihiro cerca invano di riprendere l'effetto di puzzle narrativo che aveva prodotto l'anno scorso un capolavoro come “Fish Story”.
Passiamo alla Thailandia: un cinema “puro e duro”, spesso attraversato da una vena di follia che può rendere interessanti anche film non riusciti. Non rientra in questa categoria il piacevolissimo “Dear Galileo” di Nithiwat Tharatorn, amabile film giovanilista su due squattrinate ragazze thai in viaggio in Europa (anche a Venezia): ha uno spirito decisamente non da film turistico, restituendo un quadro di complicata amicizia giovanile, sentito e persino toccante, non privo di osservazioni vivaci sul turismo povero e il lavoro clandestino nell'immigrazione. Commovente è “October Sonata” di Somkiat Withuranij, un mélo drappeggiato sopra gli eventi politici di 15 anni di storia thailandese, impreziosito dalla bella fotografia di Kaiwan Kulavodhanotai.
Il cinema thai, si sa, è fecondissimo di horror. Rientra in questo campo il film a episodi “Phobia 2”, migliore del suo predecessore “4bia” visto l'anno scorso: se in quello gli episodi buoni erano due (su quattro - donde la grafica del titolo), qui lo sono tutti e cinque. Interessante, e visivamente sontuoso, anche “Slice” di Kongkiat Khomsiri; mentre invece “Who Are You?” di Parphum Wongjinda, nel quale ritorna la figura dell'hikikomori, contiene delle buone idee (e per forza! La storia è del navigato Prachya Pinkaew) ma le rovina con uno sviluppo dilettantesco.
Per le Filippine, è importante (ma in ultima analisi non del tutto convincente) “The Arrival” di Erik Matti, mentre è divertente “Kimmy Dora”, commedia di Joyce Bernal (sempre una regista da seguire), che si regge su una gustosa interpretazione della pingue Eugene Domingo. Mancava quest'anno Singapore, ed è un peccato, perché la città-stato ha prodotto nel 2009 almeno una commedia deliziosa, “The Wedding Game” di Ekachai Uekrongtham.
L'entry più recente nel panorama del Far East Film Festival è il cinema indonesiano (assieme al suo cugino malaysiano). Viene proprio dall'Indonesia quello che senza tema si può considerare il film più importante del festival: “Identity” di Aria Kusumadewa. Un capolavoro che inizialmente traduce il suo tema drammatico in toni di commedia nerissima (sugli ospedali locali) in confronto alla quale Buñuel è un gattino giocherellone - e partendo da questo instaura una riflessione straziante sull'identità, la povertà e la morte. Si conclude come storia d'amore con un cadavere, con dettagli di vera audacia, al bordo della necrofilia amorosa. Il suo radicalismo sul piano della denuncia sociale è tanto più convincente in quanto sfugge alla retorica.
E' altresì valido e commovente il fluviale “The Dreamer” di Riri Riza, seguito di quel “The Rainbow Troops” che fu acclamato l'anno scorso. Non ho ancora visto “The Last Wolf” di Upi, ma il nome della regista è sufficiente per aspettarsene bene. A questa stregua credo si possa dire che il cinema indonesiano è lanciato per diventare uno dei pilastri del festival in futuro.
Se pensiamo che il festival è stato impreziosito da due memorabili retrospettive, sulle quali manca proprio lo spazio per scrivere, quella dedicata al maestro hongkonghese Patrick Lung Kong e quella (da urlo) sulla casa di produzione giapponese Shintoho, vediamo che il Far East Film 2010 come ogni anno ha mostrato di essere all'altezza della sua fama.
(Il Nuovo FVG)
Per uno sguardo a volo d'uccello sul festival, partiamo dalla Cina. Che festeggiava il 60° della fondazione della RPC, e questo ha prodotto una quantità di film “patriottici”: ora mediocri, come “May 12th”, non selezionato per Udine; ora discreti, come “The Message” di Chen Kuofu e Gao Qunshu; ora buoni, come “The Founding of A Republic” di Han Sanping e Huang Jianxin (sul quale vedi recensione a parte) o “City of Life and Death” di Lu Chuan, tragica rievocazione del Massacro di Nanchino a opera dei giapponesi, che per concezione visuale - concretizzata nella bella fotografia in b/n di Cao Yu - mi sembra ricordare il cinema sovietico del vivace periodo fra i '50 e i '60 (Čuchraj, Kalatozov).
