“C’è
un metodo nella sua follia”, dice Polonio di Amleto. Appunto: un
film demenziale cammina su un crinale sottile, e si può dire
riuscito solo quando dietro la sciocchezza occhieggia l’intelligenza,
dietro la presa pel bavero traspare la complicità, onde il piacere è
di farsi trascinare dalla sua spudoratezza. È il caso di Killing
Romance di Lee Won-suk. Il plot potrebbe essere la base per un film
di Hitchcock: una cantante ha sposato un uomo affascinante per poi
accorgersi che è un tiranno che la tiene pressoché prigioniera,
oltre che un gangster nella vita pubblica; l’unica soluzione è
ucciderlo, con l'aiuto di un vecchio ammiratore.
Ma
non c’è Hitchcock qui: c’è un puro, e assai divertente, tuffo
nella follia narrativa (dove si riconosce il regista di How to Use
Guys with Secret Tips), condita di canzoni e assurdità, la sauna più
calda del mondo, uno struzzo volante, e molta CGI, essa stessa presa
in giro attraverso l’esagerazione. C’è un uso intelligente e
divertente dello sfondo finto, che da un lato rientra nel diegetico,
dall’altro strizza l'occhio allo spettatore. Non per nulla c’è
una cornice (televisiva) in cui una influencer americana presenta sul
“Debbie Reading Bus” il libro, appena arrivato dal Far East, The
Killing Romance, con un inizio tipo fiaba (“C’era una volta”);
vale a dire, è un racconto in digitale all’interno di un racconto
in digitale. In questo senso, tutto è lecito. Infatti nel film è
centrale il concetto di visualizzazione, coi personaggi che agiscono
e poi tornano indietro sulla loro azione per dire che è impossibile;
con gli sguardi in macchina; con la logica già traballante (leggi:
comica) dell’assunto che va in pezzi in attacchi di pura follia.
E
che eccellenti attori! Con Lee Sun-kyung (il marito) che si diverte
moltissimo nel ruolo anche a livello di pura mimica facciale e Lee
Ha-nee (la moglie aspirante vedova) che centra il personaggio con
un’interpretazione comica e tragica allo stesso tempo.
Il
cinema coreano comprende un vasto sottogenere storico sui sanguinosi
drammi politici nell’epoca Joseon. I coreani hanno avuto una storia
di congiure e di tiranni non inferiore a quella dell’impero romano.
Il più famoso dei tiranni coreani è il terribile re Yeonsan
(protagonista di una sfilza di film) ma anche re Injo, che compare in
The Night Owl di An Tae-jin, non scherza. Il film è la storia di un
maestro dell’agopuntura che soffre di cecità diurna: ovvero, di
giorno è cieco, di notte, a candele spente, ci vede abbastanza bene
(ciò implica nel film un eccellente lavoro sull’illuminazione, con
un dialogo fra inquadrature oggettive e soggettive). Tuttavia lui non
propala questa sua condizione e preferisce farsi passare per cieco
assoluto. Chiamato a lavorare a corte, è testimone involontario di
un delitto perpetrato nelle alte sfere sotto la finzione di curare un
attacco di malaria. Vorrebbe tacere: del resto, chi immaginerebbe mai
che un cieco abbia visto? Nondimeno, per un insieme di
circostanze finisce implicato nei delittuosi maneggi al vertice del
regno.
Questo
è il plot, che naturalmente offre il destro per una spettacolare
ricostruzione storica (una caratteristica del cinema coreano). Un
tema fondamentale nel film è quello del vedere, che attraverso il
dialogo, con un’insistenza addirittura barocca, diventa una grande
metafora politica relativa ai rapporti di classe (i poveri non devono
vedere, vale a dire, non devono parlare) e alle tortuosità
shakespeariane delle lotte dei potenti.
Ma
a livello tematico The Night Owl contiene anche un livello superiore:
è ossessionato dal concetto del raddoppiamento. Già il protagonista
è un uomo doppio, cieco e vedente insieme. Ma compaiono nel film, a
partire da due condizioni sociali opposte, due agopuntori, due
bambini di dieci anni, due dame di corte (una in ascesa e una in
rovina), due morti perfettamente analoghe, e altro ancora...
In
The Other Child Isaac, un bambino orfano con pesanti occhiali che sta
diventando cieco, viene adottato da una famiglia cristiana che ha tre
figli e ne ha perso il quarto, Han-byul, annegato nel lago. Il padre
è un reverendo autoritario; sua moglie è ancora sotto shock per la
morte di Han-byul e chiaramente non è entusiasta dell'adozione; la
figlia maggiore, Joo-eun, ha tratti di mania religiosa, ed è
inquietante come Mercoledì Addams nella vecchia serie tv. Per
Joo-eun, che si porta dietro i fratelli minori, Isaac non è il
benvenuto; quando poi il bambino comincia a vedere il fantasma di
Han-byul le cose precipitano –
perché al centro sta
proprio il mistero di quella morte.
Scritto
e diretto da Kim Jin-young, The Other Child è un horror eccellente e
molto cupo, che potrebbe ritagliarsi un posticino nella lista dei
migliori horror coreani – anche perché, come tutti i grandi
horror, va al di là della semplice logica dello spavento per
affrontare temi generali (la religione, il demonio, la presenza o
meno di Dio nella famiglia, i sentimenti nascosti, il dolore, la
colpa). La conclusione formalmente chiusa ma in realtà apertissima
ci lascia pensosi e tutt’altro che rassicurati nonostante
l’emergere finale del tema del perdono.
