Bang
all'improvviso! Spesso nei film di Quentin Tarantino il colpo di
violenza omicida entra nella narrazione in modo imprevisto e
fulmineo, come una gag (onde l'imprevedibilità produce un effetto
quasi comico). Succede anche in “Django Unchained”. Non è solo
il bizzarro sense of humour dell'autore: è il riflesso di un
universo caotico. Ma una simile concezione del mondo si trova anche
nel western italiano, e segnatamente nell'opera nera e tragica di
Sergio Corbucci (“Il grande silenzio” - tenuto presente in”Django
Unchained” sul piano visivo - finisce addirittura con la morte dei
buoni e degli ostaggi e la vittoria dei cattivi; mentre “caos” è
il solo termine adatto per il mondo impastato di fango e sangue in
cui l'eponimo “Django” trascina la sua bara). E' dunque più
della semplice passione cinefila che ha portato Tarantino a rendere
omaggio a Corbucci nel nome dell'eroe del suo western - con tanto di
dialogo tra il protagonista Jamie Foxx e Franco Nero in
partecipazione straordinaria circa lo spelling e la pronuncia
del nome (va da sé che i titoli di testa sono puro spaghetti western
e su di essi risuona la canzone di Bacalov per il “Django”
corbucciano).
Dunque
noi abitiamo un mondo in preda al caos (un “Planet of Terror”,
direbbero i gemelli siamesi cinematografici Tarantino e Rodriguez),
nel quale galleggiano come relitti su un mare tempestoso i nostri
sentimenti. Come l'amore per cui lo schiavo liberato Django vede
comparire di continuo (nel fiume gelato in cui si bagna, nella
piantagione che attraversa a cavallo) l'immagine fantasma della
moglie perduta Broomhilda, che sta andando a liberare (non
dimenticate mai la carica di romanticismo nascosta in Tarantino!).
Alberto
Pezzotta in un'illuminante messa a punto ha ricordato come
l'ispirazione massima di Tarantino sia il cinema di Hong Kong e ha
osservato che i protagonisti di “Django Unchained” somigliano,
più che ai cinici eroi picareschi di Sergio Leone, a quelli del
western americano: giusti, motivati, altruisti. Verissimo, ma
bisognerebbe aggiungere che nel loro altruismo - come lo incarna
Christoph Waltz nel film - permane un'ombra molto tarantiniana di
folle eccentricità (nota in margine: questa è la seconda volta che
Christoph Waltz senza essere il protagonista - villain in
“Bastardi senza gloria”, deuteragonista in “Django Unchained”
- ruba il film in quanto personaggio più interessante di tutti).
Oltre a tutto il personaggio di Waltz, rientra nell'imprevedibilità dei sentimenti uno dei tratti più
originali del film, il rapporto di amicizia (e quasi parentale) tra
il negriero Leonardo Di Caprio e il vecchio maggiordomo negro Samuel
L. Jackson, più bastardo e razzista del bastardo suo padrone.
In
una scena affascinante Christoph Waltz racconta a Django, presso il
fuoco del bivacco, il mito tedesco di Brunilde (sua moglie è stata
chiamata Broomhilda dagli ex padroni tedeschi); e il chiarore e
l'ombra di lui si riflettono sulla parete di roccia. Un richiamo alla
caverna platonica mi sembra assai probabile. Renderebbe chiara la
concezione di Tarantino del cinema come copia delle idee: non le idee
primarie dell'iperuranio platonico ma i grandi grumi mitologici che
determinano la nostra Weltanschauung, e di cui è
materializzazione il cinema (per Tarantino, l'unica realtà concreta:
cfr. l'uso a dir poco disinvolto dei fatti storici in “Bastardi
senza gloria”). Anche sul piano dell'onomastica: in Tarantino i
nomi sono delle evocazioni.
Platone
e Tarantino? Perché no? Lo stesso titolo, oltre che riferirsi alle
catene reali e metaforiche degli schiavi, potrebbe strizzar l'occhio
alla tradizione classica (“Prometheus Unchained”). E qui si
aprirebbero – ma dobbiamo lasciarle qui – interessanti
suggestioni sulla natura stessa dell'epos tarantiniano. Non è
anche l'Iliade un universo di caos?
Se inseriamo “Django Unchained” nella cronologia del cinema di
Tarantino, si rafforza però un dubbio già fatto sorgere da
“Bastardi senza gloria”: magnifici film entrambi, ma autorizzano
l'ipotesi che Tarantino sia passato (per continuare a usare il
linguaggio della classicità) dall'età aurea a
quella argentea. Perché vi sono in “Django” come in “Bastardi”
pagine di grandissimo cinema - ma i due film non hanno la perentoria
compattezza drammatica dei capolavori del periodo precedente, dal
folgorante esordio de Le iene” all'esplosione enciclopedica
di “Kill Bill”. In “Django” si ha l'impressione che quella
calibratissima scansione dei tempi, che è sempre stata una delle
glorie di Tarantino, nella seconda parte cigoli un po'.
E' poi
col personaggio di Broomhilda che ci accorgiamo che qualcosa non va
nella scrittura. “Piccola peste”, la chiama affettuosamente
Django più d'una volta - il che farebbe pensare a un personaggio
alla Katharine Hepburn, a un'ipotesi di dialogo screwball. Ma
piccola peste nel film Broomhilda non lo è mai: è la classica
damsel in distress, che per tutto il film non fa che piangere
e tremare. Era un personaggio più vivace e spiritoso la ragazza
negra che accompagna Django nella piantagione di Big Daddy in
precedenza. Giacché Tarantino ha realizzato alcuni dei più bei
ritratti femminili del cinema americano contemporaneo, qui si direbbe che si sia
voluto frenare (anche circa il suo leggendario feticismo dei piedi:
la mdp che scivola su Kerry Washington sul letto non si sofferma sul
suo piede nudo). All'esatto contrario di quanto ha starnazzato Spike
Lee, Tarantino sembra aver avuto paura di essere accusato di
exploitation.
Tarantino
è un poeta della violenza: indimenticabile (e molto orientale per
concezione) il dettaglio dei fiori bianchi che uno spruzzo di sangue
rende macchiettati. Ma
come sempre il punto più alto del suo cinema viene raggiunto in quei
momenti di “sospensione” in cui i personaggi parlano a ruota
libera (ciò che accade nella vita, ma di rado il cinema lo ha reso
così bene). Grandi i dialoghi, aerei e deadpan;
grande la “lezione” di frenologia di Leonardo Di Caprio; ma il
vertice lo raggiunge il geniale episodio della posse
di razzisti mascherati (gli antenati del Ku Klux Klan), scena sublime
nella sua delirante comicità, coi cavalieri mascherati che litigano
sui cappucci che impediscono la vista, criticano la moglie di uno di
loro per averli cuciti male, e quello s'incazza perché non sopporta
che si critichi la sua signora, volta il cavallo e se ne torna a
casa... Proprio come in “Bastardi senza gloria”, non tutti i
momenti del film sono dello stesso livello, ma alcuni sono degni di
un'ideale antologia del cinema di Tarantino, del cinema in assoluto.