George Nolfi
Se è vero che il buon giorno si vede dal mattino, vale anche per il giorno cattivo. La bruttezza de “I Guardiani del Destino” (infantile adattamento hollywoodiano di un racconto minore di Philip K. Dick) si manifesta fin dall'inizio, dove la carriera politica del protagonista Matt Damon è presentata in un riassunto dilettantesco, montato senza gusto né leggerezza, che pare un trailer – tanto che il vostro recensore si è chiesto se il proiezionista non avesse mandato per sbaglio il “prossimamente” invece del film.
In realtà il rapporto con il racconto di Dick è assai lasco; il film e il racconto hanno in comune solo il concetto di un “Adjustment Team” che manipola e modifica le nostre vite. Quello che chiamiamo “caso” in realtà non è il caso: è l'opera di una rete di Guardiani dotati di poteri scientifici quasi soprannaturali che controllano lo sviluppo degli eventi - magari facendoti versare addosso il cappuccino, per cui devi cambiarti e arrivi in ritardo - per dirigere il destino dell'umanità. Di questo lavoro sentiamo nel film anche un'illustrazione storica, basata su un para-illuminismo da ignoranti degno di un manuale di storia della scuola italiana.
Se a Dick interessava più che altro fare una variazione sul suo tema base che la realtà non esiste, il film costruisce una storia avventurosa a sfondo romantico: i Guardiani cercano di impedire a tutti i costi che il giovane politico Matt Damon possa rivedere Elise (Emily Blunt), la donna che ha incontrato per caso in un momento di crisi e di cui si è innamorato a prima vista. Fanno in modo che i due non riescano a reincontrarsi; fallita questa, ricattano l'uomo minacciando di rovinare la vita di lei, che è una ballerina, se lui non l'abbandona. Giacché lui è destinato a diventare un Presidente degli Stati Uniti che cambierà in meglio le sorti del mondo, e il loro matrimonio lo impedirebbe.
Ma perché?, chiederete (lo chiede anche Matt Damon). Possibili spiegazioni logiche ce ne sarebbero: metti, lei avrà una cattiva influenza su di lui, oppure lo tradirà e lui andrà in depressione e diventerà alcoolizzato, o magari lei gli sparerà per gelosia... Però tutte queste soluzioni getterebbero una luce negativa sulla co-protagonista, e per il femminismo conformista di Hollywood ciò non è accettabile. Così il regista-sceneggiatore George Nolfi vien fuori con la spiegazione più idiota che si possa immaginare: Elise “completa” Matt Damon, e se lui la sposasse sarebbe troppo soddisfatto e addio “I have a dream”. Evidentemente Mr. Nolfi non è mai stato innamorato, se no saprebbe che l'amore dà forza propulsiva a espandersi nel mondo, meglio delle vitamine! E' dai tempi di “The Stepford Wives” di Frank Oz (macellato da una riscrittura voluta dalla Paramount) che non si vedeva un artifizio narrativo così goffo. Per inciso, nella sua battaglia contro la potentissima organizzazione Matt Damon avrebbe un'arma: minacciare di ritirarsi dalla politica se non gli lasciano la donna; ma non ci pensa mai.
Ora, va ricordato che una logica traballante si può ritrovare in molti film (Nicolas Cage è specialista) ma diventa urticante per lo spettatore solo se il film è fallito. Non sono le forzature logiche ad affondare “I Guardiani del Destino”, bensì la mediocrità di realizzazione che le fa salire in primo piano. L'idea è bella (implica varie riflessioni sul libero arbitrio e sugli effetti di un minimo incidente) ma come realizzazione il film è estremamente sciocco, e corre sempre sul filo della comicità involontaria. E' ridicolo che questi direttori occulti dell'umanità sembrino tutti gangster cinematografici di mezza tacca (a differenza che in Dick). Prima lo vediamo con Richardson (John Slattery), poi col suo superiore Thomson (Terence Stamp), che dopo l'“avvertimento” crudele dell'incidente a Elise si presenta a Matt Damon in ospedale gloating, con aria di minaccia gongolante, come nel più banale telefilm di mafia – e non fa meraviglia che si becchi un papagno. Sono ridicoli anche a prima vista, con quel cappelluccio (fedora) che piace tanto agli americani, e qui diventa la loro uniforme: quando li vediamo tutti e quattro col cappellino d'ordinanza, sembrano la delegazione del clan degli sfigati in visita a New York. Vero è che il cappellino ha anche un ruolo diegetico perché consente di attraversare le loro “porte” dimensionali, ma non poteva essere una spilla da cravatta, un badge, una cintura, magari un berretto da baseball?
