Sul
piano della realizzazione You & Me & Me (Thailandia) di
Wanweaw e Weawwan Hongvivatana è un gioco di specchi. Due registe
gemelle, dai nomi propri a chiasmo, scrivono e dirigono un film su
due gemelle, interpretate da una sola attrice in doppia parte, la
brava esordiente Thitiya Jirapornsilp. You e Me sono due gemelle
identiche (si accenna all’elemento della telepatia emotiva dei
gemelli), praticamente due anime in un (doppio) corpo. Sono abituate
a scambiarsi l’una con l’altra a scuola, quando serve per gli
esami, e non solo. In una distesa vacanza dalla nonna in campagna –
è il 1999 – giocano a confondersi anche con il ragazzo che piace a
entrambe, e questo rischia di avere conseguenze gravi.
Anche
sul piano del racconto il film è un gioco di specchi, basato su una
costellazione di aspetti correlati del passaggio del tempo e sul concetto di fine. C’è l’anno 2000 che sta per arrivare e terminare il
millennio; c’è il Millennium Bug (ricordate?) con la paura sul
mass media di una “fine del mondo” digitale, che nella fantasia
delle gemelle diventa la fine del mondo e basta; c’è una fine del
loro mondo perché la famiglia si sta spaccando e se così sarà You
e Me dovranno dividersi andando a stare una col padre e una con la
madre; c’è, più insidiosa e profonda, la fine della
preadolescenza, col primo amore, che significa la scissione di quella
unità gemellare per cui erano sempre insieme e condividevano tutto.
“Siamo
nate insieme… ma alla fine si muore da soli”, sentiamo nel film;
e anche se la situazione non diventa tragica (intanto una
trasmissione tv dà notizia del suicidio di massa di una setta),
devono ammettere malinconicamente l’esistenza di una differenza di
personalità tra loro, e accettare fraternamente di essere due
persone separata. L’uno è diventato due. Così la divisione viene
ricomposta nell’accettazione della crescita, e una nuova unità si
forma a livello superiore, in un sentimento agrodolce di speranza per
il futuro e rimpianto per un passato che non tornerà più. E’ il
significato del conto alla rovescia per l’anno 2000 nella scena
poetica dell’attesa insieme – "Pensi che il mondo finirà?"- "Non so... ma non ho più paura" – allo scoccare del 2000 non finisce il mondo ma finisce il
film.
Meno
interessante The Sales Girl, una rara entrée della Mongolia (solo la
seconda nei 25 anni del festival) diretta da Janchivdorj Sengedorj,
una commedia di coming of age (una ragazza si trova a lavorare in un
pornoshop per sostituire temporaneamente un’amica, e
l’anticonformista padrona del negozio la guida sulla vita della
maturità): piuttosto verbosa ma non priva di momenti di verve, fra
cui uno senz’altro divertente alla Tutti pazzi per Mary. Mi spiace
di avere perso il film d’inaugurazione, il singaporese/coreano
Ajoomma (è l’equivalente dell’inglese Auntie: una formula
amichevolmente rispettosa verso le donne di mezza età). Ma
spostiamoci alle Filippine.
Nell’intelligente
commedia Where Is the Lie? di Quark Henares, Janzen (Ed Jallorina) è
un trans, di aspetto femminile ma non ancora operato. Come
tutti/tutte noi, ha i suoi problemi amorosi, e se ne lamenta sui
social. Beanie (Maris Racal) è una regista pubblicitaria che odia i
trans e fa a Janzen, che non conosce di persona, uno scherzo
crudelissimo di catfishing (costruzione di un’identità immaginaria
online): finge di essere un giovane, di nome Theo, innamorato di lui.
Questo gioco malvagio la prende sempre di più; insieme alla sua
aiutante Dina (sono una coppia in confronto alla quale Crudelia De
Mon sembra il Dalai Lama) dà una realtà fisica a Theo nel corpo di
un muscoloso aspirante attore stupidotto (Royce Cabrera) e lo fa
incontrare con Janzen. Si crea così il classico gioco della menzogna
che si sviluppa “a valanga”, in questo caso manovrato dalla
malvagità di Beanie, e lo svolgimento è perfidamente spiritoso.
