sabato 6 maggio 2023

Far East Film Festival 2023: Corea


C’è un metodo nella sua follia”, dice Polonio di Amleto. Appunto: un film demenziale cammina su un crinale sottile, e si può dire riuscito solo quando dietro la sciocchezza occhieggia l’intelligenza, dietro la presa pel bavero traspare la complicità, onde il piacere è di farsi trascinare dalla sua spudoratezza. È il caso di Killing Romance di Lee Won-suk. Il plot potrebbe essere la base per un film di Hitchcock: una cantante ha sposato un uomo affascinante per poi accorgersi che è un tiranno che la tiene pressoché prigioniera, oltre che un gangster nella vita pubblica; l’unica soluzione è ucciderlo, con l'aiuto di un vecchio ammiratore.
Ma non c’è Hitchcock qui: c’è un puro, e assai divertente, tuffo nella follia narrativa (dove si riconosce il regista di How to Use Guys with Secret Tips), condita di canzoni e assurdità, la sauna più calda del mondo, uno struzzo volante, e molta CGI, essa stessa presa in giro attraverso l’esagerazione. C’è un uso intelligente e divertente dello sfondo finto, che da un lato rientra nel diegetico, dall’altro strizza l'occhio allo spettatore. Non per nulla c’è una cornice (televisiva) in cui una influencer americana presenta sul “Debbie Reading Bus” il libro, appena arrivato dal Far East, The Killing Romance, con un inizio tipo fiaba (“C’era una volta”); vale a dire, è un racconto in digitale all’interno di un racconto in digitale. In questo senso, tutto è lecito. Infatti nel film è centrale il concetto di visualizzazione, coi personaggi che agiscono e poi tornano indietro sulla loro azione per dire che è impossibile; con gli sguardi in macchina; con la logica già traballante (leggi: comica) dell’assunto che va in pezzi in attacchi di pura follia.
E che eccellenti attori! Con Lee Sun-kyung (il marito) che si diverte moltissimo nel ruolo anche a livello di pura mimica facciale e Lee Ha-nee (la moglie aspirante vedova) che centra il personaggio con un’interpretazione comica e tragica allo stesso tempo.

Il cinema coreano comprende un vasto sottogenere storico sui sanguinosi drammi politici nell’epoca Joseon. I coreani hanno avuto una storia di congiure e di tiranni non inferiore a quella dell’impero romano. Il più famoso dei tiranni coreani è il terribile re Yeonsan (protagonista di una sfilza di film) ma anche re Injo, che compare in The Night Owl di An Tae-jin, non scherza. Il film è la storia di un maestro dell’agopuntura che soffre di cecità diurna: ovvero, di giorno è cieco, di notte, a candele spente, ci vede abbastanza bene (ciò implica nel film un eccellente lavoro sull’illuminazione, con un dialogo fra inquadrature oggettive e soggettive). Tuttavia lui non propala questa sua condizione e preferisce farsi passare per cieco assoluto. Chiamato a lavorare a corte, è testimone involontario di un delitto perpetrato nelle alte sfere sotto la finzione di curare un attacco di malaria. Vorrebbe tacere: del resto, chi immaginerebbe mai che un cieco abbia vistoNondimeno, per un insieme di circostanze finisce implicato nei delittuosi maneggi al vertice del regno.
Questo è il plot, che naturalmente offre il destro per una spettacolare ricostruzione storica (una caratteristica del cinema coreano). Un tema fondamentale nel film è quello del vedere, che attraverso il dialogo, con un’insistenza addirittura barocca, diventa una grande metafora politica relativa ai rapporti di classe (i poveri non devono vedere, vale a dire, non devono parlare) e alle tortuosità shakespeariane delle lotte dei potenti.
Ma a livello tematico The Night Owl contiene anche un livello superiore: è ossessionato dal concetto del raddoppiamento. Già il protagonista è un uomo doppio, cieco e vedente insieme. Ma compaiono nel film, a partire da due condizioni sociali opposte, due agopuntori, due bambini di dieci anni, due dame di corte (una in ascesa e una in rovina), due morti perfettamente analoghe, e altro ancora...

