Com'è
noto Burning di Lee
Chang-dong è tratto dal racconto di Murakami Haruki Granai
incendiati (ne L'elefante
scomparso e altri racconti,
Einaudi 2017), ambientandolo in Corea e sostituendo ai granai le
serre. Siccome ogni progetto nasce da uno stimolo, vien da chiedersi
se il suo ideale “Big Bang”, il passaggio che ha ispirato il
regista per il film, non sia quello in cui si dice che, fumando della
buona marijuana, “la qualità dei ricordi... cambia” (Murakami,
p. 34). Perché solo apparentemente questo film lento e sospeso,
fatto di pause e di silenzi, è realistico; in una parola lo potremmo
definire un thriller filosofico.
In apparenza tutto
torna, nella storia del triangolo fra il protagonista Jong-su,
aspirante scrittore, Hae-mi, la ragazza di cui è timidamente
innamorato, e il ricco egomane Ben, che è un incendiario e forse un
assassino; ma tra ambiguità, contraddizioni, microfratture questa
realtà si sfalda; sotto la fattualità quotidiana non si perviene
esattamente a determinare la “cosa in sé”. Verso la fine Jong-su
confessa che non riesce a scrivere perché “per me il mondo è un
mistero”. Potrebbe anche essere il racconto (se non il romanzo!) di
un'ossessione – e allora si capisce come mai il film instauri una
focalizzazione così rigida sul protagonista.
Il
simbolo di Burning
potrebbe essere il gatto di Hae-mi, Boiler, che Jong-su è incaricato
di nutrire in assenza di lei. Ma dentro il piccolissimo appartamento
il gatto non si lascia vedere. “Non è che anche Boiler esiste solo
nella tua immaginazione?” – tanto più che più tardi apprendiamo
che nel condominio non è permesso tenere animali. Però questa non è
mera questione di veridicità o meno (il buon vecchio “A non è
non-A”) della proposizione “Io ho un gatto”. Perché
nell'appartamento il gatto è invisibile ma Jong-su vede le sue
deiezioni nella cassetta... Ecco un'interessante versione
cinematografica del gatto di Schrödinger.
La
dichiarazione d'intenti del film sta nel discorso iniziale (ripreso
dal racconto) di Hae-mi, che studia mimo e ne dà dimostrazione
mangiando un mandarino immaginario: “Non si tratta tanto di far
finta che ci siano i mandarini, ma di dimenticare che non ci sono”
(Murakami, p. 27). Si capisce così il senso di quanto dice Hae-mi
sui boscimani del Kalahari che distinguono la piccola fame
degli affamati fisici e la grande fame
di coloro che hanno fame del significato della vita, e su come nella
danza la prima si trasformi nella seconda. Nulla nel film è fissato.
Se abbiamo un gatto fantasma, abbiamo pure un pozzo fantasma (nel
quale Hae-mi afferma di esser cascata da piccola e che forse esiste e
forse no). E la serra “vicinissima” che Ben sostiene di aver
incendiata dov'è – o cos'è?
La scomparsa di Hae-mi indirizza il malessere conoscitivo in
direzione della tragedia.
Una
forte soggettività nell'approccio al reale è sempre stata una
caratteristica del cinema di Lee Chang-dong (parallela al racconto in
Oasis, teorizzata sul
piano artistico in Poetry).
Se in Peppermint Candy
il tempo invertito del racconto marcava l'ineluttabilità della
rovina, qui non è meno angosciosa questa nebbia della
comprensione. E' un mondo senza
un ubi consistam. Non
lo offre la chiesa cattolica, il cui rito Jong-su spia
indicativamente dall'esterno, da una posizione di estraneità (del
resto, ricordiamo lo sguardo satirico di Lee Chang-dong sulla
religione in Secret Sunshine).
Non lo offrono le figure familiari, qui figure dell'assenza: il padre
di Jong-su è visto solo nei processi per aggressione che lo
riguardano; la madre di Jong-su lo incontra dopo anni per blaterare
di uomini in nero che la perseguitano; la sorella con figli è solo
menzionata nel film. Invero l'unico che ha genitori cui rivolgersi
per aiuto è il vitello nella canzone comica che Jong-su canta mentre
lo accudisce.
Bisogna
aggiungere qualcosa su questa sorella di Jong-su. Priva di un ruolo
nella diegesi, viene menzionata nel film, eppure, contrariamente a
tutte le regole di sceneggiatura, non vi compare mai neppure con una
telefonata – ma allora perché menzionarla? Precisamente come
presenza/assenza; sospensione... la sorella invisibile come il gatto
fantasma? Questo per dire che Burning
contiene una forma di ironia metacinematografica onde la
sceneggiatura – un po' come Ben dà fuoco alle serre – dà fuoco
alle regole stesse della pièce bien faite: la
logicità, la combinazione, le coincidenze esplicative, e nel caso in
esempio il comandamento “Non menzionerai un personaggio invano”.
Oppure pensiamo alle scene quasi parodistiche di pedinamento in auto
quando Jong-su segue col suo scassato camioncino la Porsche di Ben
rimanendo completamente visibile.
Resta da dire che
questa realtà nebulosa non è sospesa nel vuoto ma è la Corea
d'oggi – con l'alienazione metropolitana, con la propaganda
nordcoreana che risuona all'orizzonte, con le differenze di classe
(la ricchezza misteriosa di Ben, che viene paragonato al grande
Gatsby; ampliando Murakami Jong-su commenta “Ci sono così tanti
Gatsby in Corea”) e con le barriere di genere: il bizzarro discorso
della ragazza bionda che lo conclude col “detto” (parole sue)
“Non è un paese per donne”, e pensi subito ai fratelli Coen.
In
questo mondo incerto e mutevole Jong-su gira perplesso e dolente, con
un'impassibilità quasi keatoniana, e con una rabbia repressa che si
accumula silenziosamente (burning),
ed è un tratto di famiglia, secondo quel che sappiamo di suo padre –
fino a esplodere. Si muove come stupefatto in un mondo irreale.
Jong-su nel Paese delle Meraviglie? Anche Lewis Carroll parlava di
gatti...
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