Altri buoni prodotti cinesi sono “Sophie's Revenge” di Eva Jin (divertente commedia sentimentale di stile hollywoodiano con una modernità di linguaggio prettamente asiatica, dove un'ottima Zhang Ziyi si prova coraggiosamente e con successo in un ruolo comico), nonché “Wheat” di He Ping e “Little Big Soldier” di Ding Sheng. Questi ultimi recuperano con intelligenza il kolossal-wuxiapian dal punto di vista degli antieroi (e in “Little Big Soldier” c' è Jackie Chan!).
Passiamo a Hong Kong, salutando il fatto che un cinema negli ultimi anni un po' appannato ritorna con una bella selezione (sarebbe stata ancora migliore se avesse compreso l'eccellente thriller “Overheard” di Felix Chong e Alan Mak). Un piccolo capolavoro è “Dream Home”, slasher crudelissimo - alla proiezione uno spettatore è svenuto - di Pang Ho-cheung. Il tema è il febbrile mercato immobiliare hongkonghese. Al di là dell'efferatezza e dell'inventiva degli omicidi, il film si raccomanda per la logica sottesa (ovvero il motivo dei delitti compiuti dalla protagonista), che sarebbe piaciuta a Bertold Brecht.
“Gallands” di Derek Kwok e Clement Cheng è un omaggio alle vecchie glorie del kung fu, che lo interpretano; peccato che alcune scene (non di combattimento) siano un po' goffe. Anche il pomposo “Bodyguards and Assassins” di Teddy Chen rende omaggio ai vecchi wuxiapian; a Udine è piaciuto molto, ma scene come quella di Leon Lai che con vera maestà affronta una miriade di nemici su uno scalone colpiscono in particolare chi è digiuno di quei vecchi film - in cui erano ordinaria amministrazione. Restiamo in area kung fu con “Ip Man 2” di Wilson Yip. Sono eretico se dico che è assai più bello del primo episodio? Più modesto e per questo meno pretenzioso, ci offre con semplicità una bellissima serie di scontri. Del resto, accanto a Donnie Yen c'è il grandissimo Sammo Hung: il combattimento fra i due sul tavolo è uno di quei momenti cinematografici che non si scordano più.
Mentre non ho avuto ancora modo di vedere “Fire of Coscience” di Dante Lam, “La Comédie Humaine” di Chan Hing-kai e Janet Chun nonostante dei buoni momenti è poco organizzato, anche se con una piacevole interpretazione di Chapman To. Menziono infine il toccante “Echoes of the Rainbow” di Alex Law, ritratto della Hong Kong di un tempo dove una famiglia povera lotta per la sopravvivenza. Sia per la definizione delle figure sia per l'eccellente interpretazione, il padre e la madre (Simon Yam e Sandra Ng) stracciano qualsiasi corrispondente americano o europeo.
Da Taiwan, “Monga” di Doze Niu è l'onesto e gradevole ritratto del passato di un quartiere, nonché di un giovane che cresce nella malavita taiwanese - e in puro stile noir si accorge che col tempo gli ideali di amicizia della gioventù svaniscono nel sangue.
Il cinema coreano non è più quello che ci aveva fatto gridare al miracolo in passato, ma resta un ottimo cinema. Il miglior film coreano del festival è “The Actesses”, firmato da quel regista sempre rimarchevole che è E J-yong (“An Affair”, “Untold Scandal”, “Dasepo Naughty Girls”). Si tratta di un falso documentario su una seduta fotografica con sei attrici coreane (autentiche) che recitano se stesse ma allo stesso tempo evidentemente elaborano in modo fictional la propria storia e realtà. Quel che n'emerge è una commedia drammatica di psicologie, un ritratto dell'attrice coreana sul piano sociale, un saggio sulla fotografia. Un film veramente affascinante.
