Lee Isaac Chung
Dedicato “A tutte le
nostre nonne”, Minari di Lee Isaac Chung è un'imprevista
fusione di Corea e Stati Uniti. All'epoca della Presidenza Reagan,
una famiglia coreana – due giovani genitori immigrati e i due figli
– si trasferisce dalla California all'Arkansas, in una casa su
ruote, bloccata, in mezzo ai campi: lavoreranno in un allevamento di
polli ma il marito vuole anche fare il coltivatore. La moglie è
sconvolta da questa scelta (tanto più che il figlio piccolo, David,
è malato di cuore) e sulla coppia incombe la separazione.
E' in questo quadro di
equilibro familiare incerto che irrompe la figura della nonna appena
arrivata dalla Corea, figura assai vivacemente delineata, con cui
Yoon Yeo-jeong ha visto l'Oscar come miglior attrice non
protagonista: spara parolacce giocando a carte col nipotino, ruba
perfino soldi dal piatto delle elemosine in chiesa, si esalta vedendo
in tv il wrestling e prendendolo per realtà (“Picchia duro ma non
ucciderlo. Vinci ma senza fargli del male. Vai, vai, vai, vai!”).
Una
quieta narrazione classicheggiante, ben servita dalla fotografia di
Lachlan Milne, costruisce in Minari
uno svolgimento impressionistico, di piacevole immediatezza, sul
fluire della vita, dove le punte di tipo drammaturgico (sviluppo del
racconto tramite crisi) sono confinate nella seconda parte. Il film
(che come sempre conviene vedere in originale) si basa su una buona
definizione dei personaggi; non si può non ricordare la gustosa
figuretta di Paul, collaboratore entusiasta e pentecostale fanatico
che la domenica gira per la zona trainandosi addossi una croce, ma la
natura di Minari è
quella dell'intimismo familiare e del racconto di formazione. A parte
i dettagli personali (la malattia), che ignoriamo, l'autobiografismo
del regista e sceneggiatore coreano-americano Chung si incentra su
David, che sul piano dei sentimenti assume importanza di protagonista
nonostante i genitori abbiano lo spazio centrale. E' nella persona di
David che si svolge quel sommesso dramma di
partecipazione/estraneazione che sta alla base del film, contestuale
al rapporto prima di ostilità poi di complicità con la nonna appena
arrivata dalla Corea. E' iscritto nel film come questione implicita
l'allontanamento dei figli dalla cultura dei genitori, ovvero la loro
americanizzazione nel lungo termine. Quando il piccolo David dice con
disdegno che la nonna non è una vera nonna, il suo termine di
paragone sono le grannies
americane; dice con espressione significativa “La nonna puzza di
Corea”. Eppure, nel mondo del bambino piccolo cui è proibito
correre, che vive ogni giorno la possibilità della morte, questa
nonna bizzarra verrà a rappresentare un ubi consistam
imprevisto e salvifico.
Ritroviamo
nell'“ossessione” di Jacob, il padre, un elemento fondante della
cultura americana: la terra buona:
quando ne prende in mano una zolla elogiandola con parole commosse
davanti alla moglie scettica, potrebbe essere Ford o Wyler; nota il
discorso sulla coltivazione in proprio in opposizione alla povertà
ripetitiva del lavoro salariato; è stato suggerito, anche dal
regista, l'influsso di Flaherty O' Connor, ma naturalmente viene
evocato qui un complesso di sentimenti che la precede.
E' notevole che i
protagonisti siano una famiglia coreana: si pone il rapporto fra
integrazione (nota che hanno tutti nomi inglesi) e cultura d'origine
– nella quale ha parte importante il cibo: ecco la rilevanza della
scelta di Jacob che come coltivatore vuole produrre verdure coreane
destinate ai negozi per immigrati coreani in America. “L'America fa perdere
la memoria alle persone”, dice la nonna quando trova il posto
adatto sulla riva del fiume dove seminare il minari (una pianta usata
diffusamente come ingrediente in cucina ma che ha anche virtù
medicinali).
Anche il rapporto coi
figli è un compromesso più o meno conscio fra Corea e America (ove
talvolta il padre appare smarrito). Vedi la scena in cui David è
punito per un brutto scherzo alla nonna: è molto coreano
l'atteggiamento in cui deve stare con le mani alzate, come pure la
postura dei genitori, seduti rigidi davanti (il padre in primo piano,
la madre più indietro) in atteggiamento di giudici. Tuttavia,
l'ordine che sentiamo più di una volta nel film “Vai a prendere il
bastone” non si traduce mai in punizione fisica – e anzi, grazie
all'appoggio della nonna, si risolve in una gag infantile.
Solo alla fine, dopo
che la disgrazia ha colpito, i genitori e i due figli dormono tutti
assieme in terra, alla coreana, ciò che all'inizio il padre aveva
proposto e i figli si erano rifiutati di fare. La ricerca finale
dell'acqua con la bacchetta da rabdomante è un rito di
(ri)fondazione. In un film dove tutto assume di riflesso una valenza
metaforica, la nonna rappresenta il principio culturale nazionale.
Non per niente arriva portando cibo tradizionale coreano e insegna al
piccolo David a giocare con le carte coreane; e naturalmente è lei a
piantare il minari, metafora base del film: una pianta che cresce da
sola rigogliosamente vicino al fiume, un'“eredità”, che è
simbolo qui di resistenza e di rinascita.