Tutti
i film hanno un testo e un sottotesto. Come testo, Bad Education –
diretto dall’esordiente Kai Ko e scritto dal famoso sceneggiatore
Giddens Ko – è un semi-thriller. Tre odiosi studentelli, ubriachi
persi, sul tetto a terrazza di un edificio stanno celebrando il
diploma che conclude gli anni del liceo. Si sfidano a raccontare la
cosa peggiore che abbiano mai fatto e due di loro saltano fuori con
orrori terribili, che per fortuna sono menzogne, sebbene visualizzate
in pseudo-flashback (Giddens Ko è lo sceneggiatore più sadico di
Taiwan, anzi, di tutte le Cine). Il terzo è un perfettino, l’unico
di famiglia ricca; lo spingono ad assalire – rompendogli una
bottiglia in testa e inondandolo di vernice – un uomo per strada;
siccome costui è (si capiva a prima vista) un gangster, ecco i tre
giovani cretini in fuga disperata, inseguiti da un’intera banda di
malavitosi imbufaliti.
Teso,
sanguinoso, perversamente umoristico e cupamente intelligente, Bad
Education è la cronaca dell’orrenda notte interminabile passata
dai tre. Sotto la struttura del thriller, il film si potrebbe
paragonare a Carnage di Roman Polanski: un gioco al massacro
psicologico in cui vengono fuori le verità, nel loro rapporto ma
anche su se stessi. Dopo, nessuno sarà mai più come prima, quando
si allontanano separati in un’alba livida.
Sebbene
nella prima parte il film ci mostri alcune visioni delle strade
notturne di Taipei, la seconda si svolge tutta dentro un ristorante
chiuso, il numero ridotto di interpreti lo conferma come un
Kammerspiel. Il catalizzatore di questa sanguinaria seduta di
autoanalisi a base di dita tagliate è un boss della malavita che
riesce a essere insieme civile e crudele, diabolico e perfino quasi
paterno, nell’interpretazione veramente monumentale di Leon Dai.
Day
Off (regia di Fu Tien-yu) perché l’anziana parrucchiera A-Rui,
affezionata ai suoi vecchi clienti, si prende un giorno libero per un
avventuroso viaggio allo scopo di andare a tagliare i capelli al
signor Ko, gravemente malato, nella sua casa in campagna. La scena in
cui lei taglia i capelli al vecchio signore in coma, alla presenza
dei familiari commossi, ha fatto emergere agli occhi di molti
spettatori l’analogia con Departures di Takita Yojiro; ed è
verissimo, ma a patto di aggiungere che l’analogia non si esaurisce
in questa scena. Al pari di Departures, Day Off è un film
profondamente umanistico, basato su una comprensione della continuità
profonda dell’esistenza nei rapporti umani: là, ovviamente, la
famiglia, qui, accanto alla famiglia, il rapporto di servizio e
amicizia negli anni fra la parrucchiera e i suoi clienti. A
unificarli sta il principio della continuità (“Le parrucchiere
sono come le mogli: è difficile cambiare”). Il film si muove nella
dimensione, venata di elegia, dell’amore per le piccole cose (i
ravanelli sono il meglio della vita, sentiamo nel finale
post-credits) e delle relazioni di lunga durata, ed ha il
merito di ricordarci il legame fra le une e le altre, perché
entrambe si oppongono all’ansia contemporanea. Ne è una metafora
l’automobile della parrucchiera, che ha 30 anni e lei non vuole
cambiare e continua a far riparare – “Niente di sbagliato nell’essere di seconda mano”.
L’attrice
taiwanese Lu Hsiao-fen, che aveva esordito nel 1983 col violento The
Lady Avenger e aveva interpretato l’ultimo film nel 2000, ritorna
ora con un’eccellente interpretazione come A-Rui, e contribuisce a
dare a Day Off il suo elemento di sincerità. Sincerità che nasce
anche dall’aspetto personale che la regista e sceneggiatrice Fu
Tien-yu porta nel racconto: sua madre è appunto un’anziana
parrucchiera, e il suo negozio è quello che appare nelle riprese.