Il film vincitore del premio del pubblico, “Castaway on the Moon” di Lee Hey-jun, realizza con efficacia un'idea semplicissima. Un uomo tenta di suicidarsi e finisce su un'isola deserta del fiume Han che attraversa Seoul. Non sa nuotare - quindi, con la civiltà a un passo, diventa un nuovo Robinson Crusoe. Una ragazza hikikomori (reclusa volontaria) lo osserva col suo telescopio e tenta di comunicare con lui come se fosse un contatto con un altro pianeta. Incantevoli sia l'originalità della concezione sia l'umanità con cui il film dipinge questo doppio ritratto, e quest'incontro fra due differenti reclusi. Nota polemica: è un film che volendo si può realizzare con due lire; il cinema italiano non potrebbe prendere esempio da queste storie invece di continuare a propinarci i soliti compitini di beghe familiari?
La tradizione coreana del film di gangster e poliziotti ritorna con “Running Turtle” di Lee Yeon-woo, gradevolissimo ritratto umano di un poliziotto in bolletta e sfortunato, in crisi con la moglie, che tenta di risollevare le sue fortune catturando per la taglia un terribile latitante. Il ritmo del film è volutamente disteso, nonostante la recitazione concitata dei personaggi secondari, cui si oppone quella deadpan dei due antagonisti. L'interesse coinvolgente del côté umano del film ripaga ampiamente le sue due ore - e rende benaccetta la conclusione alla Frank Capra.
Non dimentichiamo l'horror: il notevole “Possessed” di Lee Yong-joo ha una costruzione molto articolata, in cui l'accaduto si rivela a frammenti che si compongono via via. Il montaggio è brusco e la narrazione mette modernamente in parallelo senza segni distintivi il racconto base, i sogni, i flashback, le visioni, in un'ambiguità forse difficile ma ricca di fascino. Il genere sempre gradito del disaster movie offre un saggio di tutto rispetto con “Haeundae” di Youn Je-gyun, in cui un mega-tsunami si abbatte su Busan, la seconda città della Corea (sede, per inciso, di un importantissimo festival cinematografico). Grande divertimento, infine, con “Woochi” di Choi Dong-hoon, in cui un mago dell'antichità trasportato nella Seoul moderna affronta un'invasione di goblin. E' un film molto piacevole sia nella parte in costume (gustosissima la caratterizzazione del protagonista presuntuoso e del suo aiutante, un uomo-cane) sia nella parte moderna. Una delle cose più apprezzabili è il ritorno, accanto alla computer graphics, a Méliès, alle classiche trasformazioni con sbuffo di fumo. La storia - come ci si può attendere dal regista di “Tazza: The High Rollers” - da un lato sprizza fantasia e umorismo, dall'altro è un po' intricata, non facile da seguire; ma ne vale la pena.
Il Giappone resta nel suo complesso la miglior cinematografia asiatica attuale. Eccezionale “Zero Focus” del maestro Inudo Isshin, che racconta un mistero del 1957 in stile totalmente (citazionisticamente) hitchcockiano: come atmosfere, come soluzioni narrative, come linguaggio (scansioni, stacchi, colore, perfino il commento musicale). Per intenderci, possiamo pensare a “Complesso di colpa” di Brian De Palma; e come in quel film, il peso del passato realizza un grande noir intenso e doloroso. Vivace e originale è “Boys on the Run” di Miura Daisuke, dotato di un particolarissimo umorismo e d'uno sguardo di osservazione attento dentro il suo gusto grottesco. Ottime le figure di contorno: il collega ex pugilatore, il malinconico boss della ditta e soprattutto la prostituta Shiho, bella interpretazione di You (Eshara Yuhiko) che è di per sé una figura interessantissima della scena giapponese.
Inferiore a questo, ma senz'altro grazioso, il film di formazione “Oh, My Buddha!” di Taguchi Tomorowo. Come non adorare, poi, il delirante “The Bugs Detective” di Sato Sakichi? Un ex poliziotto fuori di testa (Aikawa Sho) comprende il linguaggio degli insetti e fa il detective privato per questo mondo, pedinando locuste dongiovanni, trovando le prove dell'adulterio di mariti scarabei; e questo non è che l'inizio. Al di là della storia ultrasfacciata, il film è notevole sul piano dello stile, per la recitazione astratta - quasi epica - dei due protagonisti che viene rispecchiata dalla costruzione astratta e irreale dell'inquadratura.