Anche a livello di linguaggio cinematografico il film fa acqua. Ho già menzionato la brutta apertura, ma che dire di due orrende ellissi temporali, scaraventate con una didascalia senza la minima eleganza, senza non dico una costruzione della scena che trasmetta un senso di termine, ma neppure una semplice dissolvenza? Certo, la conclusione avventurosa, con la fuga dei protagonisti (con cappellino in prestito) fra le “porte” che si aprono su un punto e ne portano a un altro lontanissimo, ha un certo interesse – ma a questo punto lo spettatore (o almeno chi scrive) si è già sovranamente scocciato.
lunedì 27 giugno 2011
sabato 25 giugno 2011
L'ultimo dei templari
Dominic Sena
Diciamolo subito e togliamoci il pensiero: “L'ultimo dei templari” (“Season of the Witch”, diretto da Dominic Sena, scritto dal quasi esordiente Bragi Schut) non è un cattivo film come si sente in giro. Certo non bisogna aspettarsi, non dico Raoul Walsh, ma neppure Gore Verbinski. Fondamentalmente “L'ultimo dei templari” è un'avventura di Dungeons & Dragons: si tratta di andare da A a B superando una serie di ostacoli e, arrivati alla meta, spendere le energie residue nello scontro finale. Si vede con divertimento ma non c'è molto da commentare. Tuttavia, al di là dell'aspetto epidermico, si può riflettere su una contraddizione nel meccanismo narrativo.
Il film racconta di una coppia di cavalieri (Nicolas Cage e Ron Perlman, a.k.a. Hellboy) che hanno lasciato i crociati perché disgustati dai loro massacri di innocenti (i templari c'entrano solo nel titolo italiano). Arrestati per diserzione (e questa è grossa), vengono obbligati a scortare una giovane strega in catene, accusata di aver provocato la peste, fino a un monastero dove è conservata l'unica copia esistente di un testo esorcistico in grado di rimettere le cose in sesto.
A partire dalla sequenza della prigione, il racconto sembra costruirsi sopra il dubbio che questa strega (Claire Foy) sia solo una povera ragazza torturata dai fanatici. E' anche il dubbio di Nicolas Cage, che le promette: “Subirai un processo giusto” (pure questa è grossa. Vuol dire, con una giuria di suoi pari? La Magna Charta non era stata neppure stata scritta!). A poco a poco, però, con abile gradualità, si rivelano l'effettiva natura e pericolosità della strega - sicché il film diventa un incrocio fra “Solomon Kane” e “Quel treno per Yuma”. Molto bello, a un certo punto, un accenno di sorriso segreto della strega; fra gli interpreti del film (c'è anche Christopher Lee, irriconoscibile sotto una maschera di appestato) la migliore è proprio Claire Foy, che mette in scena una efficace carica di ambiguità.
Si potrebbe trovare una certa (limitata) sottigliezza in questo sviluppo graduale. Fatto sta che il film possiede un prologo - peraltro di discreta fattura - in cui una ragazza innocente e terrorizzata viene trascinata alla morte con l'accusa di stregoneria; viene annegata assieme ad altre due donne, l'una chiaramente innocente, l'altra inquietante (e con la faccia stregonesca d'ordinanza); e dopo l'esecuzione il cadavere rianimato di quest'ultima rispunta dal fiume e fa pagare il fio all'inquisitore.
