sabato 21 settembre 2019

C'era una volta a... Hollywood

Quentin Tarantino


Disclaimer: questa recensione è piena di spoiler (Tarantino direbbe of fucking spoilers) e chi voglia leggerla è caldamente consigliato di farlo solo dopo aver visto il film.

C'era una volta a... Hollywood, com'è giusto per un film di Quentin Tarantino, è un film di corpi. Corpi segnati di cicatrici come lo stuntman Cliff Booth (Brad Pitt); corpi logori con occhiaie di preoccupazione e stanchezza come l'attore in declino e bevitore Rick Dalton (Leonardo DiCaprio); corpi che russano pesantemente quando dormono come due belle donne nel film; corpi sporchi come le hippies che rovistano come ratti nella spazzatura; corpi che sanguinano.
Al fondo di questo bellissimo film giace un concetto: la fragilità dei corpi degli attori (l'alcoolismo, l'invecchiamento, le delusioni che segnano il viso) in contrapposizione all'eternità im/materiale dei corpi filmici sulla pellicola. Il cinema è immortale, i corpi degli attori no.
E siccome i vicini di casa di Rick sono Roman Polanski e Sharon Tate, ci aspettiamo che questo concetto sfoci dolorosamente nel suo assassinio per mano della banda Manson. Tanto più che Tarantino – in uno dei suoi improvvisi momenti di poesia –sottolinea l'innocenza di Sharon Tate (interpretata da Margot Robbie) mostrandocela che va al cinema a rivedere Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm dove appare in un ruolo secondario, e nella sua ingenua felicità è commovente quanto Audrey Hepburn. Non solo il suo assassinio fa parte dell'enciclopedia” dello spettatore ma il film, quando il momento si avvicina, sembra prepararlo con la freddezza cronachistica della ricostruzione storica: didascalie di tempo incalzanti (quindi drammatizzanti) e presenza narrante della voce over. Questa non è mai soggettiva nel film ma è materializzazione dell'istanza narrante del racconto (vedi l'elemento di complicità, quando compare per la prima volta a inizio film, per un precisazione completa del consueto fucking tarantiniano): in base alle convenzioni del cinema possiede uno statuto di indiscutibilità.
Ma... ma quando si arriva al dénouement la storia si rovescia. Tarantino riscrive il passato: i tre hippies assassini non entrano nella villa dove c'è l'indifesa Sharon Tate coi suoi amici, bensì in quella accanto, dove stanno i protagonisti Rick e Cliff (l'uno sbronzo, l'altro fatto di LSD) e il pitbull Brandy – e mal gliene incoglie. E' un vero godimento vedere i tre bastardi morire di mala morte. Tarantino fa fuori le carogne hippie come aveva fatto fuori le carogne naziste in Inglorious Basterds (chi è cresciuto come lui guardando vecchi film e vecchie serie tv, c'è poco da fare, è cresciuto con una morale). La storia fattuale – in Basterds la grande storia, qui la cronaca nera – può venire corretta: come sempre per Tarantino il cinema è il luogo dove l'immaginario può riparare illusoriamente (“C'era una volta...”) alle colpe della realtà.
Si potrebbe osservare che c'è uno iato fra la prima e la seconda parte del film, del resto esplicitato anche da un lungo “nero” cui segue la didascalia “Sei mesi dopo”: quasi due film, o se preferiamo, un film e il suo seguito, satiricamente pessimista il primo, fiabescamente ottimista il secondo. E', questo iato indubbiamente spiazzante, una discrasia, un difetto dell'opera? Non mi pare: Tarantino ama la “forma doppia”: penso non solo a Dal tramonto all'alba (che è un prodotto Tarantino-Rodriguez anche se lo firma il secondo) ma a Grindhouse (altro prodotto dei due) nella sua concezione originale massacrata dai distributori italiani, o al doppio andamento della coppia Kill Bill, o ai due tempi, voluti dall'autore più che imposti dalla lunghezza, di The Hateful Eight.