Non ho ancora visto “Wig” di Tsukamoto Renpei. Del tutto dimenticabile è “The Accidental Kidnapper” di Sakaki Hideo - e fallito, nonostante certe buone idee, “Golden Slumber”, con cui Nakamura Yoshihiro cerca invano di riprendere l'effetto di puzzle narrativo che aveva prodotto l'anno scorso un capolavoro come “Fish Story”.
Passiamo alla Thailandia: un cinema “puro e duro”, spesso attraversato da una vena di follia che può rendere interessanti anche film non riusciti. Non rientra in questa categoria il piacevolissimo “Dear Galileo” di Nithiwat Tharatorn, amabile film giovanilista su due squattrinate ragazze thai in viaggio in Europa (anche a Venezia): ha uno spirito decisamente non da film turistico, restituendo un quadro di complicata amicizia giovanile, sentito e persino toccante, non privo di osservazioni vivaci sul turismo povero e il lavoro clandestino nell'immigrazione. Commovente è “October Sonata” di Somkiat Withuranij, un mélo drappeggiato sopra gli eventi politici di 15 anni di storia thailandese, impreziosito dalla bella fotografia di Kaiwan Kulavodhanotai.
Il cinema thai, si sa, è fecondissimo di horror. Rientra in questo campo il film a episodi “Phobia 2”, migliore del suo predecessore “4bia” visto l'anno scorso: se in quello gli episodi buoni erano due (su quattro - donde la grafica del titolo), qui lo sono tutti e cinque. Interessante, e visivamente sontuoso, anche “Slice” di Kongkiat Khomsiri; mentre invece “Who Are You?” di Parphum Wongjinda, nel quale ritorna la figura dell'hikikomori, contiene delle buone idee (e per forza! La storia è del navigato Prachya Pinkaew) ma le rovina con uno sviluppo dilettantesco.
Per le Filippine, è importante (ma in ultima analisi non del tutto convincente) “The Arrival” di Erik Matti, mentre è divertente “Kimmy Dora”, commedia di Joyce Bernal (sempre una regista da seguire), che si regge su una gustosa interpretazione della pingue Eugene Domingo. Mancava quest'anno Singapore, ed è un peccato, perché la città-stato ha prodotto nel 2009 almeno una commedia deliziosa, “The Wedding Game” di Ekachai Uekrongtham.
L'entry più recente nel panorama del Far East Film Festival è il cinema indonesiano (assieme al suo cugino malaysiano). Viene proprio dall'Indonesia quello che senza tema si può considerare il film più importante del festival: “Identity” di Aria Kusumadewa. Un capolavoro che inizialmente traduce il suo tema drammatico in toni di commedia nerissima (sugli ospedali locali) in confronto alla quale Buñuel è un gattino giocherellone - e partendo da questo instaura una riflessione straziante sull'identità, la povertà e la morte. Si conclude come storia d'amore con un cadavere, con dettagli di vera audacia, al bordo della necrofilia amorosa. Il suo radicalismo sul piano della denuncia sociale è tanto più convincente in quanto sfugge alla retorica.
E' altresì valido e commovente il fluviale “The Dreamer” di Riri Riza, seguito di quel “The Rainbow Troops” che fu acclamato l'anno scorso. Non ho ancora visto “The Last Wolf” di Upi, ma il nome della regista è sufficiente per aspettarsene bene. A questa stregua credo si possa dire che il cinema indonesiano è lanciato per diventare uno dei pilastri del festival in futuro.
Se pensiamo che il festival è stato impreziosito da due memorabili retrospettive, sulle quali manca proprio lo spazio per scrivere, quella dedicata al maestro hongkonghese Patrick Lung Kong e quella (da urlo) sulla casa di produzione giapponese Shintoho, vediamo che il Far East Film 2010 come ogni anno ha mostrato di essere all'altezza della sua fama.