In
due interpretazioni di alto livello c’è una gara di sommessa
terribilità espressiva tra la madre e la figlia maggiore, connessa
al sospetto sull’accaduto, che il film mantiene per quasi tutta la
sua durata, in un quadro di dolore universale. Ottimi anche gli
aspetti tecnici: fotografia, montaggio (però menzionare un paio di
finezze costringerebbe a fare degli spoiler). Molto apprezzabile una
scena di esorcismo, verso la fine, in cui il comportamento tipico
della persona posseduta (compreso il sarcasmo) viene mantenuto, e
però riportato alla “giustificazione” diegetica di una falsa accusa. E’ un film
che tratta con abilità, come qui sul piano della fotografia, la
confusione fra oggettivo e soggettivo.
L'atmosfera
– non il plot – del film ricorda The Turn of the Screw
di Henry James (da cui il film The Innocents di Jack Clayton). Questo
perché come in James vediamo la fusione di innocenza e perversione
(e qui non occorre neppure un agente esterno come gli spettri dei
servitori di The Turn of the Screw).
The
Wild, noir gangsteristico di Kim Bong-han, ha il più tradizionale
degli inizi. Il protagonista Song è andato in galera per aver ucciso
un giovane in un incontro di boxe clandestina legato al giro delle
scommesse; quando esce, il suo amico, un boss della mala, va a
prenderlo. Siccome Song (pieno di rimorsi per la morte del giovane)
vuole vivere onestamente d’ora in poi, il suo amico è perplesso ma
gli dà da gestire un bar. Va da sé che vivere in pace non sarà
possibile, e il film assume un ritmo incalzante, mentre si prepara un
grosso piano di consegna di droga nel quale tutti vogliono fregare
tutti.
The
Wild è decisamente atmosferico nel suo carattere ultra-nero, e
contiene un elemento interessante nello sguardo su figure meno
frequentate nel cinema come i malavitosi nordcoreani. I personaggi
non saranno il massimo dell’originalità ma sono tratteggiati in
buone interpretazioni li ravvivano (come il poliziotto corrotto e
drogato). Sopra tutti, il protagonista, interpretato da Park
Sun-woon, ha una forza silenziosa e massiccia un po’ alla Jean
Gabin. Nota che l’attore è nato al Nord, e questo lo aiuta nella
parte.
E’
un film molto cupo, dove il côté patetico non manca ma è tenuto
sotto controllo. A tal proposito… piccolo semi-spoiler… l’ultima
immagine sembra postulare il tradizionale “recupero” da happy end
imprevista – e invece, con uno sviluppo pressoché geniale, il film
procede a rivelarcela come triste allucinazione.
Una
gigantesca immagine di Marlene Dietrich campeggia sopra l’entrata
di un cinema all’inizio di Phantom di Lee Hae-young. Questo film
(ambientato nel 1933 durante l'occupazione giapponese della Corea)
comincia sotto il segno di due classici: Shanghai Express di Josef
von Sternberg e Dracula di Tod Browning. Il romanticismo estremo e
l’estremo orrore (un personaggio così definisce Dracula: “un
demone assetato di sangue che si sveglia la notte” – sarebbe
interessante sapere se quel poster che rende Bela Lugosi più
mostruoso è un intervento del presente film o un manifesto adattato all’epoca
per il pubblico coreano).
Ma
anche un riferimento sessuale: gli overtones lesbici fra Marlene
Dietrich e Anna May Wong in Sternberg sfociano nel lesbismo dichiarato di Phantom.
E soprattutto una dichiarazione di messa in scena estrema che
travalica il riferimento storico, con il crudele comandante
giapponese che riunisce cinque sospettati (fra di loro si annida una
spia della resistenza coreana in seno alle alte sfere) in un albergo
che non dimenticheremo più, un mostruoso Overlook, dove si gioca la
loro partita per la sopravvivenza fra ambiguità e rovesciamenti.
La
seconda parte del film è tutta fughe e sparatorie; dalla tensione
che bolle si passa all’azione estremizzata; ma dopo questi due atti
il film passa, inaspettatamente, a un terzo, aperto dall’incongruo
stacco di montaggio su una piccola banda in un teatro – e qui il
film diventa meta teatrale. Per concludersi alfine in un’immagine
solenne, inquietante, cinematografica, come un film di gangster
americano degli anni ‘30.
Menzionando
di passaggio Ditto di Seo
Eun-young, remake del film
di Kim Hung-kwon del
2000, in cui un vecchio
apparecchio per radioamatori e una cabina telefonica collegano
magicamente un ragazzo e una ragazza del 1999 e del 2021, rimando
alla mia scheda sul Catalogo del FEFF per il piacevole pot-pourri di
generi Emergency Declaration di Han Jae-rim. Mi spiace di non aver
ancora visto Rebound di Chang Hang-jun. Ma, come per altre nazioni,
la stella della Corea rifulge anche nelle retrospettive – in primo
luogo con l’audacissimo e genialissimo
Jang Sun-woo (Lies, To You, from Me).
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