E' evidente che questo prologo manda a gambe all'aria tutta la studiata ambiguità del racconto che segue, in quanto scodella subito quella proposizione - “gli inquisitori sono crudeli e fanatici ma le streghe esistono realmente” - che il resto del film cerca di rivelare a poco a poco (anche con un rovesciamento dello statuto morale del personaggio del prete). Così la parte migliore del suo gioco si perde. Rimangono comunque l'azione, l'enfasi, la sword and sorcery, e perché no, il videogame (i monaci-zombi nel finale). Derivativo quanto si vuole, eppure piacevole, questo fantasy medievale rientra perfettamente in quella specie di sub-genere corrivo ma non sconfortante che è il “Nicolas Cage movie”: fracassone, un po' sconclusionato, gigionesco come recitazione, costellato di one-liners alla diotifulmini: promette poco, ma quel poco lo mantiene.
Diciamolo subito e togliamoci il pensiero: “L'ultimo dei templari” (“Season of the Witch”, diretto da Dominic Sena, scritto dal quasi esordiente Bragi Schut) non è un cattivo film come si sente in giro. Certo non bisogna aspettarsi, non dico Raoul Walsh, ma neppure Gore Verbinski. Fondamentalmente “L'ultimo dei templari” è un'avventura di Dungeons & Dragons: si tratta di andare da A a B superando una serie di ostacoli e, arrivati alla meta, spendere le energie residue nello scontro finale. Si vede con divertimento ma non c'è molto da commentare. Tuttavia, al di là dell'aspetto epidermico, si può riflettere su una contraddizione nel meccanismo narrativo.
Il film racconta di una coppia di cavalieri (Nicolas Cage e Ron Perlman, a.k.a. Hellboy) che hanno lasciato i crociati perché disgustati dai loro massacri di innocenti (i templari c'entrano solo nel titolo italiano). Arrestati per diserzione (e questa è grossa), vengono obbligati a scortare una giovane strega in catene, accusata di aver provocato la peste, fino a un monastero dove è conservata l'unica copia esistente di un testo esorcistico in grado di rimettere le cose in sesto.
A partire dalla sequenza della prigione, il racconto sembra costruirsi sopra il dubbio che questa strega (Claire Foy) sia solo una povera ragazza torturata dai fanatici. E' anche il dubbio di Nicolas Cage, che le promette: “Subirai un processo giusto” (pure questa è grossa. Vuol dire, con una giuria di suoi pari? La Magna Charta non era stata neppure stata scritta!). A poco a poco, però, con abile gradualità, si rivelano l'effettiva natura e pericolosità della strega - sicché il film diventa un incrocio fra “Solomon Kane” e “Quel treno per Yuma”. Molto bello, a un certo punto, un accenno di sorriso segreto della strega; fra gli interpreti del film (c'è anche Christopher Lee, irriconoscibile sotto una maschera di appestato) la migliore è proprio Claire Foy, che mette in scena una efficace carica di ambiguità.
Si potrebbe trovare una certa (limitata) sottigliezza in questo sviluppo graduale. Fatto sta che il film possiede un prologo - peraltro di discreta fattura - in cui una ragazza innocente e terrorizzata viene trascinata alla morte con l'accusa di stregoneria; viene annegata assieme ad altre due donne, l'una chiaramente innocente, l'altra inquietante (e con la faccia stregonesca d'ordinanza); e dopo l'esecuzione il cadavere rianimato di quest'ultima rispunta dal fiume e fa pagare il fio all'inquisitore.
E' evidente che questo prologo manda a gambe all'aria tutta la studiata ambiguità del racconto che segue, in quanto scodella subito quella proposizione - “gli inquisitori sono crudeli e fanatici ma le streghe esistono realmente” - che il resto del film cerca di rivelare a poco a poco (anche con un rovesciamento dello statuto morale del personaggio del prete). Così la parte migliore del suo gioco si perde. Rimangono comunque l'azione, l'enfasi, la sword and sorcery, e perché no, il videogame (i monaci-zombi nel finale). Derivativo quanto si vuole, eppure piacevole, questo fantasy medievale rientra perfettamente in quella specie di sub-genere corrivo ma non sconfortante che è il “Nicolas Cage movie”: fracassone, un po' sconclusionato, gigionesco come recitazione, costellato di one-liners alla diotifulmini: promette poco, ma quel poco lo mantiene.
lunedì 13 giugno 2011
Pirati dei Caraibi - Oltre i confini del mare
Rob Marshall
I critici cinematografici – che, si sa, sono una razza dispeptica – hanno trattato piuttosto male il quarto episodio della serie, “Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare”, passato di mano da Gore Verbinski a Rob Marshall. Vero: la grande saga del capitano Jack Sparrow è diventata maniera (non è irrilevante che Johhny Depp, pur sempre piacevole, si faccia rubare la scena sia da Barbanera/Ian McShane sia da Barbossa/Geoffrey Rush).