Bravi tutti gli interpreti, ma eccellente Maris Racal, che dà
un’interpretazione variegatissima sul piano psicologico, al punto
che durante il film non capiremo mai Beanie fino in fondo (ha momenti
di pietà che si rovesciano in malvagità ulteriori). Basta questo
accenno per capire che, come tutte le buone commedie, questo film
filippino sotto la risata parla del dolore umano.
A
molti spettatori non è piaciuto; ma In My Mother’s Skin di Kenneth
Dagatan è un eccellente horror, che mette in scena con intelligenza
un dramma “chiuso” con pochi personaggi. Una famiglia filippina,
padre, madre e due figli, vive in una casa nella giungla, alla fine
della seconda guerra mondiale, quando i giapponesi sono in ritirata.
Il padre (un tipo alquanto losco) lascia gli altri, promettendo di
tornare. La madre è malata e non hanno quasi niente da mangiare.
Nella disperazione, la figlia maggiore, la preadolescente Tala, si
avventura nella foresta. In una capanna dove c’è un cadavere
coperto di insetti, trova su un piatto una caramella; fa l’errore
di mangiarla…
Suona
fiabesco? In effetti il film è una versione ultranera delle fiabe.
Infatti, in una capanna che è anche una specie di cappella blasfema,
Tala incontra una fata, anche lei a metà fra una divinità della
giungla e una Madonna cristiana, con un volto giovane e fresco ma non
privo di ambiguità. Da lei implora e riceve aiuto. Ecco qui un
aspetto interessante del film: le sue connotazioni sinistre passano
al di sopra della comprensione della bambina disperata, e questo
doppio livello dà alla storia un elemento tragico. Il film diventa
via via più crudele man mano che l’aiuto di questa “fata” –
connessa agli insetti – si rivela un patto faustiano. La fotografia
di Russell Morton è abile nel bilanciare attentamente la natura
della luce in relazione alle apparizione della “fata” (mentre il
montaggio, specie nella prima parte del film, si diletta un po’
troppo di stacchi ellittici). Senza fare spoiler sul finale, basta
dire che ha nettezza e logicità di soluzione.
E’
anche interessante, per la cultura filippina che è molto cattolica,
la mancanza di qualsiasi contraltare cristiano alle forze del male.
Si prega molto ma inutilmente; e l’altare di famiglia risulta utile
solo come nascondiglio.
Altro
horror, ma stavolta non riuscito, del solitamente migliore Mikhail
Red, Deleter unisce due due idee, la prima delle quali è
interessante, ma con uno svolgimento letargico e banale. L’idea
interessante è quella di usare per il ruolo della protagonista Lyra
una deleter, impiegata in una ditta col compito di cancellare
(delete) dalla rete video violenti, sessuali eccetera, prima che
possano diffondersi sui social. Ne vediamo diversi (fra cui c’è un
cretino che mangia vermi, ma di solito sono crudeli), e all’inizio
ci si può chiedere per un attimo se alcuni non possano essere reali,
ma probabilmente no. Il lavoro che svolgono questi impiegati – al
servizio del viscido Sir Simon – naturalmente pesa sulla loro
psiche, e infatti una collega di Lyra, Eileen, si suicida. Qui entra
il secondo tema: il fantasma di Eileen infesta l’edificio e
perseguita Lyra. Una sorpresa finale mostra che c’è dietro anche
di più del peso del lavoro.
Il
lato “lavoro del deleter” non è male come idea, come già detto,
ma la sceneggiatura è strascicata (fra l’altro la recitazione
della protagonista non è un gran che), mentre l’aspetto horror
spettrale non solo si sviluppa tardi ma è la più piatta e noiosa
imitazione del J-Horror che si possa immaginare.
Andiamo
in Indonesia, dove ritroviamo una regista che è quasi una regular
del festival, la brava Upi. Sri Asih è un altro tassello (dopo
Gundala di Joko Anwar, già passato al FEFF) nella costruzione di un
universo cine-fumettistico indonesiano che fa concorrenza locale al
MCU, ed è già più piacevole e divertente. Il film è una piacevole
versione cinematografica del fumetto di R.A. Kosasih su una
supereroina, incarnazione della dea Asih, apparso negli anni
Cinquanta. Siccome sono passati tanti anni, la sceneggiatura (di Upi
e Joko Anwar) ha l’intelligente trovata di non fare un reboot ma
inserire la storia della prima Sri Asih, che aveva un altro nome,
nella narrazione, come precedente incarnazione (anche con citazione
cinematografica). Alla fine si realizza anche l’incontro di Sri
Asih con Gundala, già visto nel film omonimo.