(Il Nuovo FVG)
The Founding of a Republic
Han Sanping e Huang Jianxin
Rievocazione dello scontro fra i nazionalisti del Kuomintang e i comunisti del PCC, tra Mao Zedong e Chiang Kai-scek, “The Founding of a Republic” di Han Sanping e Huang Jianxin (visto al Far East Film Festival 2010) è il film-dei-film all'interno di quell'ondata di “cinema patriottico” che in Cina ha accompagnato il sessantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Vi ha partecipato (a titolo gratuito) tutto il Gotha del cinema cinese con una profusione di cameo che inevitabilmente trasforma la visione in un gioco a cercare il volto conosciuto - qua occhieggia Jackie Chan nel ruolo di un giornalista, là spunta Jet Li come ufficiale del Kuomintang, laggiù Zhang Ziyi è una giovane comunista cinese.
La cosa interessante è il titolo internazionale (non corrispondente a quello cinese): si ispira a Griffith, naturalmente (“The Birth of a Nation”) - ed è a suo modo “griffithiano” quello spirito nazionale più o meno unitario che il film possiede, benché entro una versione assolutamente propagandistica della storia. E' rilevante che Chiang Kai-scek sia il nemico che viene sconfitto, ma non il drooling villain che avremmo potuto aspettarci in un film di propaganda alla Ciaureli; anzi, ha una sua dignità patriottica ed emerge, lungo il film e in particolare nel finale, come figura tragica. Il carattere celebrativo del film ha evidentemente suggerito una concezione il più possibile lontana da divisioni (nonché totalmente lontana, inutile dirlo, dalla realtà effettuale: per un utile contraltare, si legga l'accurato “Mao. La storia sconosciuta” di Jung Chang e Jon Halliday, Longanesi/TEA). E' peraltro divertente, nella visione del film, trovare fra le righe qualche cenno alle divisione future: quando Liu Shaoqi in una riunione dei dirigenti comunisti difende una politica di apertura ai “capitalisti”, questa è la politica di allora del partito, certo, ma è inevitabile pensare alle accuse rivoltegli da Mao all'epoca della Rivoluzione Culturale. La presenza di Lin Biao risulta sottodimensionata rispetto alla storia reale. Alla stessa stregua, il ruolo di Zhou Enlai (il classico “numero due”, rispettoso ma saggio e indispensabile, quasi una figura paterna: vedi la scena con Mao sul tetto della casa) rispecchia più che altro un sentimento diffuso nel popolo cinese al tempo della Rivoluzione Culturale: di fronte alle lotte sanguinose che dal partito si trasmettevano al paese, si vedeva in Zhou una figura rassicurante (alla sua morte vi furono vere scene di disperazione).
Problema: occorre conoscere bene la storia cinese per seguire "The Founding of a Republic"? Direi di no. Certamente appaiono vari personaggi difficili da “situare”, ma il discorso generale è perfettamente comprensibile. Han Sanping e Huang Jianxin, mostrando una buona capacità narrativa, hanno realizzato un prodotto che - considerati gli scopi propagandistici e la struttura obbligata - funziona assai meglio di quanto ci si potrebbe aspettare. Uno dei fattori principali che sorreggono il film, e certo il principale per lo spettatore occidentale, è l'ottima interpretazione dei protagonisti, Tang Guoqiang (Mao), Zhang Guoli (Chiang Kai-scek) e Liu Jin (Zhou Enlai). C'è una certa capacità di dare vita ai personaggi (vediamo, a fondo scena, perfino Mao alquanto ubriaco dopo un festeggiamento). Da notare l'uso - per vivacizzare il racconto - di un montaggio immaginoso: la corsa gioiosa nei campi di Mao e Zhou con due bambine sulle spalle si trasforma nella corsa minacciosa di un gruppo di malintenzionati nelle strade di Shanghai; Chiang Kai-scek in aereo tra le nuvole guarda dal finestrino e un falso raccordo fa come se vedesse a terra le schiere comuniste in marcia.
Questo non è un film che resterà negli annali del cinema cinese come un capolavoro - però non annoia, sfugge all'effetto “museo delle cere” e soprattutto non cade nel ridicolo involontario di tante opere di propaganda. Insomma, parlando per metafora, è più vicino a "Scipione l'Africano" che a "La caduta di Berlino".
