Prima
di parlare del magnifico western di Quentin Tarantino, s'impongono
due avvertimenti al lettore. Uno: la presente recensione è piena di
spoiler, e non consiglierei di leggerla prima di aver visto il film.
Due: purtroppo ho avuto modo di vedere solo la versione italiana,
doppiata (urgh!) e più breve (doppio urgh!).
The
Hateful Eight è quasi un Kammerspiel con otto personaggi
chiusi nell'Emporio di Minnie al riparo dal gelo omicida, in mezzo al
nulla di un paesaggio innevato. Questo crea un interessante corto
circuito col sottovalutato Revenant di Alejandro González
Iñárritu. Però se il film di Iñárritu si fonda sulla lotta
dell'uomo contro la natura, in Tarantino la natura è una minaccia
invincibile e indifferente; tant'è vero che il film si svolge tutto
in un interno - tranne l'apertura, dove il problema è proprio quello
di uscire dalla natura per sopravvivere, e il flashback, dove la
forza distruttrice del gelo viene usato come mezzo di tortura e
distruzione. Piuttosto che Iñárritu, il riferimento migliore per
questa storia spietata è il capolavoro (con Django) di un
autore che Tarantino conosce a memoria: Il grande silenzio
di Sergio Corbucci.
Chi
non trova rifugio muore; l'impossibilità di qualsiasi progetto umano
di sopravvivenza nel freddo mortifero coincide, in qualche modo
rispecchiandola, con la riflessione ironicamente nichilista di
Tarantino sull'impossibilità di qualsiasi progetto umano in
assoluto. Non per nulla una delle prime immagini di The Hateful
Eight è un Cristo ligneo coperto di neve. L'elemento umanitario
della religione non esiste, è ghiacciato. In questo senso, esso ha
esattamente lo stesso ruolo della lettera autografa di Abramo Lincoln
venerata dai due co-protagonisti Samuel L. Jackson e Kurt Russell, la
quale nel corso del film finisce prima sputacchiata, poi persa sulla
neve, poi coperta di macchie di sangue e infine, nell'ultima
immagine, appallottolata e gettata via. Ma c'è di più: il movimento
di macchina che allontanandosi dal Cristo svela la diligenza in
arrivo (prima apparizione umana nella storia) si oppone circolarmente
a quello del finale che allontanandosi dai due feriti moribondi sul
letto fa entrare nel quadro la donna impiccata.
E'
per la sua perentoria compattezza drammaturgica che The
Hateful Eight può essere
considerato il miglior film di Tarantino dai tempi di Kill
Bill, diverso dall'amabile
manierismo (pur
costellato di pagine affascinanti) di Bastardi senza gloria
e Django Unchained.
Epos di un mondo di lupi, The Hateful Eight è
una Quest, una ricerca del Sacro Graal all'incontrario. La
missione del bounty killer
Kurt Russell è di portare in città una donna (Jennifer Jason Leigh)
non per salvarla ma per farla impiccare, in base a una sorta di
moralismo professionale (Jackson, suo collega nel
mestiere, preferisce
consegnare i cadaveri: danno meno fastidio). A questo proposito è
importante il discorso del
boia inglese nel
film, che
esprime perfettamente la contraddizione insita
nella legge quale
garante dell'uccidere; ma va
chiarito che Tarantino la
mette in scena
come una contraddizione reale, legata
al vivere sociale, e non come
la solita denuncia a
sfondo buonista di un
paradosso linguistico.
L'assunto morale
è così enunciato:
“Soltanto i brutti bastardi vanno impiccati, ma i brutti bastardi
li devi impiccare”.
La
compattezza del film
amplifica e potenzia – a
differenza dei due sopra citati - il classico grottesco
tarantiniano (che riempie il film al pari del suo classico dialogo
pieno di espressioni fulminanti, come “il laissez-faire dei
cappelli”, e dei riferimenti allusivi nei nomi). Memorabile
l'apparizione davanti alla diligenza di Samuel L. Jackson seduto su
tre cadaveri congelati, una strizzata d'occhio tanto a Ford quanto a
Leone; mentre la canzone di Jennifer Jason Leigh alla chitarra
riproduce un elemento semidimenticato del western classico,
l'intermezzo musicale (e com'è noto, quando Kurt Russell sfascia la
chitarra, per errore è finita distrutta una preziosa chitarra
d'epoca… realizzando una non voluta “tarantinata” oggettiva).
Memorabile il bandito ferito che offre ai bounty killer il proprio
futuro cadavere come parte del prezzo per corromperli. O Jennifer
Jason Leigh che per non trascinarsi ammanettata a un morto gli taglia
il braccio – e finirà impiccata con quel braccio che penzola come
un enorme macabro braccialetto.