Sì, è maniera. Però, è buona maniera. Gli eccellenti sceneggiatori, Ted Elliott e Terry Rossio, restano gli stessi, per cui si sente la continuità - attenta anche a gustosi tratti minimi (Capitan Barbossa ha ancora la passione delle mele acquistata quand'era un morto vivente, solo che, ora che è umano e ha fatto carriera, le mangia a fettine con la forchetta). La loro sceneggiatura ha sempre un punto di forza nel dialogo spiritoso (Angelica al suo seduttore Jack Sparrow: “Si può sapere che ci facevi tu in un convento spagnolo?” - “L'ho scambiato per un bordello, ero in buona fede”). Il parlato ama assumere un tono di eloquio umoristicamente “alto”, ben reso dal doppiaggio italiano (allarme di un pirata quando arrivano le guardie alla locanda: “Vedo tizi poco marinareschi di molto importuna natura”).
La trilogia di Gore Verbinski (che iniziava nella dimensione nostalgica e agrodolce del sogno) aveva acquistato via via una carica di amarezza: che qui manca, anche se rimane – declinato in maniera non drammatica – il gioco dello scambio e del destino. Verbinski è un ottimo regista, sebbene non appartenga alla prima fila, dotato di una sua forza visionaria e d'un ottimo senso del ritmo e dello spazio; Rob Marshall è solo un capace artigiano (il suo miglior film è il musical “Chicago”). Però Marshall segue con cura il modello, senza l'originalità genialoide di Verbinski ma con pulizia e chiarezza, e con adeguata solennità (l'uso delle riprese aeree per esaltare l'immagine). La scialuppa dell'ammutinato bruciata con un getto di fiamma dalla nave e l'attacco delle sirene alla barca dei pirati che fanno da esca sono efficacemente inquadrati “dal fondo” sott'acqua; queste riprese dal fondo replicano un'idea visuale di Verbinski, e quindi riprendono quel suo caratteristico concetto di ampiezza della visione. C'è sempre un ottimo uso delle fisionomie - ciò che non era riuscito al Polanski di “Pirati” - e non vale solo per la plebe, se pensiamo al delizioso Re Giorgio di Richard Griffiths (alias zio Vernon nella serie di Harry Potter). Anche i duelli mantengono un tono “eccessivo” verbinskiano (in quello alla fonte sembra di sentire un vago influsso di Jackie Chan); ed è un'ottima idea, in linea con l'atmosfera di indeterminatezza e di inversione della serie, che all'inizio Jack Sparrow duelli con se stesso (in realtà è Penelope Cruz travestita da lui).
Generosamente popputa, Penelope Cruz nel ruolo di Angelica, la figlia di Barbanera, è piacevole e convincente. I duelli verbali fra lei e Johnny Depp sono un po' meno brillanti di quelli con Keira Knightley nei film precedenti, ma non annoiano, e anzi contengono almeno una battuta di odiamore degna di Cary Grant e Katharine Hepburn: “Se tu avessi una sorella e un cane, sceglierei il cane”.
L'avventura è distribuita a piene mani (e comprende un bacio a Judi Dench in carrozza). Il clou del film è la sequenza horror delle sirene. I loro incantevoli visi innocenti (Gemma Ward, Astrid Berges-Frisbey) capaci di diventare all'improvviso zannuti e omicidi (c'è una certa ambiguità nella conclusione della storia d'amore della seconda!) sono una bella nuova pennellata in questo gigantesco affresco di orrori del mare che è la serie.
Magari dovremo ancora vedere una decina di puntate, ed è solo naturale – è il principio di entropia – che il livello abbia progressivamente a calare. Comunque sembra difficile che “Pirati dei Caraibi” possa arrivare alla saturazione e alla noia. Questa serie è proprio... yo ho ho, e... una bottiglia di rum.