Rievocazione dello scontro fra i nazionalisti del Kuomintang e i comunisti del PCC, tra Mao Zedong e Chiang Kai-scek, “The Founding of a Republic” di Han Sanping e Huang Jianxin (visto al Far East Film Festival 2010) è il film-dei-film all'interno di quell'ondata di “cinema patriottico” che in Cina ha accompagnato il sessantesimo anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Vi ha partecipato (a titolo gratuito) tutto il Gotha del cinema cinese con una profusione di cameo che inevitabilmente trasforma la visione in un gioco a cercare il volto conosciuto - qua occhieggia Jackie Chan nel ruolo di un giornalista, là spunta Jet Li come ufficiale del Kuomintang, laggiù Zhang Ziyi è una giovane comunista cinese.
La cosa interessante è il titolo internazionale (non corrispondente a quello cinese): si ispira a Griffith, naturalmente (“The Birth of a Nation”) - ed è a suo modo “griffithiano” quello spirito nazionale più o meno unitario che il film possiede, benché entro una versione assolutamente propagandistica della storia. E' rilevante che Chiang Kai-scek sia il nemico che viene sconfitto, ma non il drooling villain che avremmo potuto aspettarci in un film di propaganda alla Ciaureli; anzi, ha una sua dignità patriottica ed emerge, lungo il film e in particolare nel finale, come figura tragica. Il carattere celebrativo del film ha evidentemente suggerito una concezione il più possibile lontana da divisioni (nonché totalmente lontana, inutile dirlo, dalla realtà effettuale: per un utile contraltare, si legga l'accurato “Mao. La storia sconosciuta” di Jung Chang e Jon Halliday, Longanesi/TEA). E' peraltro divertente, nella visione del film, trovare fra le righe qualche cenno alle divisione future: quando Liu Shaoqi in una riunione dei dirigenti comunisti difende una politica di apertura ai “capitalisti”, questa è la politica di allora del partito, certo, ma è inevitabile pensare alle accuse rivoltegli da Mao all'epoca della Rivoluzione Culturale. La presenza di Lin Biao risulta sottodimensionata rispetto alla storia reale. Alla stessa stregua, il ruolo di Zhou Enlai (il classico “numero due”, rispettoso ma saggio e indispensabile, quasi una figura paterna: vedi la scena con Mao sul tetto della casa) rispecchia più che altro un sentimento diffuso nel popolo cinese al tempo della Rivoluzione Culturale: di fronte alle lotte sanguinose che dal partito si trasmettevano al paese, si vedeva in Zhou una figura rassicurante (alla sua morte vi furono vere scene di disperazione).
Problema: occorre conoscere bene la storia cinese per seguire "The Founding of a Republic"? Direi di no. Certamente appaiono vari personaggi difficili da “situare”, ma il discorso generale è perfettamente comprensibile. Han Sanping e Huang Jianxin, mostrando una buona capacità narrativa, hanno realizzato un prodotto che - considerati gli scopi propagandistici e la struttura obbligata - funziona assai meglio di quanto ci si potrebbe aspettare. Uno dei fattori principali che sorreggono il film, e certo il principale per lo spettatore occidentale, è l'ottima interpretazione dei protagonisti, Tang Guoqiang (Mao), Zhang Guoli (Chiang Kai-scek) e Liu Jin (Zhou Enlai). C'è una certa capacità di dare vita ai personaggi (vediamo, a fondo scena, perfino Mao alquanto ubriaco dopo un festeggiamento). Da notare l'uso - per vivacizzare il racconto - di un montaggio immaginoso: la corsa gioiosa nei campi di Mao e Zhou con due bambine sulle spalle si trasforma nella corsa minacciosa di un gruppo di malintenzionati nelle strade di Shanghai; Chiang Kai-scek in aereo tra le nuvole guarda dal finestrino e un falso raccordo fa come se vedesse a terra le schiere comuniste in marcia.
Questo non è un film che resterà negli annali del cinema cinese come un capolavoro - però non annoia, sfugge all'effetto “museo delle cere” e soprattutto non cade nel ridicolo involontario di tante opere di propaganda. Insomma, parlando per metafora, è più vicino a "Scipione l'Africano" che a "La caduta di Berlino".
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