Alana,
nata da genitori morti nell’eruzione di un vulcano (che imprigiona
la malvagia Fire Goddess), ha una carriera di lottatrice
professionista sotto la guida della madre adottiva che ha una
palestra. Si scontra con il giovane Mateo (un esempio di jerk se mai
ne ho visto uno) e con suo padre, uno degli uomini più potenti del
paese. Da notare il sottotesto politico con la polizia totalmente
corrotta e asservita ai ricchi.
Questo
potrebbe essere il difetto del film: Alana è una super-picchiatrice
sul ring, ma l’elemento supereroico e soprannaturale in pratica
viene fuori dopo cinquanta minuti. Va detto però che la regia di Upi
ha un’energia per cui il film non è mai noioso. Un paio di ellissi
sfacciate servono a tenere in ombra certi sviluppi per tenerli come
sorpresa (una si prolunga anche fino al prossimo film!, sebbene non
sia troppo difficile indovinare il mistero nascosto). Dopo la
rivelazione soprannaturale il film fila liscio, con una mitologia
(creature maligne contro la dea Asih) bastante per una serie di film,
e un’avventura vivace e piacevole, dove Alana/Sri Asih ha dei
superpoteri che le permettono di stendere qualsiasi figlio di puttana
le si faccia incontro – finché non deve battersi con un demone
capace di dissolversi in fumo nel finale. Molto bella la scena
dell’iniziazione di Alana come Sri Asih, un misto di rito religioso
e di danza da parte della protagonista Pevita Pearce.
Anni
fa il FEFF ha presentato l’ottimo (e molto inquietante) horror
Satan’s Slaves di Joko Anwar. Satan’s Slaves: Communion è il
sequel, ed è il secondo di una trilogia. Dico subito che Joko Anwar
(anche sceneggiatore) ha un’ottima capacità sul piano visuale, e
il film qui ha buone carte da giocare. Però, mentre nel primo film
le immagini horror si inserivano in un continuum (indimenticabile
quella casa col ritratto che guarda dall’alto!), qui alcune
immagini memorabili emergono dal flusso come scogli isolati: Satan’s
Slaves: Communion colpisce più per le sue parti – ottimo ad
esempio l’incidente dell’ascensore – che per l’intero. Sul
piano narrativo infatti il film è alquanto faticoso, e dopo un
ottimo prologo perde spinta. Forse c’entra anche la
moltiplicazione dei personaggi attivi (qui un gruppo di giovani e un
trio di bambini). Ritornano i personaggi del primo Satan’s Slaves,
e il problema del presente film è che riposa pesantemente sul primo
– ovvero sulla conoscenza di esso da parte dello spettatore.
Alla
villetta isolata del primo film, questo oppone un enorme palazzone di
alloggi popolari, dai tetri corridoi, che ricorda molto il J-Horror.
Vero che esso consente a Joko Anwar un'inquadratura assai bella nel
finale, con la zattera che si allontana nella pianura allagata e il
palazzone sul fondo che si staglia contro il cielo tempestoso.
L’aspetto più interessante sul piano horror sono i morti nelle
case: ce ne sono molti in seguito all’incidente dell’ascensore.
Naturalmente, da un lato l’horror capitalizza sempre sulla paura
del cadavere, dall’altro questa paura per noi occidentali è
aumentata da modalità che per i musulmani sono normali (lasciare i
morti in casa col viso scoperto e cotone nelle narici prima del
funerale), e quindi deriva dall’esotismo più che dal fatto
intrinseco. Beninteso, il film li usa comunque in chiave horror.
Senza sorpresa, questi morti risorgeranno come pocong (morti viventi
nei loro sudari) – ma in modo stranamente moderato sul piano visivo:
insomma, fanno più paura da morti che da morti-vivi.