Questa ampia e nostalgica rievocazione della Hollywood degli anni Sessanta tra realtà e fantasia, è un film buddy-buddy, di amicizia virile, quasi hawksiano nella concezione dei due protagonisti, Rick e la sua controfigura Cliff (Tarantino, lo sappiamo, ama gli stuntman), e del loro rapporto ineguale ma solido. Due figure segnate da una doppia sconfitta. Rick sta andando giù dopo aver rovinato la propria carriera lasciando la serie televisiva di successo Bounty Law per cercare di affermarsi sul grande schermo (mentre tutti, compresi gli assassini!, continuano a ricordarlo per il suo personaggio in quella vecchia serie). Cliff non trova lavoro a Hollywood perché gira la voce che abbia ucciso la moglie (nel flashback in barca con lei che stra-rompe, l'ellissi provvista dal fine flashback è vivamente ironica) riuscendo a cavarsela. Rick è piuttosto infantile, beve troppo e si piange addosso; la leggera balbuzie che emerge ogni tanto denuncia la sua insicurezza. Cliff – usato dall'altro come autista e uomo di fatica – nel film appare come il “vero uomo” del cinema western: forza e dignità. Infatti è puro western la sua entrata nello Spahn Ranch, il covo degli hippies di Charles Manson, dove in assenza del capo regna un'inquietante Dakota Fanning. La bellissima inquadratura degli hippies che entrano silenziosi in campo di spalle seguendo Cliff pertiene però all'horror.
Nelle figure dei due protagonisti Tarantino, secondo il suo modo usuale, rifonde e concentra una quantità di ricordi storici e suggestioni. Ciò gli offre l'occasione di un'affascinante serie di scherzi cinefili che incrociano riferimenti autentici e reinvenzioni (questo è un film che andrebbe visto almeno due volte per apprezzarne la ricchezza), con Rick che appare in serie tv realmente esistenti (esclusa Bounty Law) e Cliff che litiga e si batte con Bruce Lee, ben interpretato fra citazionismo e parodia da Mike Moh. Tarantino reinventa la storia del cinema, con quell'acribia filologica che possiede; per esempio, il passaggio sui “western spaghetti” interpretati da Rick in Italia è di una giustezza fenomenale – non dico per gli (pseudo)film attribuiti a Corbucci, Margheriti e Ferroni, ma chi altri avrebbe pensato a mettercene uno del grande Joaquin Romero Marchent?
Sono una delizia le clip dei film e telefilm interpretati da Rick che costellano il film, coi loro colori segnati dal tempo stile Grindhouse, come il film di guerra con Rick/McCluskey che arrostisce i nazi col lanciafiamme (il nome del personaggio è ovviamente un omaggio a McKlusky, metà uomo metà odio di Joseph Sargent). Il più eccezionale è però un film mai realizzato nemmeno nell'universo immaginario di C'era una volta a... Hollywood: vediamo una scena ipotetica de La grande fuga di John Sturges, che Rick aveva sperato di interpretare quando Steve McQueen si era ammalato, e la vediamo con Leonardo DiCaprio inserito digitalmente al posto di Steve McQueen.
Quando Tarantino si diverte e si dilunga a mostrarci le riprese del pilot della serie tv Lancer, interpretato da Rick nella parte del cattivo, regia di Sam Wanamaker, si fa notare un passaggio. Rick dimentica le battute e deve ovviamente riprendere da un punto prima; sentiamo la voce off del regista ma senza “Cut!”, non c'è una reale interruzione, non vediamo il dispositivo (cineprese eccetera); ovvero, siamo a metà strada fra il cinema e la realtà: la scena ci dice come per Tarantino il cinema sia realtà assoluta.

