sabato 17 aprile 2021

Night in Paradise

Park Hoon-jung

Nel bellissimo film noir coreano Night in Paradise di Park Hoon-jung, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2020 e ora disponibile online, si ritrovano i temi classici del genere in Corea: la vendetta, l'inganno, il tradimento dei capobanda, l'aspro romanticismo, la crudeltà che colpisce gli innocenti, la corruzione. Park Hoon-jung è un cineasta sperimentato (sceneggiatore di The Unjust e I Saw the Devil, del suo lavoro registico ricordo New World e il notevole dramma in costume The Showdown). In Night in Paradise la novità non sta nella trama o nei personaggi, con la possibile eccezione della bella figura della protagonista femminile interpretata dalla bravissima Jeon Yeo-been, ma nell'abilità e nella verve con cui Park è capace di rinnovare e vivificare una storia non inedita.
Tae-gu (Uhm Tae-goo) è un membro di una gang che per lealtà rifiuta di passare a una banda più forte. Per questo si vede uccidere la sorella, malata di cancro, e la nipotina. La sua vendetta fa saltare la pax mafiosa a Seoul. In attesa di emigrare, Tae-gu si nasconde nell'isola turistica di Jeju presso un trafficante d'armi, e si lega a sua nipote Jae-yeon che è malata terminale (nota il raddoppiamento con la sorella); ma ormai è in moto una spirale di rivalse e tradimenti – in cui vedremo che non tutto è quello che sembra. Anche il feroce boss Ma (Cha Seung-won), senza smettere di rappresentare l'immagine del più cattivo nel film, alla fine almeno è quello che ha più dignità. Nonostante l'approccio drammatico, il film contiene una corrente di umorismo, anche metacinematografico: quando il poliziotto corrotto, che vuole mantenere la pace e non vuole guai, rimprovera un capobanda per la guerra che ha scatenato osserva che non sono più i tempi delle guerre di mafia e ringhia: “Cosa state combinando? State girando un film?”
Fa parte del panorama del genere l'incrocio di melodramma e film d'azione, che raggiunge nel pre-finale un livello parossistico. E' senz'altro attraente il rapporto fra Tae-gu e Jae-yeon, che, malata e sofferente, tuttavia è tough as nails (una declinazione interessante della sassy girl di tanto cinema coreano): lui ingenuo e lei scafata, con la disperazione tenuta bravamente in sottofondo. Molto bello l'uso ritornante di un piccolo dialogo molto hard-boiled (sulla domanda “Stai bene?”) in puro stile Bogart-Bacall. Il loro timido – sotto aria da duri – semicorteggiamento fra lui e lei, in cui non fanno altro che dirsi “Non sei il mio tipo”, non si dimentica.
Quell'“essere per la morte” che sta al fondo del noir coreano (e non solo) qui è portato all'estremo – i due protagonisti sono condannati in partenza – definendo un destino di morte che si stende su tutto il film. C'è un romanticismo malinconico nell'immagine di Tae-gu che, costretto a consegnarsi ai nemici, fuma l'ultima sigaretta guardando il prato dove pascolano tranquillamente le mucche e poi il cielo. Alla fine c'è spazio solo per la vendetta, in una resa dei conti solennemente preparata da un gioco di variazioni d'inquadratura sul viaggio di Jae-yeon in scooter verso lo showdown. L'ultima scena sulla riva del mare cita all'inizio Truffaut, ma richiama esplicitamente il “cinema suicida” di Kitano.

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