I critici cinematografici – che, si sa, sono una razza dispeptica – hanno trattato piuttosto male il quarto episodio della serie, “Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare”, passato di mano da Gore Verbinski a Rob Marshall. Vero: la grande saga del capitano Jack Sparrow è diventata maniera (non è irrilevante che Johhny Depp, pur sempre piacevole, si faccia rubare la scena sia da Barbanera/Ian McShane sia da Barbossa/Geoffrey Rush).
Sì, è maniera. Però, è buona maniera. Gli eccellenti sceneggiatori, Ted Elliott e Terry Rossio, restano gli stessi, per cui si sente la continuità - attenta anche a gustosi tratti minimi (Capitan Barbossa ha ancora la passione delle mele acquistata quand'era un morto vivente, solo che, ora che è umano e ha fatto carriera, le mangia a fettine con la forchetta). La loro sceneggiatura ha sempre un punto di forza nel dialogo spiritoso (Angelica al suo seduttore Jack Sparrow: “Si può sapere che ci facevi tu in un convento spagnolo?” - “L'ho scambiato per un bordello, ero in buona fede”). Il parlato ama assumere un tono di eloquio umoristicamente “alto”, ben reso dal doppiaggio italiano (allarme di un pirata quando arrivano le guardie alla locanda: “Vedo tizi poco marinareschi di molto importuna natura”).
La trilogia di Gore Verbinski (che iniziava nella dimensione nostalgica e agrodolce del sogno) aveva acquistato via via una carica di amarezza: che qui manca, anche se rimane – declinato in maniera non drammatica – il gioco dello scambio e del destino. Verbinski è un ottimo regista, sebbene non appartenga alla prima fila, dotato di una sua forza visionaria e d'un ottimo senso del ritmo e dello spazio; Rob Marshall è solo un capace artigiano (il suo miglior film è il musical “Chicago”). Però Marshall segue con cura il modello, senza l'originalità genialoide di Verbinski ma con pulizia e chiarezza, e con adeguata solennità (l'uso delle riprese aeree per esaltare l'immagine). La scialuppa dell'ammutinato bruciata con un getto di fiamma dalla nave e l'attacco delle sirene alla barca dei pirati che fanno da esca sono efficacemente inquadrati “dal fondo” sott'acqua; queste riprese dal fondo replicano un'idea visuale di Verbinski, e quindi riprendono quel suo caratteristico concetto di ampiezza della visione. C'è sempre un ottimo uso delle fisionomie - ciò che non era riuscito al Polanski di “Pirati” - e non vale solo per la plebe, se pensiamo al delizioso Re Giorgio di Richard Griffiths (alias zio Vernon nella serie di Harry Potter). Anche i duelli mantengono un tono “eccessivo” verbinskiano (in quello alla fonte sembra di sentire un vago influsso di Jackie Chan); ed è un'ottima idea, in linea con l'atmosfera di indeterminatezza e di inversione della serie, che all'inizio Jack Sparrow duelli con se stesso (in realtà è Penelope Cruz travestita da lui).
Generosamente popputa, Penelope Cruz nel ruolo di Angelica, la figlia di Barbanera, è piacevole e convincente. I duelli verbali fra lei e Johnny Depp sono un po' meno brillanti di quelli con Keira Knightley nei film precedenti, ma non annoiano, e anzi contengono almeno una battuta di odiamore degna di Cary Grant e Katharine Hepburn: “Se tu avessi una sorella e un cane, sceglierei il cane”.
L'avventura è distribuita a piene mani (e comprende un bacio a Judi Dench in carrozza). Il clou del film è la sequenza horror delle sirene. I loro incantevoli visi innocenti (Gemma Ward, Astrid Berges-Frisbey) capaci di diventare all'improvviso zannuti e omicidi (c'è una certa ambiguità nella conclusione della storia d'amore della seconda!) sono una bella nuova pennellata in questo gigantesco affresco di orrori del mare che è la serie.
Magari dovremo ancora vedere una decina di puntate, ed è solo naturale – è il principio di entropia – che il livello abbia progressivamente a calare. Comunque sembra difficile che “Pirati dei Caraibi” possa arrivare alla saturazione e alla noia. Questa serie è proprio... yo ho ho, e... una bottiglia di rum.
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