Il
film malaysiano Abang Adik ha vinto il Premio del Pubblico, nonché
altri due premi, ed ha entusiasmato gli spettatori. Opinione
personalissima, e magari errata, di uno dei pochi che non è rimasto
conquistato dal film: esordio registico di Jin Ong (già noto come
produttore: Miss Andy e altri film), da lui scritto e diretto, questo
film mi è sembrato una strana mescolanza di pregi e difetti.
Abang
e Adik significano fratello maggiore e fratello minore. Questi due
fratelli (non di sangue) vivono nella società povera di Kuala Lumpur
senza casta d’identità. Sono malaysiani di origini cinesi – una
comunità malaysiana inferiore sul piano politico a quella malese
(Malay). Il minore, Adik, è uno stronzetto che vive di espedienti;
il maggiore, Abang, che lo protegge, è sordomuto. Un’assistente
sociale cerca di proteggerli – e per tutto ringraziamento viene
uccisa (sia pure in modo preterintenzionale durante un’esplosione
di violenza) da Adik, il quale dà di matto quando sente parlare di
suo padre che lo ha abbandonato.
Questa
svolta avviene circa a metà del film, ed è un peccato perché è da
qui che Abang Adik assume un suo interesse. Abang fugge col fratello
e poi si autoaccusa dell’omicidio. In prigione cerca di lasciarsi
morire di fame ma poi accetta il suo destino (la condanna a morte).
Adik mette la testa a posto e nell’ultima inquadratura va a
incontrare suo padre. Il film è melodrammatico (non nel senso più
alto del mélo), con un paio di trovate forse troppo “poetiche”
(Abang che “vede” in cella suo fratello piccolo). In ogni modo,
c’è un elemento decisamente intenso nella recitazione muta di Kang
Ren Wu (Abang) e il suo discorso finale è potente. E’ interessante
notare come negli ultimi anni la lingua dei segni usata dai
sordomuti, che per forza di cose deve affidarsi all’aspetto
gestuale, per il potere della sua evidenza fisica ritorna sempre più
spesso nel cinema orientale (Drive My Car di Hamaguchi Ruysuke, Love
Life di Fukada Koji). La bella fotografia è di Kartic Vijay (The
Soul).
E’
puro divertimento, ma è vero divertimento, il malaysiano Coast
Guard: Ops Helang (Operazione Aquila). I membri della Guardia
Costiera contro pirati crudelissimi, che sono anche riusciti a
infiltrare le loro fila. Gli eroi sono un uomo, il tenente Hafiz, e
una donna, il tenente Melati – che nel bel mezzo dell’assalto
finale depongono le armi da fuoco per fare a pugni o a coltellate con
i rispettivi nemici personali (un po’ troppo cavalleresco a mio
parere). Dapprima i pirati, per vendicare un vecchio conto, prendono
prigionieri Hafiz e un gruppo di invitati alla sua festa di
fidanzamento, massacrando gli altri. Poi succede molto altro, ma mi
fermo per non fare spoiler.
La
realizzazione tecnica è molto buona (il
film è uno spottone per la Coast Guard, che ha evidentemente
collaborato coi suoi mezzi);
si nota una vera professionalità di regia, montaggio e fotografia,
con un buon uso del drone
fin dalla prima immagine.
Com’è prevedibile in un
film volutamente
iper-popolare, si pigia sul
pedale dell’esagerazione, con i nemici che sono sadici e ghignanti,
e il loro vice-capo (Adlin
Aman Ramlee) che cerca di
stabilire un record di overacting: ma visto il clima generale ci sta.
Devo dire che l’infiltrato
dei pirati a bordo della nave della Coast
Guard si indovina subito, ma
non importa: il film, veloce come ritmo, è comunque uno
spasso. Mi spiace aggiungere
che il regista Pitt Hanif è morto in un incidente dopo
la fine delle riprese.
Come
mi è già capitato di scrivere in questi resoconti, quest’anno il
FEFF ha superato se stesso sul piano delle retrospettive, con quattro
tributes
(Baisho Chieko, Johnnie To, Po-Chih Leong e Jang Sun-woo), un
classico del 1982 restaurato
in “prima”
internazionale (Nomad di
Patrick Tam) e una
mega-retrospettiva su grandi film degli Ottanta e Novanta, in pratica
“il FEFF prima del FEFF”. E non ho parlato degli
interessantissimi
documentari… Mai come quest’anno uno ha desiderato di possedere
il dono dell'ubiquità.