E' sul set di Lancer che Rick incontra la figura memorabile della bambina geniale (la piccola attrice, Julia Butters, deve avere qualcosa in comune col suo personaggio!), chiacchiera con lei ottenendo una lezione di recitazione che gli servirà, ma poi piange perché il romanzo western che sta leggendo su un domatore di cavalli in declino rispecchia la sua storia; l'incontro fra i due si sviluppa quasi in un mini-film commovente. Ecco di nuovo il gusto narrativo tarantiniano per le linee digressive. Quasi rossellinianamente in Tarantino l'inessenziale diventa essenziale.
A tale proposito: Tarantino è sempre l'uomo dei dialoghi fulminanti e vagamente filosofici, che non mandano avanti l'azione ma sono gemme del film. Qui forse sono meno filosofici ma spassosi come sempre – per esempio la tirata di Al Pacino, agente cinematografico, sui ruoli di cattivo come indice di decadenza di un attore (conclusa da un'esilarante parodia della serie tv Batman), o l'impagabile discussione fra Cliff e il vecchio Spahn (Bruce Dern).
Così abbiamo menzionato qualche nome supplementare di attore. Senza togliere nulla al gigantesco Leonardo DiCaprio e agli eccellenti Brad Pitt e Margot Robbie, ricordiamo che uno dei punti forti di Tarantino è la capacità “sinfonica” di ottenere una grande recitazione collettiva. In questo quadro val la pena di menzionare la giovane Margaret Qualley (figlia di Andie McDowell) nel ruolo di Pussycat – che esibisce un'ammirevole abilità di mimo.
E poi – ça va sans dire – in un film di Quentin Tarantino non può mancare il feticismo dei piedi femminili, che è una specie di firma, e qui trionfa in più bellezze diverse – a partire da Margot Robbie, dal cui bel piede nudo inizia la panoramica sul suo corpo mentre dorme a letto, più Margaret Qualley, e anche Lorenza Izzo (Francesca, la nuova moglie italiana di Rick). Ma stavolta c'è qualcosa in più. Come già accennato, sia Sharon Tate nella scena citata sia Francesca sull'aereo russano tutt'altro che dolcemente. Eh sì: anche le belle possono russare forte – e Tarantino ha il coraggio di mostrarlo.

All'inizio del film Rick esprimeva a Cliff come un sogno irrealizzabile la fantasia che essere vicino di casa di Roman Polanski lo portasse a fare un film con lui. Alla fine del film scopriamo che Sharon Tate è una sua ammiratrice... sempre per quella serie tv! Lo invita a casa propria – e l'apertura del grande cancello ha un valore simbolico perfetto. Un delizioso movimento in gru sale in verticale, passa sopra le piante e inquadra lo spiazzo davanti alla villa con Sharon Tate che abbraccia Rick. Su questo appare il titolo, dove il riferimento a Sergio Leone si trasforma nel finale di soddisfazione delle fiabe: Once Upon a Time in... Hollywood.