In The Other Child Isaac, un bambino orfano con pesanti occhiali che sta diventando cieco, viene adottato da una famiglia cristiana che ha tre figli e ne ha perso il quarto, Han-byul, annegato nel lago. Il padre è un reverendo autoritario; sua moglie è ancora sotto shock per la morte di Han-byul e chiaramente non è entusiasta dell'adozione; la figlia maggiore, Joo-eun, ha tratti di mania religiosa, ed è inquietante come Mercoledì Addams nella vecchia serie tv. Per Joo-eun, che si porta dietro i fratelli minori, Isaac non è il benvenuto; quando poi il bambino comincia a vedere il fantasma di Han-byul le cose precipitanoperché al centro sta proprio il mistero di quella morte.
Scritto e diretto da Kim Jin-young, The Other Child è un horror eccellente e molto cupo, che potrebbe ritagliarsi un posticino nella lista dei migliori horror coreani – anche perché, come tutti i grandi horror, va al di là della semplice logica dello spavento per affrontare temi generali (la religione, il demonio, la presenza o meno di Dio nella famiglia, i sentimenti nascosti, il dolore, la colpa). La conclusione formalmente chiusa ma in realtà apertissima ci lascia pensosi e tutt’altro che rassicurati nonostante l’emergere finale del tema del perdono.
In due interpretazioni di alto livello c’è una gara di sommessa terribilità espressiva tra la madre e la figlia maggiore, connessa al sospetto sull’accaduto, che il film mantiene per quasi tutta la sua durata, in un quadro di dolore universale. Ottimi anche gli aspetti tecnici: fotografia, montaggio (però menzionare un paio di finezze costringerebbe a fare degli spoiler). Molto apprezzabile una scena di esorcismo, verso la fine, in cui il comportamento tipico della persona posseduta (compreso il sarcasmo) viene mantenuto, e però riportato alla “giustificazione” diegetica di una falsa accusa. E’ un film che tratta con abilità, come qui sul piano della fotografia, la confusione fra oggettivo e soggettivo.
L'atmosfera – non il plot – del film ricorda The Turn of the Screw di Henry James (da cui il film The Innocents di Jack Clayton). Questo perché come in James vediamo la fusione di innocenza e perversione (e qui non occorre neppure un agente esterno come gli spettri dei servitori di The Turn of the Screw).

The Wild, noir gangsteristico di Kim Bong-han, ha il più tradizionale degli inizi. Il protagonista Song è andato in galera per aver ucciso un giovane in un incontro di boxe clandestina legato al giro delle scommesse; quando esce, il suo amico, un boss della mala, va a prenderlo. Siccome Song (pieno di rimorsi per la morte del giovane) vuole vivere onestamente d’ora in poi, il suo amico è perplesso ma gli dà da gestire un bar. Va da sé che vivere in pace non sarà possibile, e il film assume un ritmo incalzante, mentre si prepara un grosso piano di consegna di droga nel quale tutti vogliono fregare tutti.
The Wild è decisamente atmosferico nel suo carattere ultra-nero, e contiene un elemento interessante nello sguardo su figure meno frequentate nel cinema come i malavitosi nordcoreani. I personaggi non saranno il massimo dell’originalità ma sono tratteggiati in buone interpretazioni li ravvivano (come il poliziotto corrotto e drogato). Sopra tutti, il protagonista, interpretato da Park Sun-woon, ha una forza silenziosa e massiccia un po’ alla Jean Gabin. Nota che l’attore è nato al Nord, e questo lo aiuta nella parte.
E’ un film molto cupo, dove il côté patetico non manca ma è tenuto sotto controllo. A tal proposito… piccolo semi-spoiler… l’ultima immagine sembra postulare il tradizionale “recupero” da happy end imprevista – e invece, con uno sviluppo pressoché geniale, il film procede a rivelarcela come triste allucinazione.

Una gigantesca immagine di Marlene Dietrich campeggia sopra l’entrata di un cinema all’inizio di Phantom di Lee Hae-young. Questo film (ambientato nel 1933 durante l'occupazione giapponese della Corea) comincia sotto il segno di due classici: Shanghai Express di Josef von Sternberg e Dracula di Tod Browning. Il romanticismo estremo e l’estremo orrore (un personaggio così definisce Dracula: “un demone assetato di sangue che si sveglia la notte” – sarebbe interessante sapere se quel poster che rende Bela Lugosi più mostruoso è un intervento del presente film o un manifesto adattato all’epoca per il pubblico coreano).
Ma anche un riferimento sessuale: gli overtones lesbici fra Marlene Dietrich e Anna May Wong in Sternberg sfociano nel lesbismo dichiarato di Phantom. E soprattutto una dichiarazione di messa in scena estrema che travalica il riferimento storico, con il crudele comandante giapponese che riunisce cinque sospettati (fra di loro si annida una spia della resistenza coreana in seno alle alte sfere) in un albergo che non dimenticheremo più, un mostruoso Overlook, dove si gioca la loro partita per la sopravvivenza fra ambiguità e rovesciamenti.
La seconda parte del film è tutta fughe e sparatorie; dalla tensione che bolle si passa all’azione estremizzata; ma dopo questi due atti il film passa, inaspettatamente, a un terzo, aperto dall’incongruo stacco di montaggio su una piccola banda in un teatro – e qui il film diventa meta teatrale. Per concludersi alfine in un’immagine solenne, inquietante, cinematografica, come un film di gangster americano degli anni ‘30.

Menzionando di passaggio Ditto di Seo Eun-young, remake del film di Kim Hung-kwon del 2000, in cui un vecchio apparecchio per radioamatori e una cabina telefonica collegano magicamente un ragazzo e una ragazza del 1999 e del 2021, rimando alla mia scheda sul Catalogo del FEFF per il piacevole pot-pourri di generi Emergency Declaration di Han Jae-rim. Mi spiace di non aver ancora visto Rebound di Chang Hang-jun. Ma, come per altre nazioni, la stella della Corea rifulge anche nelle retrospettive – in primo luogo con l’audacissimo e genialissimo Jang Sun-woo (Lies, To You, from Me).

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