mercoledì 3 maggio 2023

Far East Film Festival 2023: Hong Kong

 

Where the Wind Blows di Philip Yung non è tanto un film d’azione (anche se non mancano scene di sparatoria) quanto un vasto, sontuoso melodramma storico che – come annuncia la voce narrante all’inizio – si estende sull’arco di tre decenni; è una cavalcata nella storia di Hong Kong, dall'occupazione giapponese agli anni Settanta, incentrata sulla corruzione endemica nella polizia hongkonghese (nessuna separazione fra good cops e bad cops qui – almeno fino alla fondazione dell’ICAP, la commissione anticorruzione), attraverso la storia personale di due ufficiali corrotti (Aaron Kwok e Tony Leung Chiu-wai). Nota che la storia dei due è una storia vera, che è già stata portata più volte sullo schermo.
Questa scorreria epica, con un racconto che salta su e giù nel tempo, con grande uso di brevi flashback, ha dei modelli evidenti: Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Sergio Leone; ma, come si addice a un film con Tony Leung Chiu-wai, ci sono anche forti riferimenti/omaggio a Wong Kar-wai, con imitazioni visuali e anche citazioni dirette (e uno dei capitoli si intitola, con un pastiche di omaggio, As Time Goes By).
Alcune immagini del film rimangono nettamente nella memoria; cito solo la bellissima inquadratura di una strada in CLL con due edifici l’uno di fronte all’altro illuminati da lampi gialli di sparatoria. Al film partecipano, accanto ai due protagonisti, moltissimi nomi famosi del cinema hongkonghese, da Michael Hui a Maggie Cheung, da Patrick Tam (l'attore) a Louis Cheung (e c’è anche il grande caratterista Richard Ng, scomparso proprio questo mese).

Un courtroom drama che come accade spesso nel genere è anche una storia di redenzione. In A Guilty Coscience di Jack Ng, grande successo a Hong Kong, l’avvocato Adrian Lam (Dayo Wong), un opportunista, si trova a difendere una donna accusata di aver ucciso sua figlia facendola cadere con una spinta; prende la faccenda sottogamba, si fa imbrogliare da un testimone che in aula dice il contrario di quanto aveva detto a lui, e la donna viene condannata. Lam impara la lezione e cambia vita. Due anni dopo si impegna per il processo di appello; si trova contro la famiglia più potente di Hong Kong, nonché il gelido e abilissimo avvocato Kam (Tse Kwan-ho, da citare per l’interpretazione eccellente: l’accenno di micro-sorriso a mezza bocca nel finale è un capolavoro).
Il film è un po’ verboso ma in verità non annoia, e l’ora finale è travolgente. Anche a parte il fascino dei processi, siamo nella classica situazione di Davide contro Golia, che coinvolge sempre. Il trionfo finale della giustizia richiede tutta la nostra facoltà di sospensione dell'incredulità; ma a che serve il cinema altrimenti?
Specialmente a Hong Kong: il sistema processuale ereditato dagli inglesi (con tanto di toghe e parrucche) è visto come l’ultima speranza. Perché a Hong Kong oggi, ogni storia assume un senso politico. E nelle ormai tradizionali inquadrature post-credits, vediamo gli attori, per bocca di due di loro, lanciare il messaggio: “Fight for Hong Kong films!”

Il titolo Everyphone Everywhere è un grazioso gioco di parole (su Everyone) per introdurre l'argomento dei cellulari, di cui parla il regista Amos Why con tre storie che si congiungono. Chung uscendo ha dimenticato il suo sul tavolo; Raymond il cellulare ce l’ha ma è stato hackerato, e dentro c’erano le prove di certe sue malefatte negli affari; Ana attende i due ex compagni a una rimpatriata dopo 25 anni. Attorno, tutte le variazioni della telecomunicazione, truffe comprese, spiritosamente visualizzate (della CGI il cinema orientale abusa, ma questo film la usa con intelligenza).
I problemi con cui si confrontano i tre sono quelli che tutti noi conosciamo. Mai provato a doversela vedere col muro delle misure di sicurezza e delle password? Ma entra un tono amarognolo quando il film usa la riunione dei tre antichi compagni per allargare la visuale e affrontare i temi del tempo trascorso, il ricordo del passato (molto belli i flashback), la tristezza del presente. Il senso malinconico del tempo appartiene a qualsiasi cinematografia – ma a Hong Kong (dove è il ricordo di un tempo in cui si poteva ancora credere nel futuro; ora Raymond sta per emigrare) comporta un’amarezza tutta sua.

La stessa amarezza si ritrova(oltre che in Vital Sign di Cheuk Wan-chi, che non ho ancora visto) nel commovente A Light Never Goes Out di Anastasia Tsang, che parla del declino dell’industria hongkonghese dei neon: formavano l’immagine stessa di Hong Kong e le autorità al servizio della Cina continentale sono intervenute caricando le insegne di intralci burocratici, costi e difficoltà nei permessi. In questo cancellare le parti più specifiche del volto della città (che comprende anche la demolizione di edifici storici) non è sbagliato vedere un’operazione analoga al tentativo di indebolire l’uso del linguaggio cantonese. Il cinema hongkonghese preservando la memoria, anche delle umili insegne al neon, reagisce all’assimilazione.

Per Mad Fate di Soi Cheang, vedi scheda sotto. Ma come non ricordare, infine, i magnifici film dei maestri Po-chi Leung e Johnnie To presenti nella retrospettiva? E il restaurato A Moment of Romance di Benny Chan - che ha chiuso alla grande il festival? 

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