martedì 17 settembre 2019

Burning

Lee Chang-dong


Com'è noto Burning di Lee Chang-dong è tratto dal racconto di Murakami Haruki Granai incendiati (ne L'elefante scomparso e altri racconti, Einaudi 2017), ambientandolo in Corea e sostituendo ai granai le serre. Siccome ogni progetto nasce da uno stimolo, vien da chiedersi se il suo ideale “Big Bang”, il passaggio che ha ispirato il regista per il film, non sia quello in cui si dice che, fumando della buona marijuana, “la qualità dei ricordi... cambia” (Murakami, p. 34). Perché solo apparentemente questo film lento e sospeso, fatto di pause e di silenzi, è realistico; in una parola lo potremmo definire un thriller filosofico.
In apparenza tutto torna, nella storia del triangolo fra il protagonista Jong-su, aspirante scrittore, Hae-mi, la ragazza di cui è timidamente innamorato, e il ricco egomane Ben, che è un incendiario e forse un assassino; ma tra ambiguità, contraddizioni, microfratture questa realtà si sfalda; sotto la fattualità quotidiana non si perviene esattamente a determinare la “cosa in sé”. Verso la fine Jong-su confessa che non riesce a scrivere perché “per me il mondo è un mistero”. Potrebbe anche essere il racconto (se non il romanzo!) di un'ossessione – e allora si capisce come mai il film instauri una focalizzazione così rigida sul protagonista.
Il simbolo di Burning potrebbe essere il gatto di Hae-mi, Boiler, che Jong-su è incaricato di nutrire in assenza di lei. Ma dentro il piccolissimo appartamento il gatto non si lascia vedere. “Non è che anche Boiler esiste solo nella tua immaginazione?” – tanto più che più tardi apprendiamo che nel condominio non è permesso tenere animali. Però questa non è mera questione di veridicità o meno (il buon vecchio “A non è non-A”) della proposizione “Io ho un gatto”. Perché nell'appartamento il gatto è invisibile ma Jong-su vede le sue deiezioni nella cassetta... Ecco un'interessante versione cinematografica del gatto di Schrödinger.
La dichiarazione d'intenti del film sta nel discorso iniziale (ripreso dal racconto) di Hae-mi, che studia mimo e ne dà dimostrazione mangiando un mandarino immaginario: “Non si tratta tanto di far finta che ci siano i mandarini, ma di dimenticare che non ci sono” (Murakami, p. 27). Si capisce così il senso di quanto dice Hae-mi sui boscimani del Kalahari che distinguono la piccola fame degli affamati fisici e la grande fame di coloro che hanno fame del significato della vita, e su come nella danza la prima si trasformi nella seconda. Nulla nel film è fissato. Se abbiamo un gatto fantasma, abbiamo pure un pozzo fantasma (nel quale Hae-mi afferma di esser cascata da piccola e che forse esiste e forse no). E la serra “vicinissima” che Ben sostiene di aver incendiata dov'è – o cos'è? La scomparsa di Hae-mi indirizza il malessere conoscitivo in direzione della tragedia.
Una forte soggettività nell'approccio al reale è sempre stata una caratteristica del cinema di Lee Chang-dong (parallela al racconto in Oasis, teorizzata sul piano artistico in Poetry). Se in Peppermint Candy il tempo invertito del racconto marcava l'ineluttabilità della rovina, qui non è meno angosciosa questa nebbia della comprensione. E' un mondo senza un ubi consistam. Non lo offre la chiesa cattolica, il cui rito Jong-su spia indicativamente dall'esterno, da una posizione di estraneità (del resto, ricordiamo lo sguardo satirico di Lee Chang-dong sulla religione in Secret Sunshine). Non lo offrono le figure familiari, qui figure dell'assenza: il padre di Jong-su è visto solo nei processi per aggressione che lo riguardano; la madre di Jong-su lo incontra dopo anni per blaterare di uomini in nero che la perseguitano; la sorella con figli è solo menzionata nel film. Invero l'unico che ha genitori cui rivolgersi per aiuto è il vitello nella canzone comica che Jong-su canta mentre lo accudisce.
Bisogna aggiungere qualcosa su questa sorella di Jong-su. Priva di un ruolo nella diegesi, viene menzionata nel film, eppure, contrariamente a tutte le regole di sceneggiatura, non vi compare mai neppure con una telefonata – ma allora perché menzionarla? Precisamente come presenza/assenza; sospensione... la sorella invisibile come il gatto fantasma? Questo per dire che Burning contiene una forma di ironia metacinematografica onde la sceneggiatura – un po' come Ben dà fuoco alle serre – dà fuoco alle regole stesse della pièce bien faite: la logicità, la combinazione, le coincidenze esplicative, e nel caso in esempio il comandamento “Non menzionerai un personaggio invano”. Oppure pensiamo alle scene quasi parodistiche di pedinamento in auto quando Jong-su segue col suo scassato camioncino la Porsche di Ben rimanendo completamente visibile.
Resta da dire che questa realtà nebulosa non è sospesa nel vuoto ma è la Corea d'oggi – con l'alienazione metropolitana, con la propaganda nordcoreana che risuona all'orizzonte, con le differenze di classe (la ricchezza misteriosa di Ben, che viene paragonato al grande Gatsby; ampliando Murakami Jong-su commenta “Ci sono così tanti Gatsby in Corea”) e con le barriere di genere: il bizzarro discorso della ragazza bionda che lo conclude col “detto” (parole sue) “Non è un paese per donne”, e pensi subito ai fratelli Coen.
In questo mondo incerto e mutevole Jong-su gira perplesso e dolente, con un'impassibilità quasi keatoniana, e con una rabbia repressa che si accumula silenziosamente (burning), ed è un tratto di famiglia, secondo quel che sappiamo di suo padre – fino a esplodere. Si muove come stupefatto in un mondo irreale. Jong-su nel Paese delle Meraviglie? Anche Lewis Carroll parlava di gatti...

