Poiché
il simpatico Kong –
Skull Island di
Jordan Vogt-Roberts è
prodotto dalla Legendary Pictures – la stessa compagnia
che ci aveva dato
l'ultimo Godzilla di Gareth
Edwards – e
considerando che sono già pianificati i sequel si
può individuare una linea generale, in linea con la correttezza
politica ed ecologica
hollywoodiana:
il mostro titolare è
arruolato senza esitazione nelle file dei buoni. Di conseguenza si
batte contro
altri mostri e
funziona da protettore del mondo
(bisogna ricordare che questa
“evoluzione” era già accaduta
ai mostri dei kaiju eiga giapponesi,
e proprio Godzilla in testa, anche se per motivi leggermente
diversi). Quanto agli umani, di conseguenza, o sono grati o sono
stupidi.
In
Kong – Skull Island,
infatti, il King Kong
più grande della storia del cinema sembra il nemico (la
classica battaglia contro le “piccole cose volanti”, aerei o
elicotteri, che nella tradizione konghiana segnava il gran finale qui
avviene al primo incontro) ma in realtà è un difensore dell'isola –
per sineddoche, della Terra – contro i veri mostri cattivi, che
salgono dalle profondità sotterranee. A proposito, la presente
recensione contiene spoiler più grossi di Kong, quindi conviene
leggerla dopo visto il film.
Sorge
però un problema che non si era posto con il dinosauro Godzilla.
Siccome Kong è il buono, non può neanche concupire l'erede di Fay
Wray, la fotografa interpretata da Brie Larson. Anche per questo, qui
le dimensioni della Bella e della Bestia sono tanto distanti da
annullare la metafora sessuale presente nel mito originario. Quindi
il tema della fascinazione si limita a un ripetuto scambio di
sguardi.
Una
digressione. Val la pena di notare un tratto molto interessante del
film: vi si ripetono solo due scambi di sguardi diretti, da occhi a
occhi: quello dell'amore (Kong e la bella fotografa) e quello della
guerra (Kong e il suo nemico, il colonnello interpretato da Samuel L.
Jackson). Ha senso, questo, perché lo sguardo dell'amore e quello
dell'odio implicano allo stesso modo un riconoscimento.
Sulla loro analogia ci sarebbe molto da scrivere.
Ah,
ma il grumo mitico della storia di King Kong non è quello delle
dimensioni gigantesche, e non è neppure l'immagine – pur fondante
– dello scimmione fra i grattacieli (che qui manca): è proprio il
concetto dello scimmione che rapisce la bella, in più col dettaglio
sadico-feticista della donna come una bambola nelle sue mani: la
famosa scena censurata dello “spogliarello” di Fay Wray. Il che
ci colpisce nel profondo perché, dietro l'innaturalità delle
dimensioni, chiama in causa il terrore dello stupro e della
miscegenation, l'accoppiamento innaturale e proibito. Il poeta
Ovidio ne sarebbe rimasto affascinato.
Abbiamo
quindi un remake di King Kong che sul piano dell'inconscio è ancora
più revisionista di quanto appaia. Il film ne risulta certamente
indebolito come spinta mitopoietica, e questo è un fatto. Peraltro,
essendo un onesto lavoro artigianale, non mena il can per l'aia in
proposito. Si svolge interamente sull'isola, in coerenza col suo
titolo, e rinuncia al classico itinerario di scoperta e rivelazione,
reso inutile dalla conoscenza collettiva del concetto base. Così, la
manona di Kong compare già all'inizio del film, in un vivace prologo
che vede coinvolti un pilota americano e uno giapponese ai tempi
della seconda guerra mondiale.
Il
tempo del racconto vero e proprio è il 1973; la guerra del Vietnam è
appena finita, gli americani si ritirano, e un gruppo di soldati
(piuttosto sfortunati, vien da aggiungere) invece di tornare a casa
viene mandato in un'ultima missione ad accompagnare uno scienziato
(John Goodman) nella misteriosa Skull Island. L'uso del napalm per
attentare alla vita di Kong è un ovvio riferimento ai tempi.
Su
questa collocazione temporale si innesta l'invenzione più raffinata
del film: il richiamo visivo ad Apolcalypse Now, che cita a piene mani (certe inquadrature del
sole rosso nel cielo nella
fotografia di Larry Fong, la descrizione visuale della tribù dipinta dei
nativi, ed anche la barca armata con cui i superstiti navigano sul
fiume). E' in omaggio all'origine di Apolcalypse Now,
Cuore di tenebra, che
troviamo nel gruppo i cognomi Conrad e Marlow.
Su
un piano più leggero, giacché un
personaggio è rimasto prigioniero sull'isola per vent'anni (il
pilota americano, John C.
Reilly) il
film arpeggia in modo
divertente sullo shock culturale quando incontra gli americani del
1973 (sulla musica rock: che roba
è?). Ma non bisogna prendere
Kong – Skull Island
per più di quello che è:
un piacevole action
movie, basato su una
realizzazione in CGI davvero buona. I mostri
che popolano l'isola sono molto
riusciti: il ragno gigantesco fa
una comparsa realmente inquietante, e i cattivissimi
lucertoloni provvedono un
nemico adeguatamente inumano
e repellente. Diverte a tal
proposito notare
che i realizzatori del film hanno semplicemente spostato, e non
eliminato, la barriera buono/cattivo tra le specie: se nel primo King
Kong (e qui nella visione del
colonnello) l'opposizione
è umano vs. animale, nel
presente film è mammiferi vs. rettili e invertebrati.
Nel
volto di Kong la CGI crea un
affascinante mix fra la struttura scimmiesca
e dei tratti espressivi “umani” che lo rendono più
vicino a noi. Va da sé che
gli scontri fra Kong e i
mostri di livello inferiore sono una meraviglia. Così, anche se
l'ottica si è spostata, anche se il nucleo del mito se n'è andato,
comunque il film è un gran divertimento, e rappresenta due
ore ben impiegate.