La
violenza in Tarantino è sempre un'esplosione improvvisa: in questo
regista la costruzione dell'irruzione della violenza segue le stesse
regole della costruzione di una gag. In particolare, Jennifer Jason
Leigh (grande interpretazione in un film pieno di grandi
interpretazioni) è una specie di punching ball femminile per
i colpi brutali di Kurt Russell. Lei, coi denti guasti e poi rotti,
il viso devastato e i capelli sudici, è completamente deprivata di
caratteristiche di attrazione sessuale (un paio di sguardi con
intenzione lanciati a Jackson all'inizio rientrano nel sarcasmo più
che in un tentativo di offerta di sé). Se questo vale per i
personaggi, vale anche per lo spettatore. The Hateful Eight
rovescia il
topos western della
donna prigioniera perché
l'universo amoroso o erotico è totalmente assente (quando in
una scena compare un accenno di galanteria, è un inganno prima di
sparare). Ma anche l'uscita di scena di Kurt Russell è un
rovesciamento delle attese dello spettatore, non per la morte in sé
ma per il modo in cui avviene a metà storia, spiazzante quasi quanto
l'assassinio di Janet Leigh in Psycho.
Se
The Hateful Eight ha piena
legittimità di western,
e mi
limito a ricordare che (Charles)
Marquis Warren, nome di Jackson nel film, era un regista di western
di serie B, nondimeno è
attraversato dalla “deriva dei generi” che caratterizza il cinema
moderno. L'avvelenamento
del caffè da parte della
classica mano nascosta introduce
un elemento preso dal
thriller e addirittura dal whodunit.
Lo stesso Tarantino
ha parlato di omaggio a La cosa
di Carpenter, come conferma il carattere irreale
e quasi horror di queste improvvise enormi vomitate di sangue; per
non parlare del viso di
Jennifer Jason Leigh
interamente rosso
di sangue nel finale
che richiama visibilmente
Carrie (oltre che L'esorcista).
Il
film è diviso in capitoli, ciascuno col suo bravo titolo, il che di
per sé introduce nella narrazione un elemento enunciativo;
nonostante ciò, The Hateful Eight - che è diviso in un primo
e un secondo tempo per esplicita scelta di Tarantino - nella prima
parte compie un voluto inganna degli spettatori con la sua apparenza
di realismo oggettivo. Questa si rovescia audacemente nella seconda
parte, con il capitolo intitolato “Domergue ha un segreto”:
l'entrata improvvisa di una voce narrante astratta segna il passaggio
dal realismo oggettivo all'entrata in prima persona (cioè
all'enunciazione) di quell'istanza narrante per la quale i teorici
francesi si sono sbizzarriti a trovare una mezza dozzina di nomi, fra
i quali scelgo il “meganarratore filmico”. E' ovvio che
l'enunciazione di questa istanza serve anche a denunciare la sua
presenza nascosta nella prima parte (col risultato, fra l'altro, di
de-umanizzare in qualche modo i personaggi). Ma c'è di più. La voce
narrante compie qui quella che in teoria si chiama metalessi,
intervenendo direttamente sull'ordine del discorso (“Facciamo un
passo indietro”) e riportandoci a 45 secondi prima. Ci mostra la
mano misteriosa che versa il veleno nel caffè e ci avverte che la
sola Jennifer Jason Leigh, Domergue, l'aveva visto; indi si permette
quello che chiamerei, in modo poco accademico, un autentico sogghigno
enunciativo: “Ecco perché questo capitolo si intitola Domergue
ha un segreto”. Lo stesso gioco, in forma più mediata, si
ripete più tardi nel quinto capitolo con la didascalia “Quella
mattina, ore prima”. Inutile osservare che questo modo di lavorare
sul tempo ci riporta al Tarantino “kubrickiano” di Jackie
Brown.
L'America
del film di Tarantino è l'anti-melting pot. Se pensiamo alla
visione di John Ford, quale viene enunciata visivamente con chiarezza
plastica nel finale “fondatore” di Drums Along
the Mohawk (La più grande avventura), Tarantino si situa
esattamente all'opposto. Non solo l'odio di razza scorre spumeggiando
fra personaggi presenti e assenti (ricordiamo la grande battuta circa
Minnie e il suo cartello su cani e messicani) ma l'emporio dove i
personaggi si sono rifugiati viene immediatamente diviso fra Nord e
Sud. Il bounty killer negro Jackson rappresenta l'orgoglio di una
razza perseguitata ma, come sentiamo nel dialogo, da militare ha
compiuto i suoi massacri contro i pellerossa, il che andava benissimo
all'esercito; lui ha dovuto lasciarlo dopo un massacro di bianchi
della sua stessa parte nel corso dell'evasione dal campo di prigionia
confederato. E', quello di Tarantino, un homo homini lupus che
va ben oltre le connotazioni “eroiche” di Django Unchained
e Bastardi senza gloria (e, in chiave pop, di Kill Bill)
– confermandosi nella crudeltà del gioco di provocazione con cui
Jackson spinge il vecchio generale confederato (Bruce Dern) a una
parodia di duello per potergli sparare.
Fedele
alla mentalità nichilista e barocca di Sergio Corbucci, il già
citato Il grande silenzio si chiudeva sul trionfo della morte.
E' un trionfo della morte anche The Hateful Eight;
e la riconciliazione fra un negro e un bianco, fra un ex
nordista e un ex sudista, può avvenire solo all'ombra della morte
imminente. E questo dà un doppio senso alla frase contenuta nella
lettera di Lincoln che spunta per l'ultima volta nel finale:
“Immagino sia tempo di andare a dormire”. Fra le doti del
terribile Tarantino non manca una vena di malinconica poesia.