venerdì 13 settembre 2019

Pillole dalla Mostra di Venezia 2019



Piccoli post da Venezia per FB. Altri film (come J'accuse) saranno recensiti all'uscita.

l fragile e benintenzionato Les Epouvantails ("The Scarecrows") di Nouri Bouzid è il tipo di film che guardi per fare una buona azione. 5 è il numero perfetto di Igort è una trascrizione assai piacevole della sua graphic novel - pensare che doveva dirigerla Johnnie To! - molto hongkonghese in salsa di guapparia napoletana. Ma anche in salsa di graphic novel, con le sue astrazioni figurative che lo raffreddano. La vérité, di Kore-eda Hirokazu in trasferta, è un bellissimo film, del tutto kore-ediano nella sua trascrizione francese. L'attrice Catherine Deneuve e Juliette Binoche, madre e figlia in conflitto, danno corpo ai temi classici di Kore-eda: la famiglia e la percezione, come cambia nel corso del tempo; e questo mentre Catherine Deneuve interpreta un film di fantascienza che è un'evidente mise en abyme della storia, e perché non sembri una trovata ovvia Kore-eda si diverte a dichiararcelo in faccia continuamente... E non manca nemmeno il suo "timbro": l'animale magico.
Il sindaco del Rione Sanità di Mario Martone è come quelle tragedie shakespeariane che vengono messe in scena in abiti moderni. Eduardo parlava di una camorra del 1960 che oggi è storia antica, con un boss settantacinquenne; quello di Martone è un giovane con il comportamento aggressivo proprio dei boss d'oggi, dell'epoca della ferocia e della droga. Una contraddizione stimolante? O artificiosa e che fa risaltare senza volerlo le rughe del testo?
Se Christopher Nolan ha rotto tanto con le origini di Batman, è solo giusto che Todd Phillips dedichi un film alle origini del Joker. Joker è un'ingegnosa (ri)costruzione di come un underdog, il clown sfortunato Arthur Fleck, si sia trasformato nel futuro peggior nemico di Batman. Una spirale di disgrazie e umiliazioni fa riemergere una pazzia latente; il turning point è quando Arthur uccide a pistolettate tre bastardi aggressivi in metropolitana (fa benissimo, beninteso, ed è un vero piacere vederli morire); di lì, è il precipizio. Joaquin Phoenix è convincente nel ruolo, e la sua risata psicotica (che scoppia nei momenti più sbagliati per lui!) è un tratto che non dimenticheremo.
Non privo di qualche suggestione kubrickiana, il film ha diverse cose buone (c'è una scena splatter molto riuscita) ma appare anche piuttosto "pensato", costruito, un po' meccanico. Lascia un'impressione di opera altalenante. E infatti: alla fine, mentre Gotham City è in rivolta nella notte, il Joker alza le braccia come un Anticristo perverso davanti ai suoi seguaci mascherati da clown. Dici: ottimo finale. Dissolvenza - e invece dei credits il regista aggiunge un secondo finale del tutto inutile. Ah ces Américains...
Facevano bene gli americani a stampare sul denaro "In Gold We Trust" (poi c'è stato un errore di stampa ed è venuto God, ma questa è un'altra storia). Una volta il denaro era un mezzo di scambio, concreto e reale, come l'oro. Magari te lo rubavano di notte, ma aveva un'autenticità. Oggi - come ci spiegano Gary Oldman e Antonio Banderas all'inizio del delizioso The Laundromat di Steven Soderbergh - il denaro è diventato astratto, inessenziale, virtuale.
Giustamente, tutto comincia da un'onda. Quella che sommerge un battello turistico producendo 21 vittime, fra cui il marito della protagonista (una gigantesca Meryl Streep). Ma quando lei si rivolge all'assicurazione, attraverso lei scopriamo una miriade di scatole cinesi vuote; quell'onda, metaforicamente si ripercuote e ne produce altre, e la lezione di economia si sviluppa a catena, fino a rivelarci il megascandalo dei Panama Papers.
The Laundromat - non perdetelo su Netflix - è una lezione piena di humour e vivacità (scritta da Scott Z. Burns) su come l'inessenzialità del denaro abbia portato alla proliferazione di società vuote, puri gusci (shells) che servono a schivare le tasse a spese della gente normale. E' un film non solo istruttivo ma divertentissimo. Castigat ridendo offshores.
