martedì 17 settembre 2019

Burning

Lee Chang-dong


Com'è noto Burning di Lee Chang-dong è tratto dal racconto di Murakami Haruki Granai incendiati (ne L'elefante scomparso e altri racconti, Einaudi 2017), ambientandolo in Corea e sostituendo ai granai le serre. Siccome ogni progetto nasce da uno stimolo, vien da chiedersi se il suo ideale “Big Bang”, il passaggio che ha ispirato il regista per il film, non sia quello in cui si dice che, fumando della buona marijuana, “la qualità dei ricordi... cambia” (Murakami, p. 34). Perché solo apparentemente questo film lento e sospeso, fatto di pause e di silenzi, è realistico; in una parola lo potremmo definire un thriller filosofico.
In apparenza tutto torna, nella storia del triangolo fra il protagonista Jong-su, aspirante scrittore, Hae-mi, la ragazza di cui è timidamente innamorato, e il ricco egomane Ben, che è un incendiario e forse un assassino; ma tra ambiguità, contraddizioni, microfratture questa realtà si sfalda; sotto la fattualità quotidiana non si perviene esattamente a determinare la “cosa in sé”. Verso la fine Jong-su confessa che non riesce a scrivere perché “per me il mondo è un mistero”. Potrebbe anche essere il racconto (se non il romanzo!) di un'ossessione – e allora si capisce come mai il film instauri una focalizzazione così rigida sul protagonista.
Il simbolo di Burning potrebbe essere il gatto di Hae-mi, Boiler, che Jong-su è incaricato di nutrire in assenza di lei. Ma dentro il piccolissimo appartamento il gatto non si lascia vedere. “Non è che anche Boiler esiste solo nella tua immaginazione?” – tanto più che più tardi apprendiamo che nel condominio non è permesso tenere animali. Però questa non è mera questione di veridicità o meno (il buon vecchio “A non è non-A”) della proposizione “Io ho un gatto”. Perché nell'appartamento il gatto è invisibile ma Jong-su vede le sue deiezioni nella cassetta... Ecco un'interessante versione cinematografica del gatto di Schrödinger.
La dichiarazione d'intenti del film sta nel discorso iniziale (ripreso dal racconto) di Hae-mi, che studia mimo e ne dà dimostrazione mangiando un mandarino immaginario: “Non si tratta tanto di far finta che ci siano i mandarini, ma di dimenticare che non ci sono” (Murakami, p. 27). Si capisce così il senso di quanto dice Hae-mi sui boscimani del Kalahari che distinguono la piccola fame degli affamati fisici e la grande fame di coloro che hanno fame del significato della vita, e su come nella danza la prima si trasformi nella seconda. Nulla nel film è fissato. Se abbiamo un gatto fantasma, abbiamo pure un pozzo fantasma (nel quale Hae-mi afferma di esser cascata da piccola e che forse esiste e forse no). E la serra “vicinissima” che Ben sostiene di aver incendiata dov'è – o cos'è? La scomparsa di Hae-mi indirizza il malessere conoscitivo in direzione della tragedia.
Una forte soggettività nell'approccio al reale è sempre stata una caratteristica del cinema di Lee Chang-dong (parallela al racconto in Oasis, teorizzata sul piano artistico in Poetry). Se in Peppermint Candy il tempo invertito del racconto marcava l'ineluttabilità della rovina, qui non è meno angosciosa questa nebbia della comprensione. E' un mondo senza un ubi consistam. Non lo offre la chiesa cattolica, il cui rito Jong-su spia indicativamente dall'esterno, da una posizione di estraneità (del resto, ricordiamo lo sguardo satirico di Lee Chang-dong sulla religione in Secret Sunshine). Non lo offrono le figure familiari, qui figure dell'assenza: il padre di Jong-su è visto solo nei processi per aggressione che lo riguardano; la madre di Jong-su lo incontra dopo anni per blaterare di uomini in nero che la perseguitano; la sorella con figli è solo menzionata nel film. Invero l'unico che ha genitori cui rivolgersi per aiuto è il vitello nella canzone comica che Jong-su canta mentre lo accudisce.
Bisogna aggiungere qualcosa su questa sorella di Jong-su. Priva di un ruolo nella diegesi, viene menzionata nel film, eppure, contrariamente a tutte le regole di sceneggiatura, non vi compare mai neppure con una telefonata – ma allora perché menzionarla? Precisamente come presenza/assenza; sospensione... la sorella invisibile come il gatto fantasma? Questo per dire che Burning contiene una forma di ironia metacinematografica onde la sceneggiatura – un po' come Ben dà fuoco alle serre – dà fuoco alle regole stesse della pièce bien faite: la logicità, la combinazione, le coincidenze esplicative, e nel caso in esempio il comandamento “Non menzionerai un personaggio invano”. Oppure pensiamo alle scene quasi parodistiche di pedinamento in auto quando Jong-su segue col suo scassato camioncino la Porsche di Ben rimanendo completamente visibile.
Resta da dire che questa realtà nebulosa non è sospesa nel vuoto ma è la Corea d'oggi – con l'alienazione metropolitana, con la propaganda nordcoreana che risuona all'orizzonte, con le differenze di classe (la ricchezza misteriosa di Ben, che viene paragonato al grande Gatsby; ampliando Murakami Jong-su commenta “Ci sono così tanti Gatsby in Corea”) e con le barriere di genere: il bizzarro discorso della ragazza bionda che lo conclude col “detto” (parole sue) “Non è un paese per donne”, e pensi subito ai fratelli Coen.
In questo mondo incerto e mutevole Jong-su gira perplesso e dolente, con un'impassibilità quasi keatoniana, e con una rabbia repressa che si accumula silenziosamente (burning), ed è un tratto di famiglia, secondo quel che sappiamo di suo padre – fino a esplodere. Si muove come stupefatto in un mondo irreale. Jong-su nel Paese delle Meraviglie? Anche Lewis Carroll parlava di gatti...

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