Gaga ci porta dentro la vita quotidiana della popolazione aborigena Tayal di Taiwan, cui la regista Laha Mebow appartiene. E’ una fiction con sottotoni documentaristici – interessante l’uso dei maiali da uccidere nelle feste come una specie di moneta sociale – e persino una certa aria neorealista nell'impiego di attori indigeni non professionisti. Il film presenta la vita di una famiglia locale dopo la morte del nonno-patriarca, con la disastrosa campagna elettorale di uno dei fratelli. Un giovane “precipitato” dal mondo esterno e innamorato della ragazza della famiglia porta una nota divertente per via della barriera linguistica (i Tayal parlano la propria lingua, lui parla inglese con la ragazza) che consente un inganno quando lui partecipa a una cerimonia di fidanzamento fatta passare per una festa a scopi elettorali.
The Abandoned di Tseng Ying-ting è un buon thriller, con un serial killer collezionista di cuori e dita mozzate, che diventa un’opportunità per allargare lo sguardo alla società sotterranea degli immigrati illegali. Ben definita la figura della protagonista, una poliziotta il cui marito si è suicidato e che di conseguenza medita il suicidio anche lei; ma la caccia all’assassino serve a riportarla verso la vita. Non ci sono grandi novità (neanche questo sguardo sull’immigrazione è in realtà inedito) ma dignitoso artigianato che non fa rimpiangere il tempo speso.
Circa il film, che non ho visto, Untold Herstory ci vuole però una piccola digressione filologica. La parola inglese history viene dal latino historia. Ora, le femministe americane sono così ignoranti che hanno preso la sillaba iniziale his per l’aggettivo possessivo maschile inglese, sicché hanno voluto sostituirci l’equivalente femminile her. Uno stupro della lingua e dell’etimologia (il Lucus a non lucendo di Isidoro di Siviglia almeno era divertente).
Mi
spiace di aver perso Marry My Dead Body, però mai come quest’anno
è stato difficile scegliere fra i film della selezione al Teatro e
quelli di una eccezionale multi-retrospettiva al Visionario. Questo
breve giro non sarebbe completo se si menzionasse almeno un
capolavoro taiwanese del 1984, poco conosciuto, visto restaurato
nella splendida retrospettiva (che comprendeva anche
Dust in the Wind di Hou Hsiao-hsien e Dust of Angels di Hsu
Hsiao-ming). Teenage Fugitive è stato diretto da Chang Pei-cheng e
scritto, assieme al regista, dal futuro grande regista Tsai
Ming-liang.
E’
una commedia deliziosa, con un tocco di suspense oggettiva: cosa
succede in una famiglia quando si introduce in casa un fuggitivo
armato di pistola, ricercato per omicidio e rapina? Una famiglia
della Taipei ricca che rappresenta vari tipi di solitudine: la madre
che lavora e quando torna a casa pensa a giocare a mahjong, la figlia
maggiore occhialuta e ultraromantica, il foglio di mezzo pigro a
scuola e con Penthouse nascosta sotto il letto – e il piccolo Hung,
il protagonista. Lo chiamano, anche i familiari, matto, mezzo matto,
autistico, perché vive in un modo di fantasia. Significativamente,
il padre non si vede, non solo perché è in viaggio: nemmeno
sentiamo la sua voce quando telefona. Non è privo di significato
simbolico che il padre di questa famiglia semi-disfunzionale sia un
fabbricante di preservativi.
Lo
sguardo del film sull'infanzia (il piccolo Hung) si può veramente
definire truffautiano per freschezza e sensibilità. Ma
in questa commedia è anche ammirevole il ritmo. La fluidità, la
velocità, il perfetto montaggio, l’intelligente fotografia e il
gioco coordinato degli attori la rendono una cavalcata tumultuosa
piena d’intelligenza e leggerezza.
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