Uno dei misteri della Mostra è quello dei gemelli Assayas (altro che i gemelli Mantle cronenberghiani!). Perché non è possibile che il geniale Olivier Assayas, che ancora l'anno scorso ha portato il delizioso Doubles Vies, sia lo stesso che ha presentato quest'anno un film di imbarazzante bruttezza come Wasp Network. Deve avere un sosia.
Fondamentalmente Wasp Network riscrive a parti rovesciate il film maccartista I Was a Communist for the FBI (1951): gli agenti segreti del governo cubano sono i buoni che si infiltrano tra gli anticastristi di Miami, terroristi e spacciatori di droga. A livello di incapacità narrativa il film di Assayas si situa a mezza strada fra Il boia scarlatto di Massimo Pupillo e Miracolo a Sant'Anna di Spike Lee. Così, avevo persino pensato che il regista avesse voluto rifare parodisticamente un film brutto, del genere "so bad it's good" - ma non è così. Questo è solo bad.
The King di David Michôd mostra che gli sceneggiatori, David Michôd e Joel Edgerton, non hanno complessi d'inferiorità. Capisco sfidare Shakespeare e riscrivere la storia del principe Hal/Enrico V (Timothée Chalamet) e di Falstaff (Edgerton), con Falstaff che è molto saggio e in guerra è uno stratega; ma inserire nelle battute accenni shakespeariani, è da cuor di leone. E sì, c'è anche una nuova versione del discorso di Azincourt, dove Enrico V sembra un po' Al Pacino in "Ogni maledetta domenica". Ma attenzione, il film, benché un po' verboso, è avvincente e piacevole. 
Certo, resta la contraddizione del cinema in costume del nostro tempo: da un lato la messa in scena cerca di avvicinarsi il più possibile alla realtà storica effettuale (i combattimenti in armatura sembrano risse da osteria); dall'altro questa vicinanza alla storia quotidiana si accoppia a una lontananza sul piano culturale che sfiora l'anacronismo: i concetti e i sentimenti dei personaggi sono XXI secolo, non XV.
E non dimenticate: vale da solo il prezzo del biglietto vedere Robert Pattinson che (deliberatamente) ham
s it up, super-gigioneggia, nella parte del Delfino di Francia!
Inizio di No. 7 Cherry Lane di Yonfan: sopra le case della Hong Kong del 1967 passa un aereo ciclopico, come un'astronave di Star Wars. Ora, è vero che all'epoca del vecchio aeroporto gli aerei atterravano praticamente in città, passando sopra gli edifici: ma ovviamente non c'era questa sproporzione di dimensioni. La spiegazione è semplice: siamo nella dimensione della memoria, che modifica gli oggetti e i loro rapporti. "Guarda come sono volati via gli anni d'oro".
All'affascinante film d'animazione di Yonfan presiede esplicitamente Proust. La "ricerca del tempo perduto" è la materia di cui è fatto il sogno che è il film. Mentre la linea narrativa, di folgorante intensità nella grafica solo apparentemente semplice (e mutevole) del segno, è il rapporto amoroso, socialmente impossibile,fra una donna matura, la signora Yu, e il giovane Ziming. Un rapporto che nasce attraverso una discussione letteraria (chi aveva mai pensato a paragonare la Recherche e Il sogno della camera rossa?) e si rispecchia nella visione dei film della diva francese M.me Simone che i due vanno a vedere: in tutti si rispecchia la loro storia, e vederli è come parlarsi attraverso quei film.
Questa ricchissima opera di Yonfan si basa sul concetto di correspondance: ma non solo relativamente a romanzi e film: di poetiche correspondances fra momenti, personaggi, segni, il film è zeppo; ma anche di correspondances politiche. Con la sua evocazione di vecchie repressioni (a partire dalla Shanghai anteguerra) che richiamano immediatamente quelle nuove; e ancor più, con la sua evocazione innamorata e dolente della Hong Kong del passato. Oggi a Hong Kong la nostalgia è un atto politico.
