Rob Marshall
I critici cinematografici – che, si sa, sono una razza dispeptica – hanno trattato piuttosto male il quarto episodio della serie, “Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare”, passato di mano da Gore Verbinski a Rob Marshall. Vero: la grande saga del capitano Jack Sparrow è diventata maniera (non è irrilevante che Johhny Depp, pur sempre piacevole, si faccia rubare la scena sia da Barbanera/Ian McShane sia da Barbossa/Geoffrey Rush).
Sì, è maniera. Però, è buona maniera. Gli eccellenti sceneggiatori, Ted Elliott e Terry Rossio, restano gli stessi, per cui si sente la continuità - attenta anche a gustosi tratti minimi (Capitan Barbossa ha ancora la passione delle mele acquistata quand'era un morto vivente, solo che, ora che è umano e ha fatto carriera, le mangia a fettine con la forchetta). La loro sceneggiatura ha sempre un punto di forza nel dialogo spiritoso (Angelica al suo seduttore Jack Sparrow: “Si può sapere che ci facevi tu in un convento spagnolo?” - “L'ho scambiato per un bordello, ero in buona fede”). Il parlato ama assumere un tono di eloquio umoristicamente “alto”, ben reso dal doppiaggio italiano (allarme di un pirata quando arrivano le guardie alla locanda: “Vedo tizi poco marinareschi di molto importuna natura”).
La trilogia di Gore Verbinski (che iniziava nella dimensione nostalgica e agrodolce del sogno) aveva acquistato via via una carica di amarezza: che qui manca, anche se rimane – declinato in maniera non drammatica – il gioco dello scambio e del destino. Verbinski è un ottimo regista, sebbene non appartenga alla prima fila, dotato di una sua forza visionaria e d'un ottimo senso del ritmo e dello spazio; Rob Marshall è solo un capace artigiano (il suo miglior film è il musical “Chicago”). Però Marshall segue con cura il modello, senza l'originalità genialoide di Verbinski ma con pulizia e chiarezza, e con adeguata solennità (l'uso delle riprese aeree per esaltare l'immagine). La scialuppa dell'ammutinato bruciata con un getto di fiamma dalla nave e l'attacco delle sirene alla barca dei pirati che fanno da esca sono efficacemente inquadrati “dal fondo” sott'acqua; queste riprese dal fondo replicano un'idea visuale di Verbinski, e quindi riprendono quel suo caratteristico concetto di ampiezza della visione. C'è sempre un ottimo uso delle fisionomie - ciò che non era riuscito al Polanski di “Pirati” - e non vale solo per la plebe, se pensiamo al delizioso Re Giorgio di Richard Griffiths (alias zio Vernon nella serie di Harry Potter). Anche i duelli mantengono un tono “eccessivo” verbinskiano (in quello alla fonte sembra di sentire un vago influsso di Jackie Chan); ed è un'ottima idea, in linea con l'atmosfera di indeterminatezza e di inversione della serie, che all'inizio Jack Sparrow duelli con se stesso (in realtà è Penelope Cruz travestita da lui).
Generosamente popputa, Penelope Cruz nel ruolo di Angelica, la figlia di Barbanera, è piacevole e convincente. I duelli verbali fra lei e Johnny Depp sono un po' meno brillanti di quelli con Keira Knightley nei film precedenti, ma non annoiano, e anzi contengono almeno una battuta di odiamore degna di Cary Grant e Katharine Hepburn: “Se tu avessi una sorella e un cane, sceglierei il cane”.
L'avventura è distribuita a piene mani (e comprende un bacio a Judi Dench in carrozza). Il clou del film è la sequenza horror delle sirene. I loro incantevoli visi innocenti (Gemma Ward, Astrid Berges-Frisbey) capaci di diventare all'improvviso zannuti e omicidi (c'è una certa ambiguità nella conclusione della storia d'amore della seconda!) sono una bella nuova pennellata in questo gigantesco affresco di orrori del mare che è la serie.
Magari dovremo ancora vedere una decina di puntate, ed è solo naturale – è il principio di entropia – che il livello abbia progressivamente a calare. Comunque sembra difficile che “Pirati dei Caraibi” possa arrivare alla saturazione e alla noia. Questa serie è proprio... yo ho ho, e... una bottiglia di rum.
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