Where
the Wind Blows di Philip Yung non è tanto un film d’azione (anche
se non mancano scene di sparatoria) quanto un vasto, sontuoso
melodramma storico che – come annuncia la voce narrante all’inizio
– si estende sull’arco di tre decenni; è una cavalcata nella
storia di Hong Kong, dall'occupazione giapponese agli anni Settanta,
incentrata sulla corruzione endemica nella polizia hongkonghese
(nessuna separazione fra good cops e bad cops qui – almeno fino
alla fondazione dell’ICAP, la commissione anticorruzione),
attraverso la storia personale di due ufficiali corrotti (Aaron Kwok
e Tony Leung Chiu-wai). Nota che la storia dei due è una storia
vera, che è già stata portata più volte sullo schermo.
Questa
scorreria epica, con un racconto che salta su e giù nel tempo, con
grande uso di brevi flashback, ha dei modelli evidenti: Francis Ford
Coppola, Martin Scorsese, Sergio Leone; ma, come si addice a un film
con Tony Leung Chiu-wai, ci sono anche forti riferimenti/omaggio a
Wong Kar-wai, con imitazioni visuali e anche citazioni dirette (e uno
dei capitoli si intitola, con un pastiche di omaggio, As Time Goes
By).
Alcune
immagini del film rimangono nettamente nella memoria; cito solo la
bellissima inquadratura di una strada in CLL con due edifici l’uno
di fronte all’altro illuminati da lampi gialli di sparatoria. Al
film partecipano, accanto ai due protagonisti, moltissimi nomi famosi
del cinema hongkonghese, da Michael Hui a Maggie Cheung, da Patrick
Tam (l'attore) a Louis Cheung (e c’è anche il grande caratterista
Richard Ng, scomparso proprio questo mese).
Un
courtroom drama che come accade spesso nel genere è anche una storia
di redenzione. In A Guilty Coscience di Jack Ng, grande successo a
Hong Kong, l’avvocato Adrian Lam (Dayo Wong), un opportunista, si
trova a difendere una donna accusata di aver ucciso sua figlia
facendola cadere con una spinta; prende la faccenda sottogamba, si fa
imbrogliare da un testimone che in aula dice il contrario di quanto
aveva detto a lui, e la donna viene condannata. Lam impara la lezione
e cambia vita. Due anni dopo si impegna per il processo di appello;
si trova contro la famiglia più potente di Hong Kong, nonché il
gelido e abilissimo avvocato Kam (Tse Kwan-ho, da citare per
l’interpretazione eccellente: l’accenno di micro-sorriso a mezza
bocca nel finale è un capolavoro).
Il
film è un po’ verboso ma in verità non annoia, e l’ora finale è
travolgente. Anche a parte il fascino dei processi, siamo nella
classica situazione di Davide contro Golia, che coinvolge sempre. Il
trionfo finale della giustizia richiede tutta la nostra facoltà di
sospensione dell'incredulità; ma a che serve il cinema altrimenti?
Specialmente
a Hong Kong: il sistema processuale ereditato dagli inglesi (con
tanto di toghe e parrucche) è visto come l’ultima speranza. Perché
a Hong Kong oggi, ogni storia assume un senso politico. E nelle ormai
tradizionali inquadrature post-credits, vediamo gli attori, per bocca
di due di loro, lanciare il messaggio: “Fight for Hong Kong films!”
Il
titolo Everyphone Everywhere è un grazioso gioco di parole (su
Everyone) per introdurre l'argomento dei cellulari, di cui parla il
regista Amos Why con tre storie che si congiungono. Chung uscendo ha
dimenticato il suo sul tavolo; Raymond il cellulare ce l’ha ma è
stato hackerato, e dentro c’erano le prove di certe sue malefatte
negli affari; Ana attende i due ex compagni a una rimpatriata dopo 25
anni. Attorno, tutte le variazioni della telecomunicazione, truffe
comprese, spiritosamente visualizzate (della CGI il cinema orientale
abusa, ma questo film la usa con intelligenza).
I
problemi con cui si confrontano i tre sono quelli che tutti noi
conosciamo. Mai provato a doversela vedere col muro delle misure di
sicurezza e delle password? Ma entra un tono amarognolo quando il
film usa la riunione dei tre antichi compagni per allargare la
visuale e affrontare i temi del tempo trascorso, il ricordo del
passato (molto belli i flashback), la tristezza del presente. Il
senso malinconico del tempo appartiene a qualsiasi cinematografia –
ma a Hong Kong (dove è il ricordo di un tempo in cui si poteva
ancora credere nel futuro; ora Raymond sta per emigrare) comporta
un’amarezza tutta sua.
La stessa amarezza si ritrova(oltre che in Vital Sign di Cheuk Wan-chi, che non ho ancora visto) nel commovente A Light Never Goes Out di Anastasia Tsang, che parla del declino dell’industria hongkonghese dei neon: formavano l’immagine stessa di Hong Kong e le autorità al servizio della Cina continentale sono intervenute caricando le insegne di intralci burocratici, costi e difficoltà nei permessi. In questo cancellare le parti più specifiche del volto della città (che comprende anche la demolizione di edifici storici) non è sbagliato vedere un’operazione analoga al tentativo di indebolire l’uso del linguaggio cantonese. Il cinema hongkonghese preservando la memoria, anche delle umili insegne al neon, reagisce all’assimilazione.
Per Mad Fate di Soi Cheang, vedi scheda sotto. Ma come non ricordare, infine, i magnifici film dei maestri Po-chi Leung e Johnnie To presenti nella retrospettiva? E il restaurato A Moment of Romance di Benny Chan - che ha chiuso alla grande il festival?
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