Dopo lo sciocco e inutile Guest of Honour di Atom Egoyan, è stato una consolazione About Endlessness di Roy Andersson, l'autore di Un piccione seduto su un ramo riflette sull'esistenza. Diciamo la verità: questo film, Roy Andersson avrebbe dovuto intitolarlo "Paralipomeni del Piccione", perché sebbene sia un po' più slegato di quel film, il concetto è esattamente lo stesso, con i suoi personaggi immobili dal viso cereo, le sue brevi scene, le sue assurdità post-beckettiane. Sarà pure maniera; ma è grande maniera: sempre appassionante, stimolante, e cupamente comico.
C'è una cosa da aggiungere. Molti cineasti presentano una bella fotografia; pochi presentano una fotografia di costruzione pittorica e di gelida esecuzione come Andersson. Penso a quella brocca abbandonata nell'angolo inferiore destro nella scena dell'omicidio. Lui dice che gli piace Hopper, ma i suoi quadri fanno pensare al Vermeer più metafisico. E ovviamente la staticità delle sue scene permette di esaminarli a nostro agio come se fossimo in un museo.
L'horror è uno dei generi più politici, se non altro per le sue enormi possibilità metaforiche. Ma nel notevole La llorona di Jayro Bustamante (Guatemala-Francia) - se non proprio un horror, certo un film del soprannaturale - l'orrore nasce dalla realtà senza bisogno di metafore. La llorona è una creatura del folklore latinoamericano (già comparsa in un paio di film) che qui si presenta sotto le spoglie di una serva in casa di un generale autore di un genocidio, la cui condanna è stata annullata dalla Corte Costituzionale; ma contro gli spettri vendicativi non c'è magistrato corrotto che tenga. Da segnalare un'ottima idea narrativa: la moglie del generale, che lo difende fanaticamente, nei suoi incubi rivive col proprio corpo invecchiato i patimenti toccati alla ben più giovane Alma, ossia la llorona.
L'idea stessa di un plot tipo "Lei è un'adolescente malata di cancro e si innamora di un ragazzo drogato" sembra fatta apposta per far aggricciare i denti. Eppure, voglio testimoniarlo: Babyteeth ("Denti da latte") dell'esordiente Shannon Murphy, abilmente scritto da Rita Kalnejais, è un buon film. Invece di pestare sul pedale strappalacrime sceglie una narrazione matter of fact (e pertanto ancor più commovente) e percorsa da un filo di umorismo (le figure dei genitori di lei sono deliziose). Grande l'interpretazione della giovane Eliza Scanlen nella parte protagonista.
Uno dei film più intelligenti degli ultimi anni è The Death of Stalin (Morto Stalin, se ne fa un altro) dello scozzese Armando Iannucci. Ora il "controcampo storico" di quel film è fornito dal magnifico film di montaggio State Funeral di Sergej Loznitsa, che l'anno scorso alla Mostra ci aveva stupiti con Process, la storia di un processo-farsa dell'epoca staliniana interamente consistente di filmati d'epoca - dove solo le didascalie finali esplicitano il carattere di falsificazione criminal-paranoica di quel processo, e dunque il punto di vista del regista. Con State Funeral Loznitsa rifà più in grande l'operazione, montando una massa enorme di filmati d'epoca sui funerali di Stalin e sul lutto in tutta l'Unione Sovietica, nel 1953. Il suo film è affascinante, è una macchina del tempo: non solo sul piano oggettivo ma per l'abile rimontaggio di Loznitsa, che fra l'altro - di nuovo - non vuole sovrimprimere se stesso sulla materia, e si riserva solo le didascalie finali. In questo senso Loznitsa è l'esatto contrario di Esfir Šub.
E' certo divertentissimo sentire i discorsi dalla tribuna del mausoleo, carichi di lodi sperticate del defunto, non solo di Malenkov (futuro giubilato) e di Berija (futuro fucilato) ma di Molotov, che se Stalin fosse vissuto ancora un paio d'anni sarebbe stato vittima dell'epurazione che il despota preparava, insieme con Mikojan. Ma soprattutto, l'autentico dolore collettivo che attraversa la Russia ci dice molto sulla realtà del totalitarismo: il vožd (duce) come grande padre.